Federico Dainin Jōkō
Sensei |
Nella nostra tradizione,
contrariamente a ciò che siamo diventati come istituzione, il Teishō con il
Maestro non è mai stato un incontro accademico o formale.
Il Teishō è un
momento in cui il Maestro esprime qualcosa sulla Pratica e sulla nostra Via
spirituale liberamente, o a partire dal commento di un testo o di una
situazione, ma non è mai qualcosa che discende dal Maestro verso gli altri, è
sempre qualcosa di molto orizzontale. Non è una lezione, io non ho nulla da
insegnare che voi non sappiate già, ma il ruolo del Maestro è quello di
ricordare certe cose che sono essenziali.
Vi ricordate di cosa
abbiamo discusso l'ultima volta?
La necessità di dover
entrare nel fuoco del Samsara, questa necessità intrinseca e assoluta della
quale non si può fare a meno; entrare nel fuoco del Samsara. Abbiamo parlato di
prendere parte nel partecipare a questo mondo, non soltanto con le idee e le
azioni ma anche con il nostro corpo attraverso ogni minima cellula. Partecipare
a questo mondo in quanto monaci non significa dover partecipare in una
certa maniera piuttosto che un'altra. Perché vi sottolineo questa leggera
sfumatura? Perché mi rendo conto, in venticinque anni di Pratica e quindici di
Insegnamento, che lo Zen che sta per essere trasmesso in Occidente è uno Zen
che spesso da' dei ruoli, anche ai monaci ed alle monache, ruoli che sono
proprio come in teatro; c'è un modo di comportarsi, un modo di vestirsi, un
modo di parlare... questi ruoli e questi modi che 'tagliano' la persona
in due. In Occidente stiamo trasformando la Trasmissione dello Zen in una
trasmissione schizofrenica. Quando siamo al Dōjō, in Sesshin, in monastero,
quando siamo ai convegni o alle riunioni Buddhiste dello Zen ci comportiamo in
una certa maniera e poi quando siamo tra di noi, al lavoro o in famiglia, ci
comportiamo in un'altra. Non tutti ma la maggior parte dei praticanti dello Zen
si comporta così, ed è una cosa pericolosa perché questa schizofrenia religiosa
ci separa dall'autenticità, ci impedisce di essere autentici.
Chi più di me è
attaccatissimo alla forma? Ma la forma, la Pratica formale, il rito, l'abito,
la liturgia, ma anche la regola, i precetti stessi, non definiscono il monaco o
la monaca. Non solo non lo definiscono ma non devono neanche rappresentarlo.
Dobbiamo esistere, essere monaci/monache al di fuori della forma. In maniera
più ampia, dobbiamo essere praticanti dello Zen al di fuori di ogni forma,
ancora più ampiamente senza parlare di monaci o di monache, l'essere umano che
pratica una Via spirituale deve praticare al di fuori della forma. La forma
deve essere un momento in cui la pratica spirituale si cristallizza in una
celebrazione visibile e tangibile di qualcosa che è invisibile e intangibile.
Questo è il ruolo della forma, ma al di fuori di questi momenti di celebrazione
il praticante spirituale non dovrebbe neanche essere riconosciuto come
buddhista, sufi, musulmano, cristiano ecc... quando studiamo i testi sacri
delle grandi Vie spirituali dell'umanità, tutti, senza nessuna eccezione
(Torah, Bhagavadgītā, Bibbia, Vangelo, Corano, Sunna, Sūtra), ci rendiamo conto
che c'è un messaggio che li attraversa, e questo messaggio è lo stesso per
tutti; che sia attraverso i Profeti della Bibbia e della Torah, che sia
attraverso racconti epici e mitologici della Bhagavadgītā, attraverso le
Parabole del Vangelo o le Parabole dei Sūtra o le Āyāt del Corano, ci rendiamo
conto che l'intuizione della saggezza religiosa e spirituale ha un denominatore
comune: la rivelazione di Dio, la rivelazione del Risveglio, appaiono sempre al
di fuori della forma. Nella Bibbia ad esempio, Dio avrebbe potuto esprimersi
nel tempio di Gerusalemme ma non si è mai espresso nel tempio di Gerusalemme.
Lui si è espresso ed è andato incontro agli uomini su una montagna, intorno ad
un lago, sulle rive del mare, in una grotta. Oppure i Buddha di ogni tempo
sarebbero apparsi sotto l'Albero della Bodhi ma non sono mai apparsi sotto
l'Albero della Bodhi, sono apparsi lungo il cammino, in una mela che cade sulla
testa o in un ago di pino che cade in una ciotola d'acqua o forse in una pietra
dove forse un monaco un giorno è inciampato; ecco dove sono nati i Buddha. Alla
luce di questa riflessione la pratica formale diventa ancora più importante:
non sto dicendo che bisogna ripudiare la pratica formale, la pratica formale ha
un'importanza incredibile, un'importanza alla quale pochi praticanti
pensano.
La pratica formale,
perché noi la pratichiamo sempre nella stessa maniera ed in maniera regolare?
Serve a ricordare che è proprio al di fuori della pratica formale che nascono i
Buddha; noi la celebriamo per ricordarci che è proprio 'non lì' che appaiono i
Buddha, la pratichiamo per andare al di là, come un passaggio. Forse è questa
l'Altra Riva che è cantata nel Sūtra del Cuore: Gate, Gate Paragate,
Parasamgate Bodhi Svaha. Questa 'altra riva' non è una terra in un altro mondo,
non è un paradiso Buddhico, ma la longitudine e la latitudine impensabile di
cui noi siamo capaci quando andiamo al di là delle cose, compreso al di là
delle cose sacre. E questo andare al di là delle cose sacre significa capire
che tutto è sacro. Significa capire che questa pratica formale che noi viviamo,
la liturgia, il rito, il gesto, l'abito, il Kesa, il Rakusu, i precetti stessi,
ci servono come trampolino assoluto per andare al di là, per capire che in
questo mondo noi possiamo fare di ogni cosa un precetto, di ogni situazione una
liturgia, di ogni fenomeno una celebrazione. Per questo celebriamo con tanta
attenzione ogni minuto gesto nel Dōjō durante le cerimonie, per questo
cerchiamo questa fusione totale con il rito, ma questa fusione totale con il
rito durante ogni rito non serve a rendere questo rito perfetto, il nostro rito
non sarà mai perfetto, serve ad allenarci a fare entrare nella nostra testa
dura il fatto che tutto in questa vita, per il monaco, per la monaca, per il
praticante dello Zen o praticante spirituale, è celebrazione, è liturgia,
soltanto se noi accettiamo di andare al di là; quindi il rito diventa un
passaggio, diventa il bozzolo nel quale noi invitiamo 'tutte le esistenze',
questa frase è molto cara a Dōgen. Il rito è questo bozzolo dentro al quale noi
invitiamo tutte le esistenze e tutti i fenomeni a diventare celebrazione.
Trasformiamo così la nostra vita in una liturgia...
Qualcuno conosce il
significato etimologico della parola 'liturgia'?
T.K. Sensei :
"Un'Offerta al popolo; qualcosa che si offre al popolo."
Esatto. V'immaginate la
potenza di questa parola? Se noi traduciamo la parola 'liturgia' nella
nostra Pratica, noi diventiamo il pretesto sacro e nello stesso tempo
totalmente e profondamente ordinario attraverso il quale tutto ciò di cui siamo
capaci diventa un'offerta. Non c'è più l'altare, i calici di legno rosso
laccato, i monaci che danzano durante questa offerta religiosa, ma durante
questa offerta religiosa noi impariamo che dopo questo calice ci sarà un
bicchiere di vino, un bicchiere d'acqua o di coca cola che potrà essere
condiviso con la stessa intensità. Ci sarà un momento in cui la nostra camicia
o la nostra maglietta con Snoopy possono essere portate con la stessa solennità
del nostro Kesa. Soltanto in questa attitudine profonda noi diventiamo monaci
nel senso profondo della parola, e non solo noi che siamo ordinati ma tutti
coloro che praticano, uomini, donne, grandi, buddhisti oppure no. Ed è su
questo senso profondo di questa parola che volevo soffermarmi questa mattina:
la parola 'monaco'.
Io sono convinto che ogni
praticante dello Zazen è un monaco o una monaca, e che coloro che hanno
manifestato il desiderio di celebrarlo in una cerimonia più formale e solenne
non sono in nulla superiori a coloro che non portano il Kesa o il Rakusu. Ogni
persona che si siede in Zazen diventa istantaneamente un monaco o monaca. Ogni
essere vivente che si siede in Zazen è come una fogliolina di tè caduta in una
ciotola di acqua calda, diventa subito tè...
Il senso profondo della
parola 'monaco' è assolutamente universale e secolare, non ha niente a che
vedere con un'ordinazione religiosa. La parola 'monaco' che viene dalla radice
'monos' può essere tradotta letteralmente in due maniere complementari ma molto
diverse: la prima traduzione è 'solitario', (solo, unico, uno, mono). In questa
traduzione c'è tutto l'aspetto dell'anacoreta, del contemplativo, di colui che
vive nell'ascesi personale per il suo bene e per il bene del mondo; traduzione
molto mistica ma un po' restrittiva. Ma sapete che quando si traduce 'monaco'
dal greco in latino si passa in una categoria di verbi transitivi, e dunque
possiamo tradurre con 'unificato', ma siccome si passa in una categoria di
verbi transitivi ciò che è 'unificato' è automaticamente 'unificatore'. Questo
è il senso della parola 'monaco' nello Zen: colei/colui che è unificato, che
lavora alla sua unificazione e che diventa unificatore.
Unificato cosa
significa? Significa colui che ha raggiunto o che ha fatto il voto di
raggiungere questo stato in cui non c'è più separazione fra lui ed il
resto di tutte le cose che esistono. Non c'è più separazione non significa che
non c'è più diversità. Questa è un'altra incomprensione della nostra pratica;
spesso quando si dice: non c'è separazione, non c'è divisione, non c'è
distanza, noi immaginiamo che diventiamo o che dovremmo diventare il sole,
oppure la porta o qualche altra esperienza che si presenta davanti a noi. Vi
rendete benissimo conto che non siete la persona che sta di fronte a voi, né la
tazza di tè, né il computer, né il gatto... non siete niente di tutto questo,
eppure tutto questo è voi. Le stelle, la montagna, il cielo, il sole, la luna,
le nuvole, il vento, il ruscello, l’oceano, l’essere che soffre, l’essere
gioioso, il bambino abbandonato o il bambino felice, una donna che piange, un
uomo che soffre, due innamorati che camminano a dieci centimetri al di sopra
del suolo, un mendicante e un criminale, un anacoreta nella sua montagna o un
businessman, un fiore o un gatto, tutto ciò è voi ma voi non siete questo.
Questo è il senso di 'non c’è separazione'. Questo è il senso del lavoro del
praticante dello Zen, del cuore del monaco. Questa disposizione, questa comprensione,
questo desiderio di vivere senza separazione, ma senza separazione non
significa tutto confuso o tutto mischiato, non significa senza diversità.
In francese ci sono certe
parole che si scrivono con un trattino, questo trattino si chiama 'Trait d’union',
il tratto che unisce, in italiano non ce l’abbiamo, ma è come se la nostra vita
diventasse un linguaggio nel quale noi siamo il Trait D’union, il trattino,
questo trattino che unisce sempre le cose. Quindi questa nozione, questo
concetto di 'Non c’è separazione', 'tutto è unificato', non significa non c’è
diversità, significa che noi diventiamo l’opportunità, la possibilità di
rilegare tutte le cose, come si fanno i nodi nei fili di un tappeto, noi
rileghiamo tutte le cose insieme perché si tengano, perché non ci sia niente in
questo mondo che sia abbandonato, perché non ci sia nulla in questo mondo che
sia lasciato da solo, neanche l’anacoreta che vuole vivere solo, che non ci sia
niente in questo mondo che sia lasciato indietro o dimenticato. Questo è il
ruolo profondo del monaco/monaca Zen, e più estesamente di ogni praticante
dello Zen, diventare unificato, vivere unificato. Unificato non significa
confondersi con il resto delle cose, con il resto della gente, con il resto dei
fenomeni, non credete a questa assurdità. Io sono io e sono prezioso in questa
unicità che è la mia. Ogni cosa nel mondo è questa cosa precisa ed è preziosa
per questa Unicità. Cinquemila margherite in un prato sono tutte profondamente
diverse. Quindi unificato non significa confondersi. Ancora queste stupidaggini
di distruggere l’ego, di distruggere la nostra originalità... non ha nulla a
che vedere con questo. Unificato significa rilegato, annodato, come nei fili di
un tappeto. Unificato significa colui che tiene le cose tra di loro, come una
mamma ed un papà che tengono la mano dei loro bimbi per proteggerli ed
accompagnarli, per non lasciarli soli, per farli sentire più forti, per farli
sentire amati, e voi se siete papà e se siete mamme, sapete che la mano si
tiene in differenti maniere. Tenere la mano dei nostri bimbi non significa
semplicemente fisicamente dare la mano. Si tiene la mano quando si osserva a
distanza il nostro bimbo fare la prima volta la bicicletta senza le rotelle...
è il nostro sguardo sta tenendo la mano.
Il praticante dello Zen è
dunque un unificatore, è un trattino d’unione, un Trait d’Union. E voi capite
già cosa c’è in fondo di questa riflessione sulla nostra pratica, è che questa
unificazione è universale. E’ per questo che il monaco non esiste solo con il
Kolomo o con il Kesa ma deve esistere in una maniera molto più vasta, molto più
ordinaria, molto più diffusa, universale, perché il voto più alto, che è il
nostro voto, non è neanche scritto perché deve essere incarnato, non è neanche
detto nei precetti perché non può essere riassunto in una parola. Il nostro
voto più alto è quello di unificare tutte le cose. Se ci pensate bene, in
realtà questo voto non è nient’altro che la natura di Zazen, perché quando
siamo in Zazen stiamo unificando tutte le cose. Nella nostra postura immobile,
attenta, presente, noi diventiamo questo Trait D’union, questa mano che fa i
nodi che tengono tutti i fili della tappezzeria di un tappeto, questa mano
immobile che lega. Non so se avete già visto qualcuno lavorare su di un
telaio per fare tappeti e tappezzerie. Questi telai in cui si dispongono i fili
di tutti i colori, secondo un disegno pre immaginato, attraverso il quale si
passa la navetta per rilegare i fili, per incrociarli, per farli danzare, fino
alla fine per legarli. Se avete già osservato qualcuno lavorare su un un telaio
vi siete resi conto di una cosa abbastanza miracolosa e che il tessitore,
legando, libera. Legando non imprigiona, legando libera, perché il blu se è
passato con la navetta in un certo modo sarà pienamente blu, anche nella massa
del rosso, del giallo, saranno pienamente rosso e giallo. Questo rilegatore,
questo unificatore, nella sua missione ha una doppia azione che è quella di
rilegare le cose senza imprigionarle, rilegarle liberandole, e questa è proprio
la missione fondamentale dello Zen, ed è il senso fondamentale di non essere
separato da niente in questo mondo, cioè non essere separato dall’unicità di
ogni cosa. Non confondere, non fare una zuppa in cui non si vede più cosa c’è
dentro ma fare piuttosto un bel minestrone dove si vede la carota, la zucchina,
la patata, i ditalini. Tutto è unito ma niente di ciò che è unito ha perso la
sua unicità. Ed è per questo che vorrei ordinare monaci tutti gli esseri
viventi. Sette miliardi di monaci, sette miliardi di persone che si ricordano
ogni volta che mettono questo Kesa sulla loro testa al mattino, che questi
scampoli di tessuto cuciti tra di loro sono sacri e santi e diventano reliquia
vivente se mi spingono a cucire tra di loro gli scampoli del mondo. Questi
scampoli cuciti insieme diventano sacri se non sono mai più sacri del vestito
sporco e puzzolente di un mendicante o del vestito e cravatta del collega in
ufficio. Ogni giorno quando indossiamo questo Kesa, quando noi rivestiamo il
manto della liberazione, stiamo rivestendo il desiderio di rilegare tutte le
cose.
Se avete visto il funzo-e
che metto nelle grandi cerimonie con le montagne, gli aironi ed i disegni
geometrici che ho cucito con la mia mamma adottiva, sono stoffe che forse
nessuno metterebbe insieme. Hanno disegni e colori che non sono stati pensati
per stare insieme, eppure le bande del Kesa li rilegano e fanno apparire
l'armonia. In questo momento in cui portiamo il Kesa il mondo è unificato. Ed è
necessario portarlo tantissimo questo Kesa rituale... metterlo, toglierlo,
metterlo, toglierlo. Sapete quanto è importante piegarlo nella buona maniera,
passarlo sulla testa, ripiegarlo, ripiegarlo sulla spalla, farlo scivolare tra
le mani, piegarlo in due, prenderlo fra le due mani, piegarlo in tre, metterlo
nella sua pochette, chiudere la pochette, metterlo sull'altare, inchinarsi e
cominciare la giornata. E qualche ora dopo tornare davanti all'altare,
inchinarsi, togliere il Kesa dalla pochette, metterlo sulla spalla del cuore,
farlo cadere giù, aprirlo, passarlo sotto il braccio, legarlo, piegare l'angolo
sulla spalla, aggiustarlo e sedersi... e dopo questa seduta riprenderlo,
passarlo sulla testa, piegarlo una seconda volta, poi una terza volta, metterlo
sulla spalla, farlo scivolare tra le braccia, piegarlo in due, prenderlo fra le
mani, piegarlo il tre, aggiustare il cordoncino, metterlo nella pochette,
chiudere la pochette, posarlo sull'altare e inchinarsi. E domani mattina di
nuovo... ecc ecc
Ma perché questo Kesa non
lo appendiamo semplicemente ad un appendino visto che lo indossiamo due o tre
volte al giorno? Perché stiamo qua a prenderlo e ripegarlo in due, tre,
quattro, sopra, sotto, a destra, a sinistra? Perché il miracolo del Kesa non
comincia quando portiamo il Kesa. Il miracolo del Kesa comincia quando ci
avviciniamo al nostro altare, ci inchiniamo e prendiamo la pochette. Se noi
capiamo questa cosa, allora ogni volta che noi usciamo per andare verso il
mondo assomiglierà a questo momento in cui ci avviciniamo all'altare e prendiamo
la pochette del Kesa.
Un giorno ho dato tre
camicie ad un mendicante. Ridendo con lui mi disse "mi piacerebbe avere
delle camicie per essere figo...".
Gli dissi va bene e gli
portai le tre camicie, ed era talmente contento di avere tre camicie pulite e
profumate che le ha abbottonate storte... e mi sono scoperto spontaneamente a
rimettergli i bottoni nel modo giusto ridendo un po' e dicendo "ma guarda,
l'hai abbottonata storta...". E quest'uomo che avrà avuto una sessantina
d'anni, burbero e anche un po' aggressivo, in quell'istante in cui gli
abbottonavo quei due o tre bottoni è diventato come un bimbo, ed io ho avuto
l'impressione che stavo legando un Kesa. In quell'attimo non c'è stata nessuna
differenza tra questi tre bottoni di una camicia ed i laccetti del mio
Kesa.
Adesso ho una domanda che
mi strazia il cuore; un Koan per voi al quale vi chiedo di rispondere ma senza
giudicare.
Come mai tanti monaci
Zen, tanti praticanti mettono e tolgono il loro Kesa da dieci, venti, trenta,
quarant'anni, eppure sono incapaci di riabbottonare i bottoni storti di un
barbone per strada? Come mai il miracolo del Kesa non funziona
automaticamente?
T.K. Sensei :
"Sensei, forse perché hanno confuso il Kesa con un abito distintivo e non
come una porta verso la libertà, di non indossare più nessun abito."
A.L. :
"Sento spesso parlare di ego e credo che questi maestri passano una vita a
parlare di ego ma di quello degli altri, e questo discorso che ci ha fatto
stamattina, del 'trattino che unisce', forse per tutta la vita di questi monaci
non c'è neanche un momento per pensare che anche loro dovrebbero essere questo
'trattino che unisce'. Sicuramente a me manca, ma nello stesso tempo guardo con
giudizio chi non riesce a chinarsi sul mendicante, per me è molto difficile. Mi
viene di pensare che dovrebbe essere un po' più facile per i monaci, ma forse
non è così."
C.T. :
"A mio modestissimo parere, il Kesa vuol dire tutto e non vuol dire
niente. Tanta gente non ha il Kesa e riesce ad abbottonare molto meglio i
bottoncini rispetto a chi ce l'ha. E' una cosa che è veramente dentro di noi,
noi la veneriamo, noi la impacchettiamo, la pieghiamo, la cuciamo, ma alla
fine, anche senza il Kesa, noi dovremmo avere questa capacità di abbottonare i
bottoncini giusti."
Una bellissima porta si è
aperta fra queste parole...
E.S. : "Mi è venuta in mente un'esperienza che ho fatto anni fa con i
ragazzi migranti con i quali abbiamo dato vita ad una piccola sartoria. C'erano
persone che non sapevano cucire, altre che già lo facevano nel loro paese;
ricordo che eravamo in tredici/quattordici persone dentro una stanza e si
cuciva tutti insieme, non importava cosa, e c'era un silenzio religioso... è lo
stesso silenzio che c'è durante una Sesshin di cucitura del Kesa. In quei
momenti mi sono fermata a guardarli perché ognuno era intento nel fare il
proprio pezzettino, e chi sapeva fare una cosa la insegnava all'altro. Persone
di paesi completamente diversi, uno Musulmano, l'altro Cristiano, qualcuno
parlava francese, qulcuno in inglese, ma si capivano lo stesso. Una volta mi
venne spontaneo disporci in cerchio seduti e dissi: "Facciamo una
preghiera in silenzio ognuno al proprio Dio". E così ogni mattina, se me
ne dimenticavo, mi chiamavano: "e oggi non facciamo la preghiera?".
In quegli anni in cui ho lavorato con loro mi si è riempito il cuore in una
maniera pazzesca. L'intensità di quei momenti non la so descrivere, è
incredibile. Quel momento di cucitura che era tanto sacro, tanto quanto noi che
cuciamo il Kesa in una Sesshin."
E.K. Sensei :
"Più che pensare tanto al Kesa o alla camicia, è forse meglio pensare più
ai laccetti ed ai bottoni. Essere più bottone, essere più laccetto."
D.P. : "Il mio
pensiero sulla parola 'monaco', su l'attenzione del Kesa, alla difficoltà
nell'allacciare un bottone ad un barbone... Secondo me, per l'essere umano la
vera difficoltà è la paura. Questa è una cosa che ho spesso riscontrato. Al di
fuori dello Zazen mi ha aiutato molto il Karate, perché vuoi o non vuoi certe
difficoltà le devi affrontare. Onestamente non sono il tipo di persona che ha
la forza di poter andare ad allacciare la camicia ad un barbone, magari posso
aiutarlo, posso fare attenzione ad uno sguardo, ma facendo un esame su me
stesso mi rendo conto che può semplicemente mancare la forza per paura. Ce
l'abbiamo tutti e ce l'avremo sempre anche una volta superata."
Il segreto è che se un
giorno cucirete un Kesa, o se allaccerete un bottone di un mendicante, vi
renderete conto che voi siete il Kesa e siete il bottone. E se cuciamo un Kesa
nella nostra Pratica dello Zen è per non dimenticare mai questa cosa qui:
il Kesa siamo noi. Il bottone da
riallacciare siamo noi. Il laccetto, come ha detto E., siamo noi. Se ci
mettiamo tanta attenzione nel piegare e ripiegare, mettere a posto, riprende e
venerare, è semplicemente per ricordarci che noi allacciamo i laccetti e nel
migliore dei casi abbottoniamo i bottoni anche per coloro che non allacciano e
che non abbottonano; questa è la vera unificazione. Noi possiamo in ogni
istante della nostra Pratica diventare il Kesa di coloro che hanno dimenticato
il Kesa.
In termini più laici,
possiamo diventare il gesto che allaccia anche al posto di coloro che hanno
paura o non hanno la forza, coma ha detto D., di allacciare. O forse
semplicemente, si sono talmente allontanati dal loro volto originale che non
sanno più che è importantissimo allacciare. In ogni gesto, preciso, cosciente,
presente della nostra vita noi possiamo diventare il gesto che rilega, il gesto
religioso, anche al posto di coloro che dividono. E più vediamo divisione,
discordia e guerra in questo mondo, più allacciamo laccetti, più vediamo che
c'è discriminazione in questo mondo e più cuciamo dei Kesa. Ed ecco che il
praticante, ufficialmente monaco o no, diventa il 'trattino che unisce'.
Come diceva Enrico
Sensei, diventa laccetto e bottone. Se veneriamo dei Kesa e li cuciamo su di
noi è per non dimenticare mai che per tutta la nostra vita non facciamo altro
che essere di fronte all'opportunità miracolosa e misteriosa di poter cucire il
Kesa del mondo. Lo cuciamo per noi e addirittura per quelli che lo scuciono. E
visto che ci sarà sempre qualcuno che scuce, divide e separa, che abbandona, è
importantissimo che ci sia qualcuno che abbottona ed allaccia. Questa cosa qui
dovrebbe essere la nostra ossessione quotidiana.
Vorrei cuciste tutti un
Kesa e che celebriate tutti la vostra Ordinazione monastica per cristallizzare
nella vostra vita il voto di diventare tessitori del mondo. Questo è il monaco
Zen, il praticante dello Zen; se non c'è questa dimensione allora la nostra
Pratica è teatro, cinema, ipocrisia.
Quando non hai più il
Kesa sulle spalle, il Kesa sei tu.
E visto che sei colui che
non separa, sei nello stesso tempo Kesa, sarto, stoffa e filo. Prendersi cura
del mondo; il praticante è il sarto del mondo.
D.K. Sensei:
"Vorrei ricollegarmi a questo atto magico di cui parla. E' magico perché
un Kesa fondamentalmente lo cuciamo per gli altri, lo facciamo bello per gli
altri come quando si pratica la calligrafia; non è fondamentale la bellezza
dell'ideogramma, ma è proprio il gesto che deve essere bello, come un'offerta,
una liturgia. Il Kesa non è di lino, di seta... finché confondiamo il
Kesa con un tessuto, non c'è Kesa. Avere la fortuna di ricevere la corretta
Trasmissione del Kesa allora ci permette di abbottonare bene i bottoni del mondo,
di cucire le cicatrici del mondo e di valorizzare queste bellissime venatura,
come l'oro del kintsugi, nel valorizzare quelli che sono i segni del tempo
dell'Impermanenza e di farli vivere nella realtà di quello che è, non la loro
forma estetica ma nella forma del cuore, la loro forma unificata. Ieri per caso
ho letto un breve passaggio del capitolo 'DEN-E' (La Corretta Trasmissione del
Kesa) dello Shōbōgenzō, scritto con molta collera da Dōgen! Critica
profondamente le tradizioni che non trasmettono correttamente la cucitura,
l'arte del divenire Kesa, dell'indossare il Kesa correttamente. Questo, secondo
me, è meraviglioso perché c'è il fuoco della passione, è il fuoco dell'amore, e
dove c'è amore c'è anche collera, sennò che cos'è!?! E c'è scritto che tutti
dovrebbero indossare un Kesa: laici, malviventi ecc... è
commovente."
Grazie mille a ciascuno
di voi per questo incontro, per il vostro tempo offerto
generosamente.
Vi lascio con una piccola
storia che ogni tanto racconto, per darvi un'immagine bella che spero vi resti
incisa nel cuore, su cos'è il Kesa e cos'è il monaco, il praticante dello Zen
ordinato o non ordinato; non c'è nessuna differenza, (la differenza è solo
formale).
Il racconto di due
monaci: Il maestro ed il
discepolo stanno percorrendo un sentiero di montagna un po' tortuoso per
arrivare ad un eremo e fare le Offerte di Gotan-e (la nascita del Buddha). Il
discepolo, che sta accompagnando il suo maestro, sistematicamente toglie tutte
le pietre, i pezzi di legno e tutti gli ostacoli che trova in mezzo al
sentiero. Il maestro l'osserva... è molto ammirato perché il discepolo in più
porta sulle spalle una cassa di legno pesante con dentro gli oggetti che
serviranno per la Cerimonia. Si fermano a mangiare un pezzo di pane e a bere
del té, ed il maestro dice al suo discepolo: "Sono commosso dalla tua
generosità. Non ho detto nulla fino ad ora ma ho osservato che durante tutto il
cammino hai tolto pietre, pezzi di legno, ostacoli. Sono commosso per questo
gesto che fai per coloro che verranno dopo di noi perché trovino un sentiero
pulito, praticabile." E in quel momento il discepolo dice: "Maestro,
ma io queste pietre, questi sassi, questi ostacoli non li ho tolti per quelli
che verranno dopo di noi... li ho tolti per coloro che sono passati prima e non
l'hanno fatto per noi."...e in questo momento il Maestro ha
pianto.
Questo è il senso della
nostra Pratica, praticare per noi e per coloro che non praticano, risvegliarsi
per noi e per coloro che dormono, allacciare i bottoni per noi e per coloro che
non li allacciano o che li slacciano lasciando la gente nuda nel freddo...
Possiamo tutti insieme camminare sul sentiero della nostra esistenza, togliere
tutti gli ostacoli per noi che camminiamo, per quelli che verranno dopo, ma
soprattutto per coloro che sono passati prima. Il Kesa che voi cucite è cucito
anche per coloro che non hanno mai cucito.
Federico Dainin Jōkō Sensei
(Trascrizione a cura di Monica Tainin)
© Tora Kan Dōjō
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