Pubblichiamo un articolo tratto da una lezione tenuta da Sensei Paolo Taigō Spongia presso il Tora Kan Dōjō durante la Pratica Zen. In queste righe veniamo richiamati all'attenzione, anche e soprattutto verso i piccoli gesti quotidiani, che mostrano il saper prendersi cura, e svelano il Satori. Le lezioni hanno un carattere colloquiale del quale tener conto nella lettura.
L'articolo è a cura della sezione di Studio e Pratica Zen del Tora Kan Dōjō.
In
Zazen è buona cosa stare vicini, quasi col rischio di toccarsi. Non bisogna
aver paura di contaminarsi con gli altri. Bisogna stare vicini gomito a gomito,
è molto importante.
Allora si impara a muoversi con discrezione, a
rispettare lo spazio dell'altro e rispettare la sua concentrazione, inoltre permette di ricordare costantemente che lo Zazen non può essere una pratica individualistica.
Non
possiamo adattare le regole del Dōjō alla nostra convenienza, anche se si
trattasse di una regola dettata ieri andrebbe rispettata come se fosse una regola
tramandata da secoli. E’ un modo per uscire da sé stessi, per capire che non
possiamo essere noi con il nostro piccolo cervello, che si muove sempre sugli
stessi percorsi dettati da abitudini e condizionamenti, a decidere sulla base
di cosa ci aggrada o non ci aggrada.
La
regola serve anche ad orientare altri in futuro e non solo noi stessi.
Il
suono del Moppan (asse di legno che viene colpita con un mazzuolo per segnalare
momenti della pratica nel Dōjō e nel Monastero Zen n.d.r.) non è indirizzato solo a
voi che praticate Zazen. Pensate per esempio a chi involontariamente lo ascolta mentre sta praticando il Karate nell’altro Dōjō (il Tora Kan Dōjō ha due sale di Pratica, lo Zendō dedicato allo Zazen ed una sala grande dedicata alla Pratica del Karate-Dō n.d.r.), può evocare in lui
qualcosa, può comprendere che sta accadendo qualcosa e questo può influenzare
il suo spirito mentre ad esempio sta praticando un kata, quindi non pensate che
state suonando il Moppan solo per voi. Questa è una cosa importante che spesso
ci sfugge: quel suono riverbera molto più lontano di quello che noi possiamo
immaginare, nel cuore e nella mente di molte esistenze.
Il
fatto di sedere in questo luogo in silenzio, raccolti, in maniera quasi
segreta, non deve portare a pensare che sia un’azione che finisce qui e che
rimane chiusa tra queste quattro mura. Quest’azione ha un riflesso, un
riverbero potente nelle nostre vite e in quelle di chi ci circonda, anche nelle
vite di chi non conosciamo ed è ignaro della nostra Pratica.
Quindi
non trascurate quel suono, non è solo finalizzato a ricordare qualcosa a noi
nel Dōjō, è un suono universale, un richiamo a raccolta rivolto a tutte le
Esistenze. Non trascurate nessun gesto perchè ogni gesto ha un riverbero universale.
Dōgen
Zenji nel 1200 raccontava queste cose alle persone che praticavano con lui e
gli dava le stesse indicazioni, magari in un frangente diverso, ma diceva le
stesse cose.
Non
serve a nulla leggere Dōgen Zenji se non sentiamo che le sue parole toccano
profondamente i nostri cuori e ‘contaminano’ le nostre vite.
Leggere
il testo di un Maestro che è vissuto nel Giappone del 1200 non dev’essere come fare
dell'archeologia o della filosofia, deve orientare le nostre vite, deve darci
le indicazioni vive che dobbiamo mettere in pratica in maniera concreta,
offrendogli un nuovo respiro. Dobbiamo ridire quelle parole attraverso la nostra
azione.
A
prescindere che si sia dei monaci o meno, quando ci accingiamo a qualsiasi
gesto in un Monastero Zen o in un Dōjō, anche nel lavarci i denti, recitiamo
delle strofe (Gatha) con la convinzione che quel gesto non sia solo messo in
atto per sbiancarci i denti ma divenga un gesto universale; per cui quando
impugno lo spazzolino recito: 'impugno questo spazzolino perché possa rimuovere
la menzogna dalla mia parola e purificarla e perché quest’azione offra
beneficio ad ogni esistenza'.
L'azione del lavarsi i denti allora non è più qualcosa legato solo alla nostra igiene personale
e ci richiede una maggiore cura ed attenzione perché è a beneficio di tutte le
esistenze.
E
questo vale per ogni azione quotidiana che così viene in qualche modo
‘santificata’ e 'purificata' dal nostro egoismo, avidità, ignoranza.
Non
c'è bisogno di pensare che agiamo a beneficio dell'umanità solo quando ci
accingiamo ad azioni umanitarie eclatanti. Certo è importantissimo tirar fuori
la gente dalla neve dopo una valanga e ci mancherebbe altro che non lo si facesse
(Taigō Sensei fa riferimento ad un episodio di cronaca di quei giorni nd.r.), ma
forse se ci laviamo i denti o se facciamo qualsiasi altra cosa con la giusta
concentrazione e con spirito ‘religioso’ arriveremo al punto di non dover più
scavare la gente fuori dalla neve perché avremo costruito le case senza
distrazione o avido spirito di profitto. Molte disgrazie che accadono sono
dovute proprio alla distrazione o ad azioni messe in atto senza la dovuta cura
o mosse da avidità ed egoismo. Allora arriva la valanga a richiamarci alla
nostra responsabilità e la montagna non è assassina, la montagna è benedetta, è
santa, anche quando travolge le persone. La montagna fa la montagna, siamo noi
che non siamo capaci di fare gli uomini e siamo diventati incapaci di comunicare
con la montagna. Il Vajont è stato distrutto perché hanno costruito una diga
malamente, con avido spirito di profitto. Un vero montanaro non avrebbe mai
costruito una diga in quel posto, ci sono andati gli ingegneri dalle città a
farlo, mossi da ben altri interessi.
La
vita secondo lo stile e i modi Zen è vera ecologia, innanzitutto ecologia della
mente, l’unica da cui può derivare un concreto stile di vita ecologico, non
chiacchiere da campagna politica ma semplici e concreti gesti quotidiani.
Allora
quando noi suoniamo il legno dobbiamo esprimere questo Pensiero Universale nel
suono che riverbera chiamando a raccolta ogni esistenza.
Quando
mangiamo, recitando il Gyōhatsu no ge, invitiamo alla nostra mensa il Buddha, i
Patriarchi e tutte le esistenze. Tutte le esistenze sono presenti alla nostra
mensa, anche se sediamo a tavola in tre. Allora il respiro dei nostri gesti, di
tutto quello che facciamo, diventa infinito.
Ma
purtroppo siamo stati educati a pensare che il nostro piatto di minestra sia
cosa privata riservata solo a noi, alla nostra bocca, al nostro stomaco, e se
va bene a quelli che ci stanno intorno, perché spesso non è nemmeno così, non
si è più in grado di condividere un pasto, si mangia con gli altri immersi
nella distrazione, senza la consapevolezza della condivisione, dello ‘spezzare
il pane’, e chi si dice cattolico non può trascurare questo, ognuno è solo con sé stesso in compagnia della sua avidità; ma se noi
invece dessimo al nostro nutrirci questo Respiro Universale sarebbe un altro
cibo a nutrirci, una vera medicina per il corpo e lo spirito.
Quando
solleviamo le ciotole e le portiamo di fronte agli occhi, in segno di offerta e
benedizione, compiamo un gesto di trasformazione del cibo, è come quando il sacerdote eleva l'ostia, la trasforma diventando il corpo e il sangue di Gesù Cristo
perché l’offerta lo ha trasformato.
E
allora mangiare in questo modo diventa una medicina a prescindere da quel che
si mangia e innesca una sequenza virtuosa di azioni perché chi preparerà quel
cibo che sarà servito a chi è capace di offerta e consapevolezza, lo preparerà
con tutto il suo cuore, quel gesto dunque avrà un riverbero vastissimo e alla
fine coinvolgerà tutti fino ad arrivare a chi produce le materie prime.
Lo
Zen è tutto lì. Quindi quando voi siete invitati alla mensa (e non mi riferisco
solo ad un invito a cena) e non accettate l’invito perché magari pensate 'vabbè io posso mancare perchè
tanto ci sono gli altri che saranno presenti’ state bestemmiando. Se
dimenticate di suonare il moppan non c'è niente di male, succede, però se
l'avete dimenticato e avete pensato 'va bene uguale', no, non va bene uguale,
perché dovete sentire la responsabilità di chiamare a raccolta tutte le
esistenze, non si tratta di fare più o meno bene il compitino che ci ha dato il
Maestro, capite?
Ci
siamo dati delle regole che dobbiamo continuare a perfezionare affinché la
nostra Pratica sia efficace. Dobbiamo affinare i gesti, i modi, stiamo
affinando e studiando insieme un linguaggio comune che orienti la nostra
Pratica che è anche la nostra vita.
A
fine Febbraio verrà a trovarci Shinnyo Roshi e ci potrà dare ulteriori indicazioni per approfondire il nostro esercizio.
Ma
il Tora Kan Dōjō, anche se è legato profondamente a Shinnyoji,
non è comunque un Tempio e noi abbiamo la responsabilità di tradurre quel linguaggio e quelle forme che sono state tramandate per centinaia di anni attraverso un Lignaggio perché possano essere significative in questo contesto, è questa la nostra Pratica. E dobbiamo
essere fedeli, non possiamo fare come ci aggrada o essere approssimativi, siamo i depositari di una Preziosa Eredità. Questo è di fondamentale
importanza, perché è la base della nostra Pratica.
Affinare
la sensibilità e il gesto attraverso l'esercizio, che vuol dire ripetere,
ripetere rinnovando, sempre con maggiore attenzione senza l'istupidimento di chi
ripete come coazione a ripetere. Ogni volta che offro un bastoncino d’incenso
cerco di fare un gesto sempre più accurato, che poi è l’accuratezza legata a
quel preciso istante, affatto standardizzata. Con la cura espressa in quel
gesto entro in relazione con chi ha preparato l'incensiere prima del rito, con
il Jisha che mi accompagna e mi porge l’incenso e il Jisha e chi prepara l'incensiere
deve essere consapevole che sta facendo qualcosa che ci mette in relazione
profonda. Non si tratta solo di mettere a posto l’incensiere per fare il
compito che qualcuno ci ha assegnato, si tratta di offrire la preparazione dell'incensiere perché io
possa offrire a mia volta un incenso al Buddha a nome di tutti. Capite quanto preparare
l'incensiere sia importante ? Spesso invece questa incombenza la assumiamo un
po' come una seccatura, invece prevede l’atteggiamento di chi sta offrendo
l’incensiere al Buddha stesso, con la stessa cura e devozione, così come una
buona madre prepara la tavola a cui siederà la sua famiglia con cura, non butta
lì due piatti perché ‘bisogna mangiare’, magari cerca di farlo anche con una
certa bellezza.
Lo
Zen non è una filosofia astratta, è la Pratica di una buona madre (Roshin), di un buon
padre.
Noi
non siamo più capaci di questa attenzione, stiamo perdendo questa capacità di prenderci cura e e
allora accade che la valanga ci travolga.
Io
vi consiglio, anche nelle vostre vite fuori dal Dōjō di trovare le
forme, i linguaggi adeguati ad ogni situazione attingendo a piene mani all'esperienza fatta nel Dōjō. Fate uso di quel che imparate
nel Dōjō: i gesti, il ritmo, l’armonia, vedrete che ne avrete un riscontro
enorme se non altro per la vostra pace e per la vostra serenità, nel modo in
cui godrete nel far le cose stesse. Perché se voi un gesto lo rinnovate
ripetendolo, affinandolo, troverete il modo migliore di fare ogni cosa che sarà
sempre in via di perfezionamento perché, come abbiamo detto tante volte, il
nostro corpo cambia, la mente, il nostro atteggiamento cambiano, cambia la
situazione, cambiano tanti fattori che entrano in gioco per cui ogni giorno
quel gesto richiederà un nuovo equilibrio. Potrete constatare dunque che anche
la ripetizione non è mai uguale a sé stessa e che è una continua esplorazione
di sé.
Quindi
affinare i gesti, come nella cerimonia del tè, significa sviluppare una
profonda sensibilità alla bellezza, all’armonia, all’equilibrio, che si
riflette in ogni azione.
Rispettare
la natura di ogni oggetto che utilizziamo e riponendolo al posto giusto (‘ci
sono utensili che per loro natura hanno la loro collocazione in alto e utensili
che devono stare in basso’ Dōgen Zenji- Tenzo Kyōkun).
Quando
posate un bicchiere sul tavolo lo sguardo segue il gesto fino in fondo e la
mano si prende cura della natura di quel bicchiere (più pesante o leggero, più
solido o fragile) che non urterà pesantemente la superficie del tavolo. Voi, il
bicchiere, il tavolo… siete diventati una cosa sola.
Nella
nostra pratica che sia quella dello Zen come quella del Budō la perfezione è
possibile, nella pratica del Budō si parla di Kami Waza, la tecnica divina,
magistrale, perché in perfetta armonia con il momento in cui si compie, pertanto
unica ed irripetibile.
Non
si tratta dunque di una perfezione che si raggiunge una volta per tutte: è il
momento perfetto, il gesto perfetto che tu vivi in maniera perfetta, perché sei
totalmente implicato nell’azione al punto da scomparire in essa, da ritrovare
quell’unità col tutto che la mente illusa aveva perso.
Allora
scopriremo una ricchezza in ogni istante, in tutto quel che facciamo, al punto
da fare della vita un’opera d’arte.
Quante
volte nella vostra vita avete prestato attenzione, ascolto, all'acqua che scorre
sulle mani quando le lavate. Pensateci! Forse mai avete veramente lavato le
mani consapevolmente, entrando in relazione con l’acqua. Laviamo le mani e
pensiamo ad altro, a quel che dobbiamo fare dopo ma provate una volta a lavarvi
le mani solo per lavarvi le mani... potrete scoprire un mondo, un mondo di
sensazioni, di pienezza, di gioia, questo è lo Zazen, questo il Satori!
Aspettiamo sempre che la gioia arrivi in occasioni speciali invece è lì, a
portata di mano.
E
quando vi dico queste cose lo faccio per rammentarle anche a me stesso, non ho
la pretesa di insegnar nulla che non stia insegnando anche a me stesso
costantemente, perché il Satori va rinnovato di momento in momento, ‘Datsu Raku
Shin Jin’ rispose Ju Ching al suo Discepolo Dōgen Zenji che gli comunicava il
suo Risveglio, ‘continua ad abbandonare corpo e mente’ ‘ continua momento per
momento a nutrire questa metamorfosi’
(registrazione e trascrizione a cura di Monica Tainin)
© Tora Kan Dōjō