venerdì 30 settembre 2022

L'esperienza autentica


La meditazione è una qualità di relazione a ciò che è qui.

Da questo punto di vista, il cammino spirituale nella sua dimensione interiore e la pratica della meditazione non sono che una sola ed unica cosa, cioè avere ad ogni istante la relazione giusta a ciò che è qua. Non c’è altra pratica di meditazione. 

Di contro, è difficile trovare la relazione giusta alla situazione in modo spontaneo, pertanto è necessario un apprendistato che è la pratica seduta (…) beninteso che si tratta di una situazione privilegiata, un trampolino per la meditazione nell’azione che è la relazione, la qualità d’essere di ogni istante. 

Dunque, da questo punto di vista, bisognerebbe meditare, non bisognerebbe che meditare e bisognerebbe farlo ventiquattro ore su ventiquattro. 

La meditazione è l’esperienza autentica della vita.


Denys Tendrup

© Tora Kan Dōjō

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giovedì 22 settembre 2022

Accogliere il cambiamento

 


"Il cambiamento imposto dal coronavirus sembra una sofferenza difficile da sopportare, anche se l’umanità ha superato di molto peggio. Succede perché ci troviamo nella condizione in cui tutta la nostra modernità, la tutela tecnologica, la globalizzazione, il mercato, insomma tutto ciò di cui andiamo vantandoci, ciò che in sintesi chiamiamo progresso, si trova improvvisamente a che fare con la semplicità dell’esistenza umana.

Siamo di fronte all’inaspettato: pensavamo di controllare tutto e invece non controlliamo nulla nell’istante in cui la biologia esprime leggermente la sua rivolta. Dico leggermente, perché questo è solo uno dei primi eventi biologici che denunceranno, da qui in avanti, gli eccessi della nostra globalizzazione.

Se questo è il quadro, c’è forse un’incapacità di evolverci, come esseri umani? Il Cristianesimo ha diffuso in Occidente un ottimismo che ci ha insegnato a pensare in questi termini: il passato è male, il presente è redenzione e il futuro è salvezza. Questa modalità di considerare il tempo è stata acquisita dalla scienza, che a sua volta dice che il passato è ignoranza, il presente è ricerca e il futuro è progresso.

Persino Karl Marx è un grande cristiano quando predica che il passato è ingiustizia sociale, il presente farà esplodere le contraddizioni del capitalismo e il futuro renderà giustizia sulla Terra. E Sigmund Freud, che pure scrive un libro contro la religione, sostiene che i traumi e le nevrosi si compongono nel passato, che il presente sia magico e che il futuro sia guarigione. Non è così. Il futuro non è il tempo della salvezza, non è attesa, non è speranza. Il futuro è un tempo come tutti gli altri. Non ci sarà una provvidenza che ci viene incontro e risolve i problemi nella nostra inerzia. Speriamo, auguriamoci, auspichiamo: sono tutti verbi della passività.

Stiamo fermi e il futuro provvederà: non è così.

Quindi cosa dobbiamo fare? Non c’è niente da fare, c’è da subire. Accettiamo che siamo precari: ce lo siamo dimenticati? Rendiamoci conto che non abbiamo più le parole per nominare la morte perché l’abbiamo dimenticata. Ammettiamo che quando un nostro caro sta male lo affidiamo all’esterno, a una struttura tecnica che si chiama ospedale, e da lì non abbiamo più alcun contatto. Una volta i padri vedevano morire i figli quanto i figli vedevano morire i padri. C’erano le guerre, le carestie, le pestilenze. Esisteva, concreta, una relazione con la fine. Oggi l’abbiamo persa. Quando qualcuno sta male, mancano le parole per confortarlo. Diciamo: vedrai che ce la farai. Che sciocchezza. Che bugia. Perché abbiamo perso il contatto con il dolore, con il negativo della vita. E quindi come facciamo ad avere delle strategie quando il negativo diventa esplosivo?

Mi chiedete: il timore di cambiare è un limite valicabile? Facciamo prima un punto sulla realtà.

Sono trent’anni che il Paese non è governato: accorgerci ora che abbiamo cinquemila letti in terapia intensiva quando la Germania ne ha 28 mila, scoprire che le carceri sono in subbuglio e che è possibile scappare sui tetti, ammettere adesso che andavano costruite altre strutture perché i detenuti potessero vivere in condizioni almeno vivibili; è il conto che stiamo pagando per essere stati distratti, per non aver preteso una guida vera. Per non parlare del debito pubblico: un macigno che si farà ancora più pesante per sopperire alle difficoltà economiche di questi mesi.

È questo il limite, reale. E se lo troveranno davanti soprattutto i giovani, che al momento sembrano non morire con la stessa velocità e intensità dei vecchi: poi toccherà a loro, se non si ammalano, continuare a esistere in questo mondo.

È un momento di sospensione, specie dalla frenesia quotidiana. Mi dicono: per molti è un valore positivo, per altri un monito del fato. Io penso che la sospensione ci trovi soprattutto impreparati: ci lamentiamo tutti i giorni di dover uscire per andare a lavorare, ma se dobbiamo fermarci non sappiamo più cosa fare. Non sappiamo più chi siamo. Avevamo affidato la nostra identità al ruolo lavorativo. La sospensione dalla funzionalità ci costringe con noi stessi: degli sconosciuti, se non abbiamo mai fatto una riflessione sulla vita, sul senso di cosa andiamo cercando. Siccome non lo facciamo, poi ci troviamo nel vuoto, nello spaesamento. E allora chiediamoci: il paesaggio era il lavoro? L’identità era la funzione? Fuori da quello scenario non sappiamo più chi siamo? Questo è un altro problema. Non basta distrarsi nella vita, bisogna anche interiorizzare e guardare se stessi. Finora siamo scappati lontano, come se noi fossimo il nostro peggior nemico. I nostri week end non erano l’occasione per volgere lo sguardo a noi, ai nostri figli. Erano fughe in autostrada.

Perché conosciamo due modalità dell’esistenza: lavorare e distrarci. Fuori dal quel cerchio, è il nulla.

Un quarto della popolazione italiana è estremamente fragile: il virus lo ha dimostrato. C’è chi si sorprende del relativismo della società rispetto ai più deboli. Ma è inevitabile. So bene che se mi dovessi ammalare io passerei in secondo piano, perché sono da salvare prima i giovani. Il problema è perché siamo arrivati a dover affrontare questo tipo di scelta, perché non abbiamo provveduto a creare le condizioni, e le strutture, per fronteggiare il dilemma. Moriremo per inefficienza. Se un virus si propaga con un numero di vittime paragonabile ai morti in guerra è chiaro che andrà tracciata − netta − la linea tra chi deve vivere e chi morire.

Ora: l’egoismo non sta diventando adesso un valore primario. È già il valore primario nella nostra cultura. La solidarietà è andata a picco in questi anni. Individualismo, narcisismo, egoismo: sono tutte figure di solitudine. La socializzazione si è ridotta alla propria parvenza digitale. E se anche l’istruzione, superata questa fase sperimentale, costretta dai tempi, dovesse poi venire diffusa via internet? I ragazzi hanno bisogno di imparare ma anche di guardarsi in faccia, di ridere, di capire attraverso lo sguardo se l’altro dice la verità o sta mentendo. Hanno bisogno di esperienze fisiche.

Nell’isolamento e nelle avversità, gli esseri umani hanno bisogno di sentire di non essere soli a lottare. I cinesi di Wuhan se lo gridavano dalle finestre. Quindi se la rete digitale ha reso possibile la connessione là dove non c’è possibilità di incontro, mi viene da pensare: bene, ottimo, ha dimostrato la sua utilità. Ma per come ha funzionato fino a ora, Internet ha anche isolato i nostri corpi. Un conto è dirsi le cose in rete, un conto è dirsele di persona. Il problema, da qui in poi, è di continuare ad avere una relazione sociale secondo natura, in cui un uomo incontra un uomo, e non l’immagine di un uomo in uno schermo.

Quando potrà risollevarsi l’animo umano? E come?

Il degrado è stato significativo. Secondo me l’animo umano era più all’altezza di queste situazioni all’epoca dei nostri nonni, quando la fatica e la penuria e la povertà erano le condizioni della solidarietà. Nelle società opulente abbiamo sviluppato invece l’egoismo, perché ci era consentito, non avendo più bisogno del nostro prossimo.

Che l’umanità occidentale sia a perdere mi sembra evidente: siamo costretti in casa con le nostre scorte alimentari e il nostro letto caldo, l’unica pena che ci è inflitta è non poter uscire. Siamo il popolo più debole della Terra, il più assistito dalla tecnologia: se manca la luce per dodici ore andiamo nel panico. Mi spingo oltre: il razzismo di noi italiani, al di là di come viene indotto, ha una ragione radicata nell’inconscio. Abbiamo paura degli africani perché capiamo che quei signori capaci di attraversare i deserti, sopravvivere alle carceri e attraversare il mare sono biologicamente superiori a noi. Bios vuole dire vita. Ed è la biologia, accettiamolo, che vincerà."

 Umberto Galimberti, 16 aprile 2020


© Tora Kan Dōjō










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giovedì 15 settembre 2022

Il tempo è Adesso

 


Lo Zen è una liberazione dal tempo. Se infatti apriamo i nostri occhi e distinguiamo nettamente, risulta ovvio che non esiste altro tempo che questo istante, e che il passato e il futuro sono astrazioni senza una concreta realtà.
Finché ciò non sia diventato chiaro, sembra che la nostra vita sia tutta passato e futuro, e che il presente non sia niente di più di quel capello infinitesimale che li divide. Ne consegue la sensazione di “non aver tempo”, di un mondo che s’affretta con tale rapidità che è trascorso prima che noi lo abbiamo goduto. Ma attraverso “il risveglio all’istante” si capisce che tale impressione è l’opposto della verità; è piuttosto il passato e il futuro che sono illusioni “effimere, e il presente che è eternamente reale. Noi scopriamo che la successione lineare del tempo è una convenzione del nostro pensiero verbale monodiretto, di una coscienza che interpreta il mondo affermandone piccoli pezzi e chiamandoli cose ed eventi. Ma ognuno di simili atti della mente esclude il resto del mondo; così che tale tipo di coscienza riesce a conseguire una visione approssimativa del tutto solo mediante una serie di atti di possesso, l’uno di seguito all’altro. Nondimeno la superficialità di questa coscienza è palese nel fatto che essa non può regolare, e non regola, nemmeno l’organismo umano. Poiché se la coscienza dovesse controllare il battito del cuore, il respiro, l’azione dei nervi, delle ghiandole, dei muscoli, e degli organi dei sensi, si aggirerebbe con furia selvaggia per il corpo interessandosi di una cosa dopo l’altra, senza aver tempo per nulla di diverso. Fortunatamente non ha questo incarico, e l’organismo è regolato dalla “mente originale” che sta fuori del tempo, e occupandosi della vita nella sua totalità, può fare tante cose” in una volta.

 

Tratto da: Alan Watts, La via dello zen.


© Tora Kan Dōjō










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giovedì 8 settembre 2022

La carezza del Se

Io penso che gli oggetti non siano affatto inanimati, lo diventano nel momento in cui pensiamo lo siano, e credo che tutto, anche quello che ci fa arricciare il naso perché qualcuno ci ha imposto di farlo, desideri esprimersi e toccarci in un modo diverso, in un attimo di presenza al di là della parola e dell'intelletto, con un linguaggio inedito e universale. E che a sua volta sgorga dal profondo del nostro cuore, e si affianca a noi e si distilla da sé nel momento in cui parte dalla bocca e si incastra perfettamente nel cuore di qualcuno che forse non se lo aspettava, oppure sul quel foglio che finisce il verso di quella poesia che avevamo abbandonato in un vecchio cassetto. Proprio adesso ho notato un piccolissimo ago sul mio tavolo, stamattina non c'era, ora tutta la mia attenzione è in un micro ago, ma guarda te... il micro Sé.

Metto un punto, ora scrivo una virgola... ora tre punti nel tempo di un respiro. E così il nostro sguardo che si posa puntualmente su ogni cosa comprende senza parole l'inesprimibile, in silenzio con uno stupore senza fronzoli che accoglie e basta.

Gli oggetti se ne stanno lì in qualsiasi condizione senza distinzioni e ci faccio caso, ritrovo una certa familiarità, umiltà e compostezza.

Le cose sono perfettamente allineate in questo tempo e in questo spazio di mondo e si lasciano trovare al posto giusto nel momento giusto. Semplicemente ci ricordano di non dimenticare il cielo e la terra che ci compongono, la nostra vera natura alla quale non manca proprio nulla, e dove nulla è da togliere, perché l'armonia è uno stato del cuore.

Questo ad esempio è uno dei tanti quadri appesi al muro del Dōjō. Non posso fare a meno di soffermarmi a guardare queste storie ricche di significato che mi riportano all'essenza di questa unica grande parola d'amore che non si finisce mai di coltivare e che diventa potentissima nel momento in cui la condividi senza esitazioni, è una nobiltà di spirito che libera e non si esaurisce mai. E allora scorri le immagini con gli occhi e senti come intonare antiche canzoni in quelle sere senza giacchetto attorno ad un grande fuoco insieme agli amici più cari, un invito pieno ricordi a colori e in bianco e nero che vivono abbracciati in cornici che non delimitano. Questa per me è l'intesa senza parole, preparare le orecchie e allenare lo sguardo. 

Tutto parla e ci interroga... lo sto imparando ogni giorno nel Dōjō, dove scopro che un semplice spolverino se lavora insieme alla mia mano può diventare il prolungamento dei miei occhi che si fanno grandi, il continuo del mio respiro che si acquieta, e ogni cosa si fa più vicina come una dolcissima carezza. E in questi anni nel Dōjō ne ho ricevute tantissime. In particolar modo questa che io chiamo 'carezza del SE', una delle tante che porto nel cuore in un posticino speciale e che mi accompagna ovunque, da sempre.

Monica Tainin De Marchi

 

© Tora Kan Dōjō




















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venerdì 2 settembre 2022

Il lavoro senza respiro

 


"Il loro furibondo lavoro senza respiro - il vizio peculiare del nuovo mondo (America) - comincia già per contagio a inselvatichire la vecchia Europa e a estendere su di essa una prodigiosa assenza di spiritualità. Ci si vergogna già oggi del riposo, il lungo meditare crea quasi rimorsi di coscienza. Si pensa con l'orologio alla mano, come si mangia a mezzogiorno appuntando l'occhio sul bollettino di Borsa; si vive come uno che continuamente «potrebbe farsi sfuggire» qualche cosa. «Meglio fare una qualsiasi cosa che nulla» - anche questo principio è una regola per dare il colpo di grazia a ogni educazione e ogni gusto superiore. E come tutte le forme vanno visibilmente in rovina in questa fretta di chi lavora, così anche il senso stesso della forma, l'orecchio e l'occhio per la melodia dei movimenti, vanno in rovina. La prova di ciò sta nella grossolana chiarezza oggi pretesa ovunque, in tutte le situazioni in cui l'uomo vuol essere onesto con l'uomo, nei rapporti con amici, donne, parenti, bambini, insegnanti, scolari, condottieri e principi: non si ha più tempo né energia per il cerimoniale, per i giri tortuosi della cortesia, per ogni esprit nella conversazione, e sopratutto per ogni otium. Poiché la vita a caccia di guadagno costringe continuamente a prodigarsi fino all'esaurimento in un costante fingere, abbindolare o prevenire: la virtù vera è ora fare qualcosa in minor tempo di un altro e così ci sono molto raramente ore di consentita onestà; in queste, tuttavia, si è stanchi e non ci si vorrebbe soltanto lasciare andare, ma buttare distesi pesantemente in lungo e in largo. [...] Se esiste ancora un piacere nello stare in società e nelle arti, è un piacere quale se lo sanno procurare schiavi stremati dal lavoro. Che vergogna, questa parsimonia della «gioia» nei nostri uomini colti e non colti! Oh, che vergogna questo crescente venire in sospetto di ogni gioia! Il lavoro ha sempre di più dalla sua tutta la buona coscienza: l'inclinazione alla gioia si chiama già «bisogno di ricreazione» e comincia a vergognarsi di se stessa. «È un dovere verso la nostra salute», si dice quando si è sorpresi durante una gita in campagna. Anzi, si potrebbe ben presto andare così lontano da non cedere a una inclinazione alla vita contemplativa (vale a dire all'andare a passeggio, con pensieri e amici), senza disprezzare se stessi e senza cattiva coscienza. Ebbene! Una volta era tutto in contrario: era il lavoro ad aver su di sé la cattiva coscienza. Un uomo di buoni natali nascondeva il suo lavoro quando le necessità lo costringevano a lavorare. Lo schiavo lavorava oppresso dal sentimento di fare qualcosa di spregevole. «La nobiltà e l'onore sono soltanto nell'otium e nel bellum», così suonava la voce dell'antico pregiudizio"

F. Nietzsche

(da La gaia scienza, Libro IV, n. 329).


© Tora Kan Dōjō












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