domenica 28 febbraio 2021

La vera gara è con sé stessi

 


Così dovrebbe essere, questo si dovrebbe insegnare ai bambini nella scuola e nello sport... sapersi fermare per essere al fianco di qualcun altro, per arrivare insieme, fare a gara a chi è più veloce a portare aiuto. Questa è l'unica cosa che valga davvero la pena insegnare per costruire uomini degni di essere chiamati tali.

Che senso ha essere i 'primi' se questo primato non torna a beneficio di tutti ?
Lo sport inteso come in questa storia lo intendono l’istruttore e il padre di Marco (e rappresentano la maggioranza degli istruttori e dei genitori…) non insegna nulla e genera mostri...

La Pandemia ha dimostrato che nemmeno chi ci governa sa quale sia il vero valore e significato dello sport.
Davvero vogliamo che lo sport invece di essere un potente strumento di sana formazione ed educazione continui ad essere la ricerca di una egoistica performance riservata a pochi e non un prezioso tesoro per tutti?

Taigō Kōnin Sensei


"A volte la bellezza delle cose ama sorprenderti"

di Antonio Musa

Questa è una storia decisamente fuori dalle mie corde ma ho deciso di fare uno sforzo e raccontarla lo stesso. Qualche giorno fa accompagno mio figlio Michele di nove anni in piscina, come sempre lo lascio negli spogliatoi e vado sugli spalti con il mio Kindle a ritagliarmi un’oretta di lettura tra i fischietti implacabili degli istruttori e il bel suono dell’acqua nuotata dai bambini.

Ma ecco il mio amico G. in arrivo! Oh no! Mi ha visto e si avvicina! Chiudo il Kindle e mi rassegno. Mi azzanna subito, spiegandomi in pochi minuti come Renzi cambierà radicalmente le sorti dell’Italia e dell’intero mondo occidentale, Stati Uniti compresi.

“Ok va bene, ma ora siediti che i bambini stanno entrando in acqua”.

Per fortuna non se lo fa ripetere due volte ed entrambi, con i gomiti poggiati sulla ringhiera, osserviamo i nostri bambini scivolare in acqua e iniziare le vasche di riscaldamento.

Ecco arrivare Chiara, la mia preferita. Ci mette molto ad arrivare Chiara con la sua camminata a scatti, asimmetrica, che ogni passo è una conquista. Arriva da sola, senza carrozzella, senza aiuto di nessuno, con la testa alta, ciondolante, e il sorriso più bello del mondo. Si ferma sempre sul bordo vicino alla scaletta e prima di entrare saluta tutti i bambini. Il nuoto è uno sport piuttosto autistico, non è uno sport di squadra e non è nemmeno uno sport individuale che stimoli l’interazione con l’avversario o gli altri praticanti. In realtà ogni nuotatore vive in solitudine il suo rapporto intimo con l’acqua, così che spesso gli istruttori fanno una fatica immane per ottenere un saluto dai bambini. Tuttavia, quando arriva Chiara e agita la sua manina a bordo vasca, tutti i bambini si fermano e rispondono al saluto. Solo allora lei entra in acqua e si dirige sorridente verso la terza corsia tra quelli della sua età (tredici/quattordici anni). Durante il percorso attraversa la prima e la seconda corsia, dove ci sono quelli più piccoli, come mio figlio, e lo fa sorridendo e accarezzando il viso di ogni bambino che incontra.

L’entrata in acqua di Chiara non è solo un attestato di riconoscimento di cui lei ha evidentemente bisogno ma è anche uno straordinario evento di squadra, forte, condiviso, affettuoso, un lampo di spensierata socialità, giusto un attimo prima che ognuno si dissolva, risucchiato nelle accattivanti solitudini del nuoto.

Una volta raggiunta la corsia Chiara inizia a nuotare con vigore senza fermarsi mai. È una meraviglia da vedere: nuota tutti e quattro gli stili anche se nessuno stile somiglia minimamente a quelli codificati. Lei li ha rielaborati adattandoli alle sue peculiari abilità motorie, reinventando il nuoto, reinventando la bellezza di stare in acqua. Non credo di aver mai visto tanta straripante felicità. Se le medaglie del nuoto si conquistassero misurando il piacere di stare in acqua, Chiara meriterebbe di diritto un posto nei blocchi di partenza al fianco di Phelps, Thorpe, Popov, Sullivan e tutti i più grandi.

Marco, il figlio del mio amico G., ha dieci anni, la natura e la frequentazione dell’acqua sin da tenera età gli hanno regalato un corpo allungato con spalle larghe e fianchi strettissimi, un corpo adatto alla velocità, e infatti lui è veloce e scivola nell’acqua con movimenti sapienti e sinuosi. L’allenamento di oggi consiste in partenze a coppie dai blocchi e scatti di 25 metri. Si parte in due per corsia così Marco, Claudio, Giacomo e Riccardo che sono i più veloci danno vita ad avvincenti testa a testa giocati su pochi centimetri. In realtà Claudio e Riccardo toccano quasi sempre per primi anche se Marco è nettamente il più veloce di tutti. Il problema di Marco è la partenza dai blocchi. Più che un problema è divenuto oramai un autentico dramma. Il suo, più che un tuffo di partenza, è una rovinosa caduta in acqua, che permette agli avversari di trovarsi subito con sei, sette metri di vantaggio, un’infinità in una distanza di 25 metri. Marco però è talmente veloce che, una volta in acqua, riesce a recuperare la distanza persa in partenza, toccando a volte addirittura per primo, ma l’istruttore non si da pace considerando il problema di Marco un suo fallimento didattico e, in preda a evidenti stati di frustrazione, perde spesso il controllo e non riesce a far meglio che urlare frasi del tipo: “Ma è mai possibile che tu non riesca a tirare fuori un tuffo degno di questo nome?”. Marco è timido, ha lo sguardo impaurito e, sottoposto a stress, s’incasina ancora di più, ogni tuffo è peggiore del precedente ma una volta in acqua la sua nuotata è perfetta, elegante, potente. Però, più lui nuota veloce, più l’istruttore si sente di avere tra le mani un campione da non farsi sfuggire. Costui è in realtà un autentico coglione. Quando Marco è sul blocco si avvicina urlando e mimando le varie sequenze del tuffo senza nemmeno accorgersi che il bambino non lo ascolta più staccandosi continuamente gli occhialini dal viso per far uscire le lacrime. Anche il padre, in piedi al mio fianco, esprime il suo disappunto: “Eh, ma se questo bambino non si sveglia…”.

I coglioni sono purtroppo due, povero Marco!

Ad un certo punto, con la tensione a mille, accade che Marco, a circa metà vasca, colpisce involontariamente Chiara che proveniva in direzione contraria nell’altra corsia, sfilandole gli occhialini e la calottina. Tutti e quattro i bambini in gara si fermano e l’allenatore, stizzito più che mai, urla loro di tornare sui blocchi.

Il mio amico G., il padre di Marco, impreca: “Ma non è possibile che i disabili nuotino insieme alle persone normali! Perché non la mettono nella vaschetta come tutti gli altri handiccapati?”

Non gli rispondo nemmeno perché nel frattempo mi rendo conto che Chiara, a mezza vasca, aggrappata alla corsia, è in grave difficoltà. Cerca di infilarsi di nuovo la calottina e gli occhialini ma non ci riesce, è troppo difficile, le sue possibilità motorie non prevedono questa operazione apparentemente così semplice. S’incasina, è disperata ma nessuno se ne accorge.

Sul bordo c’è Marco, piegato in posizione di partenza con i piedi e le mani aggrappati sul blocco. L’istruttore continua a martellarlo con inutili e ossessive nozioni tecniche sul tuffo.

Chiara è sempre lì a ripetere una sequenza di movimenti che non la portano a nessun risultato, ha gli occhi spaventati ed è nel panico, ma nessuno se ne accorge.

I drammi paralleli di Marco e Chiara si stavano consumando nel rumorio di una piscina piena di bambini e sotto gli occhi di adulti incapaci di vedere e di capire.

Marco in posizione di “grab start”solleva continuamente la testa mentre l’istruttore urla: “abbassa la testa! Tieni bassa la testa! Marco non lo ascolta più, è visibilmente nervoso, poi improvvisamente guarda l'istruttore e urla: “Muoviti! Dai il via! Fischia!”

L’istruttore sconsolato volta le spalle e fischia il via. I bambini partono, ma questa volta è diverso. Marco si distende in aria altissimo, spingendo con la punta dei piedini, con ogni suo muscoletto, per poi ricongiungersi e bucare l’acqua lontanissimo, con tutto il corpo, potente, elegante, disteso in una linea perfetta. Come d'incanto, dal niente all'eccellenza: il tuffo perfetto! Una volta in acqua la subacquea è fluida e potente. Riemerge quasi ai dieci metri con un vantaggio enorme, una bracciata, la seconda, è già a mezza vasca. L’istruttore è lì a bocca aperta a scrutare il cronometro ma Marco si ferma. Marco si ferma, si gira verso la terza corsia, ha di fronte Chiara nel panico, la prende con delicatezza e sistema le sue braccia sopra la corsia, bloccandole sul suo petto. Si ritrovano a guardarsi negli occhi, a venti centimetri di distanza, praticamente abbracciati, con una corsia che li separa e li tiene a galla. Marco accarezza il viso di Chiara, poi con movimenti lenti e rilassati sistema la calottina e gli occhialini sul suo viso. Si guardano ancora sorridendo e si accarezzano il viso vicendevolmente. Poi un guizzo: Chiara riparte col suo bel sorriso e il suo strepitoso stile libero, mentre Marco si gira verso l’istruttore, toglie gli occhialini e con sguardo duro e voce ferma:

“Andava bene il tuffo?”

“Ehm… si Marco… era… ehm… praticamente perfetto…”

“Ok, allora vado a far la doccia che sono stanco”

Non arriva nemmeno alle scalette, esce dall’acqua con un balzo e si dirige verso gli spogliatoi.

Mi giro verso il padre al mio fianco, è impietrito, immobile, con lo sguardo fisso verso il figlio che si allontana con passo lento.

Ripenso alla cosa terribile che aveva appena detto su Chiara e gli do una pappina sulla nuca:

“Ehi, testa di minchia! Corri negli spogliatoi che forse tuo figlio ha bisogno di un abbraccio!

Negli spogliatoi mi viene incontro Michi, sorridente e felice perchè per la prima volta non è stato il più lento:

“Hai visto papà che bell’allenamento oggi?”

“Ho visto, amore mio, bellissimo davvero!

















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sabato 27 febbraio 2021

Servire gli altri come un ponte


Un grande maestro Zen della dinastia Tang (618-907), Chao-chou, abitava in un tempio di nome Kannon-in. Per raggiungerlo, si doveva passare per forza su un ponte. 
Una volta un monaco domandò:Com’è il ponte di Chao-chou?”. 
Non voleva intendere come fosse realmente il ponte che portava che portava al tempio, bensì conoscere il suo insegnamento sulla pratica buddhista. 
La risposta di Chao-chou fu:Il ponte fa passare sia asini che cavalli”. 
Leggendo questo episodio, fui molto sorpresa. Voleva dire che un ponte non fa distinzione tra amici e nemici, tra santi e peccatori. (…)
Riflettendo su me stessa, devo ammettere che scelgo le persone secondo il mio gusto, mediocre e volubile. Faccio passare i cavalli, ma anche gli asini. Aiuto i miei amici, poco i miei nemici. Non solo opero questa selezione, ma mi aspetto anche che la gente mi ringrazi dicendo: Il suo ponte è proprio utile. Grazie!
In questo modo impongo delle condizioni. Inoltre il mio ego tiene il broncio e borbotta se qualcuno critica il mio ponte, o fa il dispetto di urinarvi sopra: in questi casi decido di non aiutarlo a passare.
L’espressione “aiutare sia gli asini che i cavalli” è diventata per me come un sutra. 
Ricevendo credenti e novizi, ho sempre recitato questo verso tra me e me. Ma un giorno mi è venuto in mente all’improvviso: Non basta essere un ponte. Devo diventare un traghettatore!
Chi vuole passare sul ponte chiamato buddhismo sa, in modo consapevole o no, che l’altro mondo, di Buddha, è meglio di questo mondo secolarizzato e illusorio e che per raggiungerlo occorre oltrepassare questo ponte. Per informare però le persone che soffrono senza conoscere l’altra sponda non è sufficiente essere un ponte fermo: bisogna muoversi. 
Questo è il ruolo del traghettatore. (…)
Noi monaci dobbiamo buttar via l’abito religioso per stare sullo stesso piano degli altri: e così piangere, soffrire, ridere con loro, essere coinvolti dalle loro stesse situazioni. 
Gradualmente le persone si accorgeranno così della vera Via e saranno guidate in alto, verso il mondo di Buddha. Questa nostra pratica, che esprime il voto e la disciplina dell’idea che Kannon, il Buddha della compassione (ndr.: Avalokitesvara), salva tutti gli esseri umani, compresi gli animali, ci fa aprire gli occhi del cuore. 
Possiamo così comprendere che la malattia, il fallimento oppure la separazione da qualcuno che amiamo, sono i mezzi con cui Buddha ci fa capire che dobbiamo smetterla di soddisfare i nostri desideri e risvegliarci alla verità della vita. Siamo avvolti dai piani di Buddha solo per essere aiutati.
Quando ho capito questo, mi sono accorta che la mia idea di diventare un ponte per condurre la gente sull’altra sponda era presuntuosa. 
Ho compreso dunque che, lungi dall’essere ponte o traghettatore, sono io stessa, in realtà, ad essere sempre aiutata a passare oltre.

Shundō Aoyama Roshi
Tratto da: 'La voce del fiume'
Ed. San Paolo 1994

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martedì 23 febbraio 2021

Essere Dono (ITA / FRA)

Non è attraverso il linguaggio che si trasmette l’essenziale.
Nessun discorso può esprimere il tuo animo.
Colui che dipende dalle parole è perduto.
Colui che ristagna nei concetti s’illude.

Siediti tranquillamente.
Il corpo è dritto, senza rigidità, fiducioso, aperto a tutto ciò che può accadere intorno a lui: davanti, di dietro, sui lati, sotto e sopra. Va tutto bene..... Siediti!
Un proverbio Sufi dice ”Sii come l’albero maturo, quando gli si getta una pietra, lui ti offre un frutto”.
La pratica dello Zen mette l’accento sul DONO. La nostra realizzazione sarebbe più pura se ciò che doniamo, lo donassimo come se fosse un gesto naturale e essenziale. E ancor di più, se noi riuscissimo a donare solo il meglio, senza scegliere di farlo, un po' come quando respiriamo.
Donare in cambio di un dono è facile. Donare per amore a coloro che amiamo è semplice. Donare per forza o sotto minaccia è un riflesso. Ma donare ciò che abbiamo di meglio quando ci lanciano le pietre del rifiuto, dell’ingiuria, dell’affronto, della calunnia o dell’umiliazione, è elevarsi e trasformare le pietre in frutti, le rovine in ponti, il deserto in roseto, il male in bene , la guerra in pace. E’ uno degli  incredibili miracoli della saggezza del nostro viso originale.
In una parola, donare non é altro che diventare il dono stesso. E’ ciò che succede quando sei seduto in meditazione. Comincia qui, qui inizia la tua libertà, questa libertà che ti trasfigura in dono, il dono che è in te stesso e per te stesso, poi il dono che questo essere diventa per tutti gli esseri e tutti i fenomeni che attraversano la tua vita.
Tu possiedi in te stesso il potere di cambiare il mondo, di far sgorgare la sorgente dalla roccia e di illuminare le più profonde  notti dell’esistenza di una luce radiosa e serena. Non limitarti a credermi! Impegnati a donare, al dono di te stesso in tutte le cose. Provalo tu stesso.

Estratto dal libro Bere la luna e cavalcare le nuvole
Federico Dainin Jōkō Sensei
Centre Zen La Montagne Sans Sommet 
(Illustrazione di Jhetro Buck) 

Commento di Taigō Sensei


Dainin Sensei nel suo Insegnamento ha sottolineato un aspetto importantissimo della Pratica Zen.
La Pratica Zen pone una particolare enfasi sul dono.
Dogen Zenji nello Shōbōgenzō nel capitolo Bodaisatta Shishōbō mette molta enfasi sul dono elencando le Quattro Sapienze, le quattro qualità dell’azione di un Bodhisattva.
Il dono: Fuse,
La parola amorevole: Aigō
L’azione proficua, il corretto modo di agire in armonia con la situazione: Rigyo,
e l’identificazione: Doji, l’identificazione che può essere anche tradotta con ‘concorde comunione’, sentirsi ‘uno’ con l’altro.
Dōgen Zenji, pone il dono al primo posto tra queste qualità, forse la più importante. Spende appassionate parole nel suo scritto per dire che il valore di un dono non dipende dall’entità di ciò che doniamo, quanto dallo spirito con cui viene offerto.
Dice che non si donano soltanto beni materiali, si può donare un verso del Dharma, beni materiali e si può donare anche il proprio lavoro.

Dōgen Zenji in un passaggio di questo capitolo dello Shōbōgenzō dice al riguardo:
Rifornire un battello sul fiume o costruire un ponte è elargire doni. Se comprendiamo il reale significato del donare capiremo che anche avere responsabilità sociali e operare per il bene comune è elargire doni. Anche la politica e le attività lavorative sono di per se un donare; quando viene il momento il vento fa cadere i fiori e l’uccello canta al ritmo delle stagioni.

Quindi, anche la nostra Pratica è un dono, oserei dire che la nostra Pratica assume le dimensioni della vera Pratica quando c’è un ribaltamento di prospettiva, ovvero passiamo dalla dimensione in cui siamo dei fruitori che fanno uso di qualcosa per il proprio beneficio al momento in cui  ci mettiamo al servizio degli altri.
Pensate che ribaltamento di prospettiva, che straordinario cambio di visione sia il cominciare a  vedere il proprio lavoro come un dono, come un’offerta, piuttosto che viverlo come un’incombenza spesso mortificante.
Un altro aspetto che vorrei sottolineare dell’offerta, è che il dono non consiste soltanto del privarsi di qualcosa, quanto e forse soprattutto nell’arrivare ad essere consapevoli di quello di cui davvero abbiamo bisogno e non appropriarci di più di quello che ci serve, che ci è sufficiente.
Noi monaci mangiamo in una ciotola definita Ōryōki,  la traduzione del termine Ōryōki è: ‘la giusta misura della quantità’ dobbiamo avere molto chiaro a noi stessi qual’è la giusta misura della  quantità di cui abbiamo davvero bisogno.
Tutto quello che prendiamo in più di quello di cui abbiamo effettivamente bisogno in qualche modo lo stiamo sottraendo ad altri.
Kōdō Sawaki Roshi, che è un nostro antenato nel Dharma, affermava con una bellissima definizione: “Anche se solo per un momento sarete capaci di evitare di indossare dei begli abiti, di abitare in una ricca casa, di privarvi di un cibo delizioso, se ne sarete capaci anche solo per un momento anche quel singolo momento sarà un aiuto immenso per tutta l’umanità”.
Capite quanto sia attuale oggi questa riflessione?
Proprio oggi che siamo diretti testimoni di quanto l’avidità dell’umanità abbia privato il mondo del suo respiro?
I problemi ecologici che stiamo vivendo, di cui appunto siamo testimoni, il virus che ci costringe in isolamento, è un effetto della nostra avidità, del modo in cui abbiamo condotto finora la nostra vita.
Pensate che solo il 6% della popolazione mondiale consuma il 40% delle risorse disponibili e ne controlla il 60% … è una cosa immorale e impossibile da sostenere che non può che portare devastazione e dolore.
E’ per questo che la nostra Pratica Zen che teniamo anche a condividere con voi, approfittando di questo momento di isolamento per offrire questa pratica al mattino, e le lezioni di Dainin Sensei la sera, perché siamo certi che lo Zen possa offrire al mondo un nuovo sguardo sulla vita attraverso la sua pratica, che permetta di riacquisire quella consapevolezza che ci riporti alla sobrietà e all’onestà dei nostri comportamenti; non intesi in senso bassamente moralistico, ma nel senso più altamente morale dettato da una profonda consapevolezza.
Quando la nostra vita coincide con la Pratica, come dice Dogen Zenji, non nutriamo più la nostra avidità’.
Questo è l’unico modo per restituire a questo mondo la ricchezza che ci ha offerto e non rubare; perché rubare non significa solo appropriarci di qualcosa che non è nostro, ma è anche, come dicevo prima, appropriarci di più di quello che ci serve davvero.
La pratica zen è centrata su questo ed insegna principalmente questo: una sobrietà di vita che nasce dallo stesso Zazen, che ci insegna l’ecologia della mente, la sobrietà del pensiero, e solo mettendo in Pratica nelle nostre azioni quotidiane questa sobrietà e consapevolezza possiamo vivere nel dono.
Quando noi ci sediamo in Zazen offriamo un dono, lo Zazen non ha niente a che vedere con l’esercizio di una tecnica benefica per noi stessi. E’ indubbio che lo Zazen abbia effetti benefici, ma fa del bene a noi stessi quando capiremo che noi stessi e gli altri non siamo separati.
Non possiamo beneficiarne  noi stessi se non beneficiamo gli altri.
Un altro aspetto importante che sottolinea Dōgen Zenji è che il dono deve essere sempre accompagnato dalla compassione e dalla saggezza.
Bisogna fare molta attenzione a non cadere in due trappole:
Rendere dipendenti gli altri attraverso il nostro donare; bisogna fare molta attenzione perché l’equilibrio è molto sottile, si rischia del fare del dono uno strumento di potere, uno strumento di dominio. Anche noi insegnanti di Dharma dobbiamo fare attenzione a questo, troppe volte ho visto l’offrire il Dharma diventare uno strumento di potere sugli altri.
Il dono deve rendere liberi, deve rendere maturi, autosufficienti, quando doniamo dobbiamo essere sicuri che il nostro dono non costringa altri alla dipendenza.
Altra trappola da evitare : l’ autocompiacersi della nostra generosità, come diceva Dainin Sensei nel suo libro, il dono deve venire come un gesto spontaneo, quasi inconscio, proprio perché, come dice Dōgen Zenji, noi ci identifichiamo negli altri:  la fame dell’ altro è la nostra fame, il dolore dell’altro è il nostro dolore. Se così non fosse corriamo il rischio di auto gratificarci nell’offrire qualcosa e finendo con il sentirci superiori a chi riceve, mentre in realtà chi riceve e chi offre sono vuoti, sono la stessa realtà, non c’è nessuna separazione.
Quando al mattino indossiamo il Kesa, questo abito meraviglioso, lo facciamo come se stessimo impacchettando un regalo, il miglior regalo che possiamo offrire al mondo: noi stessi.
E’ il mio invito oggi per voi: fate si che ogni vostra azione quotidiana, anche quelle che vi appaiono più intime e nascoste, apparentemente legate alle vostre esigenze, diventi un dono per gli altri.
Allora vi accorgerete quando aprirete un rubinetto per lavarvi quanto sia preziosa quell’acqua e di quanta attenzione dovrà fare la nostra mano per non sprecarla e non toglierla ad altri,altrettanto quando ci nutriamo, quando ci vestiamo e quando scegliamo quello che deve sostenere la nostra vita.
Io sono certo che la nostra Comunità si fonda su questa certezza: la nostra Pratica può davvero rivoluzionare il mondo, innanzi tutto rivoluzionando il nostro sguardo sul mondo, insegnandoci a non nutrire quell’avidità che finora ha depredato e ucciso tutte le altre esistenze.

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Versione Francese: 


Ce n'est pas par le langage que l'on transmet l'essentiel. 
Nul discours ne peut

exprimer ton esprit,

Celui qui dépend des mots est perdu.

Celui qui stagne dans les concepts

s'illusionne.


Paisiblement, assieds-toi.
Le haut du corps est droit, sans raideur, confiant, ouvert à tout ce qui peut advenir autour : devant, derrière, sur les côtés, au-dessus et en dessous. Tout est bien. Assieds-toi.
Un proverbe soufi dit: « Sois comme l'arbre mûr: quand on lui jette une pierre, lui, il offre un fruit. »
La pratique du zen met l'accent sur le don. Notre réalisation serait plus pure si ce que nous donnons, nous le donnions comme si c'était un geste naturel et incontournable. Plus encore : si nous arrivions à ne donner que le meilleur, sans choisir de le faire, un peu comme on respire.
Donner en retour d'un don est chose aisée. Donner par amour et à ceux qui nous aiment est simple. Donner par obligation ou sous la menace est un réflexe. Mais donner ce que nous avons de meilleur lorsque l'on nous jette les pierres du refus, de l'injure, de l'affront, de la calomnie ou de l'humiliation, c'est s'élever et transformer les pierres en fruits, les ruines en ponts, le désert en roseraie, le mal en bien, la guerre en paix. C'est un des miracles inouïs de la sagesse de notre visage originel.
En un mot, donner n'est autre que devenir le don même. C'est ce qui se passe lorsque tu es assis en méditation.
Ça commence ici, ici c'est le début de ta liberté, cette liberté qui te transfigure en don, le don que tu es en toi-même et pour toi-même, puis le don que cet être devient pour tous les êtres et tous les phénomènes qui traversent ta vie.
Tu possèdes en ton être le pouvoir de changer le monde, de faire jaillir la source du rocher et d'éclairer les nuits de l'existence les plus profondes d'une radieuse et sereine lumière. Ne me crois surtout pas. Evertue-toi au don, au don de toi en toute chose.
Essaie toi-même.

Extrait de 'Boire la lune et chevaucher les nuages' 
Federico Daīnin Jõkõ Sensei

(Illustration Jethro Buck)

Commentaire de Taigō Sensei faite par Davide-Kudai


Dainin Sensei dans son enseignement a souligné un aspect très important de la pratique zen.
La pratique du zen met un accent particulier sur le don.
Dogen Zenji dans le Shōbōgenzō dans le chapitre Bodaisatta Shishōbō met beaucoup l'accent sur le don en énumérant les Quatre Sagesse, les quatre qualités de l'action d'un Bodhisattva.
Le don: Fuse,
La parole d'amour: Aigō
Action bénéfique , la bonne façon d'agir en harmonie avec la situation: Rigyo,
et reconnaissance : Doji, reconnaissance qui peut aussi se traduire par "communion, accord", se sentir "un" avec l'autre.


Dōgen Zenji, place le don en premier parmi ces qualités, est le plus important. Il consacre des mots passionnés dans son écriture pour dire que la valeur d'un cadeau ne dépend pas de la qualité de ce que nous donnons, mais de l'état l'esprit avec lequel il est offert.
Il dit que l'on ne peut pas donner uniquement des biens matériels, on peut donner un verset du Dharma, des biens matériels et on peut aussi donner son travail.
Dōgen Zenji dans un passage de ce chapitre du Shōbōgenzō on dit:
«Approvisionner un bateau sur la rivière ou construire une pont c'est elargir des dons.
Si nous comprenons le vrai sens du don, nous comprendrons qu'avoir des responsabilités sociales et travailler pour le bien commun, c'est aussi donner.
Même la politique et les activités professionnelles sont en soi un cadeau;
“quand arrive le moment, le vent emporte les fleurs et l'oiseau chante au rythme des saisons.


Donc, même notre pratique est un don, j'oserais dire que notre pratique prend les dimensions de la vraie pratique lorsqu'il y a un renversement de perspective, c'est-à-dire que nous passons de la dimension dans laquelle nous sommes des utilisateurs, consommateurs qui utilisent quelque chose pour leur propre profit à celle où nous nous mettons au service des autres.
Quel renversement de perspective, quel extraordinaire changement de vision ! Commencer à voir son travail comme un don, comme une offrande, plutôt que de le vivre comme une tâche souvent mortifiante...
Un autre aspect que je voudrais souligner à propos de l'offrande, c'est que le don ne consiste pas seulement à se priver de quelque chose, mais plutôt et peut-être surtout à se rendre compte de ce dont on a vraiment besoin et à ne pas s'approprier davantage que le nécessaire, cela nous suffit.
Nous, les moines, mangeons dans un bol appelé Ōryōki, la traduction du terme Ōryōki est: 'la juste mesure de la quantité' nous devons savoir clairement pour nous-mêmes quelle est la juste mesure de la quantité dont nous avons vraiment besoin.
Tout ce que nous prenons en plus de que ce dont nous avons réellement besoin d'une manirre ou d'une autre nous nous le soustraitons aux autres.
Kōdō Sawaki Roshi, qui est un de nos ancêtres dans le Dharma, a dit :
"Si seulement meme qu'un instant vous pouvez éviter de porter de beaux vêtements, de vivre dans une maison riche, de vous priver de plats délicieux, si vous pouvez le faire, même pour un seul instant, même ce moment unique sera une immense aide pour toute l'humanité ".
Comprenez-vous la pertinence de cette réflexion aujourd'hui?
Surtout aujourd'hui alors que nous sommes les témoins directs de la façon dont la cupidité de l'humanité a privé le monde de son souffle....
Les problèmes écologiques que nous vivons, dont nous sommes témoins, le virus qui nous force à l'isolement, sont un effet de notre cupidité, de la façon dont nous avons mené nos vies jusqu'à présent.
Pensez-vous que seulement 6% de la population mondiale consomme 40% des ressources disponibles et contrôle 60% d'entre elles… c'est une chose immorale et impossible à maintenir qui ne peut qu'apporter dévastation et douleur.
Nous profitons de ce moment d'isolement pour partager avec vous cette pratique le matin, et les enseignements de Dainin Sensei, car nous sommes convaincus que le Zen peut offrir au monde un nouveau regard sur la vie à travers sa pratique. Cela peut nous permettre de retrouver cette conscience qui nous ramène à la sobriété et à l'honnêteté de notre comportement; non pas dans un vide de sens moral, mais dans le plus haut sens moral dicté par une conscience profonde.
Lorsque notre vie coïncide avec la pratique, comme le dit Dogen Zenji, «nous ne nourrissons plus notre cupidité».
C'est le seul moyen de rendre à ce monde la richesse qu'il nous a offerte et de ne pas voler; parce que voler signifie non seulement s'approprier quelque chose qui n'est pas à nous, mais aussi, comme je l'ai dit précédemment, prendre ce dont nous n'avons pas vraiment besoin.
La pratique zen est centrée sur cela et l'enseigne principalement: une sobriété de vie qui naît de Zazen lui-même, qui nous enseigne l'écologie de l'esprit, la sobriété de la pensée, et seulement en mettant cette sobriété et cette conscience en pratique dans nos actions quotidiennes, vivre dans le don.
Lorsque nous nous asseyons à Zazen, nous offrons un don, Zazen n'a rien à voir avec l'exercice d'une technique bénéfique pour nous-mêmes. Il ne fait aucun doute que Zazen a des effets bénéfiques, mais cela nous fait du bien lorsque nous comprenons que nous et les autres ne sommes pas séparés.
Nous ne pouvons pas en bénéficier nous-mêmes si nous ne considérons pas le bien des autres.
Un autre aspect important que souligne Dōgen Zenji est que le don doit toujours être accompagné de compassion et de sagesse.
Il faut faire très attention à ne pas tomber dans deux pièges:
Rendre les autres dépendants par nos dons; il faut faire très attention car l'équilibre est très subtil, on risque de faire du don un instrument de pouvoir, un instrument de domination. Nous, les enseignants du Dharma, devons également y prêter attention, trop souvent j'ai vu l'offrande du Dharma devenir un instrument de pouvoir sur les autres.
Le don doit nous rendre libres, il doit nous rendre mûrs, autonomes, quand nous donnons, nous devons être sûrs que notre don ne force pas les autres à la dépendance.
Autre piège à éviter: l'auto-félicitation de notre générosité, comme le disait Dainin Sensei dans son livre, le cadeau doit venir comme un geste spontané, presque inconscient, précisément parce que, comme le dit Dōgen Zenji, nous nous identifions aux autres: la faim de l'autre est notre faim, la douleur de l'autre est notre douleur. Sinon, nous courons le risque de l'auto-satisfaction en offrant quelque chose et en finissant par nous sentir supérieurs au destinataire, alors qu'en réalité le destinataire et le donneur sont vides, ils sont la même réalité, il n'y a pas de séparation.
Lorsque le matin nous nois habillons du Kesa, cette magnifique robe, nous le faisons comme si nous emballions un cadeau, le meilleur cadeau que nous puissions offrir au monde: nous-mêmes.
C'est mon invitation aujourd'hui pour vous: faire de chacune de vos actions quotidiennes, même celles qui vous paraissent les plus intimes et cachées, apparemment liées à vos besoins, un cadeau pour les autres.
Ensuite, vous remarquerez lorsque vous ouvrirez un robinet pour laver à quel point l'eau est précieuse et combien d'attention notre main devra faire pour ne pas la gaspiller et ne pas la retirer aux autres, tout comme lorsque nous nous nourrissons, lorsque nous nous habillons et lorsque nous choisissons ce qui doit soutenir notre vie.
Je suis sûr que notre communauté est fondée sur cette certitude: notre pratique peut véritablement révolutionner le monde, tout d'abord en révolutionnant notre regard sur le monde, en nous apprenant à ne pas nourrir l'avidité qui jusqu'à présent a pillé et tué toutes les autres existences.

© Tora Kan Dōjō




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sabato 20 febbraio 2021

Sul Ring della vita




La vita è come un incontro di boxe.
All’inizio, le prime riprese, sei forte, balli sul ring, magari hai poca strategia e manchi di tattica, ma sei spregiudicato, sai di farcela, sei invincibile. Ti bastano l’istinto, la passione, la volontà. Picchi duro. E i colpi vanno a segno, hai concentrazione ed energie per mirare il punto giusto: non a casaccio, ma dove fa più male. Quelli dell’altro riesci bene a schivarli e se arrivano non li senti.
“Mia madre me le dava più forte”, avrebbe detto Rocky.
All’inizio.
Ma l’incontro va avanti e le gambe cominciano a diventare pesanti. L’avversario è sempre lì, in piedi, e adesso i suoi colpi fanno male, ti sembra più veloce, e allora ti affidi all’intelligenza, alla tattica. Sai di boxe, sei un professionista di talento, mica un teppistello di quartiere, sei stato preparato bene, allenato come si deve, conosci i movimenti giusti e sei ancora lucido. Sai dove spostarti, come trattenerlo e legarlo quando sei più fragile.
Scandisci i tempi di ogni ripresa e sai che finirai anche questa.
Metà incontro.
Il tuo pubblico capisce quello che tu non sai accettare: qualcosa non va, vincere non è scontato come sembrava, ma ti è vicino, fa il tifo per te, sembra sincero. I colpi arrivano sempre più forti, qualche vecchia ferita ritorna e altre se ne aprono di nuove. Entrambe sanguinano, e le riprese sembrano non finire mai. Il tempo si dilata, si allontana, eppure tre minuti finivano in fretta. I tuoi pugni vanno a vuoto, non fanno più male, sei lento, impacciato. La vista si annebbia, l’avversario diventa sfuggente, ormai invisibile, senti solo i suoi colpi ma non puoi farci niente. Non li vedi più arrivare.
Ultima ripresa.
Adesso hai smesso di crederci anche tu. Ti eri sbagliato, non era così facile. L’invincibile era l’altro. Sai che perderai e sarebbe facile lasciarsi andare, cadere giù, il dieci arriva presto. Sarebbe perfino bello. Ma c’è ancora una cosa da fare: arrivare alla fine. Non per il futuro, il futuro non c’entra, per te non c’è più. Ora ti giochi il senso di te stesso, quello che ne rimane: i sogni, le speranze. Per questo devi resistere, per non dargliela vinta, per fargli vedere che hai le palle, per chi ti vuole bene e pazienza se ormai ti hanno abbandonato anche quelli che credevi amici, e che adesso sono solo tifosi delusi dal tuo fallimento. Tu ci sei ancora, e qualcosa è rimasto.
Qualcuno è rimasto.
Gli ultimi colpi sono devastanti. I tuoi invece non partono nemmeno, le braccia si sono arrese lungo il tronco e il tuo corpo vacilla come una spiga di grano piegata dal vento. L’ultima ripresa non finisce mai. Nella tua testa confusa metti ancora in fila emozioni e pensieri, ma adesso sono rimaste solo quelle che contano: l’orgoglio, la dignità. Il rispetto.
Il resto non c’è più.
Il resto non contava niente.
Ecco. Hai perso. Come sempre, come tutti.
Ma sei rimasto in piedi.
Gong.

Orso Grigio
tratto dalla sua pagina Facebook


© Tora Kan Dōjō



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