Estratti da un’intervista al Rev. Isshō Fujita
pubblicata su ‘Inside Journal’ nella primavera 2005
Ci dica qualcosa riguardo la storia del Tempio Antaiji
Antaiji fu fondato nel 1920 appena fuori Tokyo da un
laico che ne voleva fare un luogo di formazione monastica per novizi che si
erano graduati all’Università di Komazawa a Kyoto, allora era una scuola
riconosciuta dalla Sōtō Shu.
Durante la Seconda Guerra Mondiale il Tempio fu in gran parte abbandonato. Sawaki Roshi lo utilizzava come rifugio per riposarsi tra un viaggio e l’altro.
Quando il mio Insegnante, Koho Watanabe, ereditò Antaiji da Koho Uchiyama Roshi, l’erede nel Dharma di Sawaki Roshi, decise di vendere il Tempio e acquistare un intero villaggio nel nord, nella nevosa regione ella prefettura di Hyogo.
Anche questo villaggio era stato abbandonato, così poterono acquistare una grande superfice di terreno con il ricavato della vendita del Tempio cittadino.
Così il nuovo Antaiji fu fondato nei primi anni 70 sotto la guida di Watanabe Roshi.
Decisero di seguire lo stile di vita dei monasteri Ch’an della vecchia Cina, con i monaci che provvedevano a coltivare la terra per il proprio sostentamento.
Antaiji non è un Tempio riconosciuto dalla Sōtō Shu, il che significa che non ha nulla a che vedere con i percorsi monastici istituzionali. Doveva così sopravvivere con le sue sole forze.
C’erano una media di 17/18 monaci residenti durante i sei anni che ho trascorso ad Antaiji. Era una comunità di praticanti e c’erano anche diversi Occidentali.
Poi il mio Insegnante mi chiese di trasferirmi in un monastero nel Kyushu per un anno e studiare da novizio là. Ma appena arrivai nel Kyushu ricevetti una telefonata del mio Insegnante che mi chiedeva di andare in America a prendermi cura di un Tempio lì.
Ci ho messo solo dieci secondi per decidere e accettare. Così sono arrivato a Charlemont nel Luglio 1987.
Riguardo l’ambito spirituale, qual’è stata la sua esperienza nel lavorare con i praticanti Americani?
Una delle
cose che ho notato molto spesso è che le persone vogliono imparare a gestire le
proprie emozioni, in special modo la rabbia.Durante la Seconda Guerra Mondiale il Tempio fu in gran parte abbandonato. Sawaki Roshi lo utilizzava come rifugio per riposarsi tra un viaggio e l’altro.
Quando il mio Insegnante, Koho Watanabe, ereditò Antaiji da Koho Uchiyama Roshi, l’erede nel Dharma di Sawaki Roshi, decise di vendere il Tempio e acquistare un intero villaggio nel nord, nella nevosa regione ella prefettura di Hyogo.
Anche questo villaggio era stato abbandonato, così poterono acquistare una grande superfice di terreno con il ricavato della vendita del Tempio cittadino.
Così il nuovo Antaiji fu fondato nei primi anni 70 sotto la guida di Watanabe Roshi.
Decisero di seguire lo stile di vita dei monasteri Ch’an della vecchia Cina, con i monaci che provvedevano a coltivare la terra per il proprio sostentamento.
Antaiji non è un Tempio riconosciuto dalla Sōtō Shu, il che significa che non ha nulla a che vedere con i percorsi monastici istituzionali. Doveva così sopravvivere con le sue sole forze.
C’erano una media di 17/18 monaci residenti durante i sei anni che ho trascorso ad Antaiji. Era una comunità di praticanti e c’erano anche diversi Occidentali.
Poi il mio Insegnante mi chiese di trasferirmi in un monastero nel Kyushu per un anno e studiare da novizio là. Ma appena arrivai nel Kyushu ricevetti una telefonata del mio Insegnante che mi chiedeva di andare in America a prendermi cura di un Tempio lì.
Ci ho messo solo dieci secondi per decidere e accettare. Così sono arrivato a Charlemont nel Luglio 1987.
Riguardo l’ambito spirituale, qual’è stata la sua esperienza nel lavorare con i praticanti Americani?
Questa preoccupazione non è così presente nei praticanti Giapponesi, e fu una sfida per me trovare il modo di rispondere a questa richiesta.
C’era una tendenza tra loro a prendere tutto troppo sul personale.
In altre parole credevano che avrebbero dovuto e potuto controllare ogni cosa. Questo rende la vita difficile, a volte in maniera inutile. Lo Zazen può controbilanciare questa tendenza.
Nel rientrare in Giappone dopo 18 anni in America, cosa si aspettava di ritrovare ?
Mi piace pensare che sono rientrato con una visione più ampia di quando sono partito 18 anni prima.
In Giappone c’è un’immagine stereotipata del prete, un’immagine che era difficile per me da accettare. Un prete è considerato qualcuno che gestisce un Tempio, ha una piccola congregazione di fedeli, e ha un ruolo sociale da svolgere in questa comunità.
Io non ho alcun interesse ad essere un prete da Tempio.
Non sono mai stato interessato.
Nonostante che quando io torni in Giappone abbia sempre la testa rasata e l’abito monastico, anche se uso spesso gli abiti da lavoro (samu-e) e non abiti più solenni mi rimane difficile far capire alle persone in che casella inquadrarmi. Non è ben visto chi non è facilmente inquadrabile in una casella sociale.
I preti dei Templi di solito usano un linguaggio fuori moda, arcaico, quando parlano del Buddhismo che forse può andar bene per i più anziani della comunità ma di certo allontana i più giovani.
Io spero che in qualche modo sarò capace di parlare a queste giovani generazioni con un linguaggio che abbia senso per loro e che si riferisca ad i veri problemi della loro vita.
(…) La grande sfida nel Giappone moderno per il Buddhismo è come dare risposte alle reali domande della gente.
Può darci alcune idee di come intende procedere per ottenere questo?
Io credo che ci siano due porte d’accesso alla pratica Buddhista: la destrutturazione e la ricostruzione.
Molte persone cercano di far collimare l’Insegnamento Buddhista con le loro idee pre-esistenti. Usano il Buddhismo per esprimere quello che gli piace credere. Questo accade sia in Giappone che in America.
In America le persone tentano di ricostruire i principi Buddhisti in accordo con le loro idee, ma non sono realmente interessati a destrutturare prima i loro pregiudizi e convinzioni.
Le persone cercano un rimedio veloce, mentre il cambiamento richiesto è molto profondo.
Il termine Buddhista Soto di Soto Zen significa “spazzare via” ovvero ripulire dal vecchio.
Quando costruiamo una casa, bisogna prima fare il lavoro di preparare il terreno ripulendolo.
Dobbiamo rivedere la stessa prospettiva da cui guardiamo alla vita.
Ma né preti Buddhisti né accademici stanno facendo questo in Giappone.
Io ho capito che la comunità dei monaci Giapponesi non è in grado di parlare riguardo i problemi fondamentali della vita della gente.
Così è stato impossibile per me unirmi a loro in un organismo istituzionale.
Il mio Insegnante diceva spesso che essere un Buddhista significa essere profondamente critico verso la cultura dominante.
Questa è stata anche la condizione del Buddha stesso che è stato un outsider rispetto alla cultura dominante del tempo.
Quando il Buddhismo viene addomesticato dalla cultura dominante, qualcosa non funziona.
Non ho paura di essere un outsider, e voglio vedere quali possibilità ho di fare una differenza in Giappone.
Ha qualche pensiero finale per i nostri lettori?
Trovo che sia entusiasmante il fatto che oggi si può avere accesso facilmente a tutti i testi Buddhisti, e che c’è la possibilità di studiare il Buddhismo per chiunque sia interessato.
Non dobbiamo rimanere intrappolati in visioni settarie o culturali del Buddhismo. Possiamo sollevarci al di sopra di queste. Ci è possibile accedere direttamente al ‘DNA’ per così dire.
Dogen riassunse l’intero Buddhadharma in una sola frase: “Sedere soltanto” (Shikantaza).
Questo fu il suo modo di cambiare il ‘DNA’.
Spero che le persone interessate negli Insegnamenti Buddhisti abbiano una profonda curiosità. Spero siano entusiasmati dalle profonde possibilità creative che offrono questi Insegnamenti, piuttosto che esplorarli solo come un mero hobby o idea.
© Tora Kan Dōjō
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