“Non due, tre, ma una sola è la vita.
Peccato coltivar un’erronea visione.
Non basta pensar di non far male o di far bene:
soggetti si è del Karma comunque,
scusa non c’è per chi ‘l giusto non vede.”
Qualche giorno fa sedevo nel mio piccolo giardino e per cercare ombra ho spostato la sedia in un angolo del giardino dove, probabilmente, non mi era mai capitato di sedere.
Da questa nuova prospettiva, il familiare giardino ha cominciato a parlarmi con un linguaggio inedito ed inatteso e ho cominciato a notare dettagli che non avevano mai, finora, catturato la mia attenzione.
La strofa che apre questo post è tratta dal 1° Capitolo dello Shūshōgi (importante testo Zen Sōtō che raccoglie come compendio gli Insegnamenti di Dōgen Zenji), dal titolo Sōjo.
La traduzione di Sōjo può anche essere resa con: ‘mutamento di prospettiva.
Mutare costantemente la prospettiva è alla base di ogni pratica che si rispetti.
Per mutare la prospettiva si deve avere il coraggio di abbandonare la propria posizione, posizione che magari si è guadagnata con i denti e con le unghie.
L’abbandono della propria posizione pone in una condizione di spaesamento superata la quale, lo sguardo sul mondo si ritrova arricchito di nuovi elementi ed intuizioni.
La prassi formativa, nei monasteri Zen, prevede che un monaco debba, a poco a poco, assumere tutte le responsabilità del monastero, dal manutentore al cuoco, dall’amministatore all’insegnante...
Deve imparare ad essere in grado di passare da una mansione all’altra svolgendole con prontezza, intuizione, efficacia e, ultimo ma non ultimo, con serenità.
E’ questa malleabilità ed efficacia che i cosiddetti manager cercano di andare a rubare nei monasteri Zen.
Purtroppo pensando che basti ascoltare una conferenza, leggere qualche libro e ‘guardare altri che fanno’ per capire ed apprendere, mentre l’affinamento di queste qualità può solo avvenire per esperienza diretta, ‘lavorando a bottega’ come apprendisti.
La realtà è talmente multidimensionale che i nostri sensi e, soprattutto, il nostro pensiero ne percepiscono sempre una parte infinitesimale.
Porsi dunque di fronte all’esperienza disponendosi a continui cambiamenti di prospettiva permette di plasmare una visione ampia ed intuitiva della realtà che permette di percepire anche quello che non appare evidente ai sensi, di cogliere il lato oscuro della luna.
“Colui che è capace di una percezione totale può vedere tutti i dharma, dunque, può vedere un solo dharma come per esempio un granello di polvere, e conoscere il mondo intero.”
(Shōbōgenzō cap. 31 Shoakumakusa)
In giappone si dice anche ‘percepire il kūki 空気 di una situazione’.
Avrete riconosciuto nel termine Kūki i caratteri di vuoto, kara 空 e ki 気 energia.
Per percepire il Kūki di una situazione, percezione che permette di cogliere l’opportunità presente in ogni situazione e agire in modo efficace ed armonioso con il contesto, non ci si può basare solo sui sensi né tantomeno sul pensiero razionale (che in oriente è considerato nè più e nè meno come uno dei 6 sensi, fallibile e limitato quanto e forse più degli altri) ma l’unità di corpo-mente deve rispondere come un diapason alla vibrazione del momento.
Questa capacità intuitiva (tanto importante nell’arte marziale e nella cosiddetta difesa personale quanto in ogni ambito della vita umana) si acquisisce ed affina attraverso la pratica ed in particolare proprio attraverso quelle esperienze di ‘mutamento di prospettiva’ che la pratica deve offrire.
Un insegnante dovrà sempre condurre l’allievo ad ‘abbandonare la sua posizione’ a volte con metodi apparentemente brutali.
Un insegnante ben sa quanto integralista possa diventare chi non ha raggiunto le profondità dell’arte.
Ben sa quanto comodo ma pericoloso sia ‘sedersi’ sulle proprie acquisizioni, e, altrettanto bene, sa quanto lontano dalla Via porti l’incapacità di mutare la prospettiva.
Qualche giorno fa durante uno Zazen dell’alba ho chiesto a L. di suonare, per la prima volta, la campana durante il breve rito del mattino.
Lo smarrimento iniziale di L. si è trasformato immediatamente, sulla spinta della necessità di agire, in determinazione.
Disporsi nel ruolo di chi ‘invita al suono’ la campana costringe a vivere il rito da tutt’altra angolazione, costringe i sensi a risvegliarsi a nuovi stimoli, a prestare attenzione a particolari che non possiamo cogliere se non da quella visuale.
Questo vale per il suonare la campana, il moppan, così come per il portare il Kyosaku durante lo Zazen.
Assumere ognuno di questi ruoli costringe ad un mutamento di prospettiva, come ben sa chi dal suo comodo zafu si è ritrovato con un Kyosaku in mano a vegliare dietro alle posture erette di chi siede nel Dōjō o a suonare il legno per invitare allo Zazen.
Altrettanto fondamentale è la necessità di un continuo mutamento di prospettiva nella pratica del Karate-Dō.
Non perdere occasione per vivere inedite e impegnative esperienze di pratica, assumere delle responsabilità nel Dōjō passando dal ruolo di fruitore a quello di chi si dispone al servizio, porsi nella posizione di trasmettere quel che si è appreso con tutte le problematiche che sorgono di conseguenza, sono tutti comportamenti che comportano un radicale cambiamento di prospettiva e prevengono il ristagnare e regredire della pratica.
Con questi cambiamenti di prospettiva l’angolazione da cui guarderemo al Dōjō, al luogo del nostro esercizio, così come al nostro stesso esercizio, si trasformerà radicalmente e, come è capitato a me nel mio giardino, cominceremo a cogliere sfumature e dettagli che ci offriranno nuove prospettive di sviluppo alla nostra pratica e comprensione.
Quanti meravigliosi giardini possono dischiudersi ai nostri occhi solo mutando la prospettiva della nostra visuale ?
P.Taigō