Che
tristezza aver sprecato tanti anni in un giochino sportivo pensando di
praticare il Karate…
Il
Tai Taikō è davvero un testo raffinato e molto concreto e questa educazione dovrebbe
essere il fondamento anche della vita di un artista marziale non solo di un
praticante Zen.
Oggi
c’è la tendenza a polemizzare affermando che la trasformazione del Tode di
Okinawa in Karate-Dō abbia determinato una contaminazione dell’originale Bujutsu
di Okinawa con una sorta di imposizione, da parte dei giapponesi, che intesero
in tal modo ‘giapponesizzare’ il Karate di Okinawa.
Io
penso che si debba fare una netta distinzione tra la ‘giapponesizzazione’ del
Karate intesa come deviazione dai principi originari, effettivamente avvenuta
nel Karate insegnato nelle università giapponesi con un’impostazione
ottusamente militaresca (dovuta anche alla contingenza del periodo storico) o
in alcuni stili come lo Shotokan o il Goju-Ryu giapponese che si sono totalmente
allontanati, nella tecnica e nella metodica, dalla pratica originaria di
Okinawa, e invece la positiva contaminazione che ha portato gli stessi maestri
di Okinawa ad adottare alcune forme educative e di etichetta legate alla
cultura ed educazione giapponesi, in particolar modo legate allo Zen e alla
cultura Samurai.
I
Samurai del clan Satsuma dominarono Okinawa per quasi 300 anni (1609-1879) ed è
difficile pensare che la loro cultura non abbia in qualche modo contaminato il
pensiero e la pratica degli okinawensi così come la precedente dominazione
cinese ne influenzò usi e costumi nonché l’arte marziale.
Probabilmente
i praticanti e Maestri di Okinawa hanno riconosciuto che queste forme di
educazione potevano permettere all’arte del combattimento di Okinawa di
evolversi in una forma di arte marziale più raffinata ed educativa.
Abbiamo
sicura testimonianza del fatto che Chojun Miyagi Sensei, il fondatore del
Goju-Ryu di Okinawa (e come lui altri grandi Maestri), parlasse diffusamente ai
suoi allievi dei principi del Bushidō e dello Zen.
Così
come i principi educativi del Judō, proposti da Jigoro Kano Sensei, ebbero
grande influenza sul pensiero di Chojun Miyagi Sensei.
Quando
ebbi l’onore di essere invitato a cena a casa di Shuichi Aragaki Sensei, ultimo
discepolo vivente di Chojun Miyagi Sensei, dopo aver cenato parlammo a lungo di
Chojun Miyagi Sensei e Aragaki Sensei mi mostrò un album di famiglia che
conteneva il suo albero genealogico e, con grande orgoglio, mi mostrò che un
suo antenato era un Samurai.
Non
sarebbe dunque così strano se l’antenato samurai (e chissà quanti okinawensi
vantano discendenze Samurai) avesse influenzato con i suoi modi e le sue
conoscenze la sua famiglia e i suoi conoscenti.
In
quella preziosa occasione Shuichi Aragaki Sensei mi fece dono della calligrafia
(che produsse davanti a me) : Sho Gai Budō , Tutta la vita per il Budō, che è
esposta nell’accoglienza del Tora Kan Dojo.
Senza
affrontare qui il discorso relativo all’influenza che la matrice dello Shaolin
Kung Fu della Cina del sud (lo Shaolin del Fukien era un monastero Buddhista
Chan-Zen) ha avuto sulla nascita e sviluppo del Goju-Ryu di Okinawa
E
questa contaminazione, a mio parere, non ha affatto ‘annacquato’ il letale
bagaglio marziale dell’originario Bujutsu di Okinawa ma l’ha anzi arricchito di
elementi di formazione psicologica, morale e spirituale che non possono che
aver determinato un’evoluzione in termini di efficacia marziale e, soprattutto,
hanno fornito gli elementi per rendere l’originario Bujutsu di Okinawa, che già
di per se non era teso solo alla vittoria in combattimento ma conteneva
numerosi elementi morali ed educativi, un’arte estremamente educativa e
formativa dell’essere umano nella sua dimensione più completa.
Io
avrei abbandonato la pratica del karate molti anni fa se questa si fosse
ridotta ad un esercizio atto solo a rinforzare il corpo, a tirare calci e pugni
sempre più potenti, guidati dalla nevrosi della cosiddetta ‘difesa personale’.
Una
tale primitiva interpretazione della pratica del Karate nasce dalla necessità
compensare frustrazioni e complessi
spesso al limite della patologia, come il body builder che deve vedersi sempre
più grosso perché dentro di sé nasconde un uomo impaurito che si vede piccolo e
indifeso rispetto agli altri, come l’armatura di Jeeg robot che è abitata da un
piccolo e insignificante ometto…
Se
non cresce l’uomo che sta dentro quell’armatura, l’armatura da sola aiuta forse
per un po’, ma non basterà e prima o poi la fragile struttura crollerà. Se la
pratica dell’arte marziale non è accompagnata da una vigorosa ed efficace
educazione dello spirito (e qui serve un vero maestro non è sufficiente un
istruttore sportivo) rischia di mascherare, nascondere queste nevrosi senza
risolverle rendendo, paradossalmente, l’uomo ancora più fragile.
Nella
mia personale esperienza, perché io parlo sempre a partire da un esperienza
concreta della mente e del corpo non da conoscenze libresche, l’educazione Zen
può offrire gli strumenti educativi che sono venuti a mancare alla pratica
marziale occidentale, ma richiede un’implicazione che pochi sono disposti ad
offrire.
Sono
convinto che il Karate-Dō, al di là della valenza dell’efficacia in
combattimento che do quasi per scontata in un praticante di alto livello, trovi
il suo vero valore nell’offrire efficacissimi strumenti educativi che aiutino i
praticanti a conoscere sé stessi e vivere meglio. In fondo anche il saper
difenderti in strada dipende dal fatto che tu abbia imparato ad usare il tuo
corpo e la tua mente in molteplici situazioni, ad aver sviluppato
un’intuitività animale rispetto alle situazioni di pericolo, piuttosto che aver
imparato semplicemente ed ottusamente a tirare calci e pugni.
L’importante
è che il comportamento sia naturale, e perché diventi naturale deve passare da
una lunga pratica. Sembra un paradosso, ma non lo è.
‘Prima
di iniziare a praticare le montagne erano solo montagne.
Quando
iniziai a praticare le montagne non mi apparvero più solo montagne.
Dopo
tanti anni di pratica le montagne sono tornate ad essere solo montagne.'
La
pratica deve far in modo di ricostruire gli istinti che abbiamo perso. Il
karate, il combattimento, il gesto marziale, è un gesto animale, istintivo…..
Una tigre o un gatto non hanno bisogno di preparazione per arrivare a quel
gesto, è nella loro natura, nel loro istinto.
L’uomo
ha perso questa istintualità animale, è per certi versi un animale invalido.
Un’invalidità che abbiamo cercato di compensare con il nostro intelletto,
affidandoci totalmente ad esso con il risultato di un’eccessiva
concettualizzazione, un eccessivo affidamento al pensiero, che è diventato una
forma di patologia inibendo ancor di più l’istintività e la capacità intuitiva
che affonda in una saggezza primordiale.
Quella
saggezza ed intuitività che lo Zazen e l’educazione Zen tendono a
rivitalizzare.
Basta
guardare le persone muoversi in un supermercato, sono degli zombie,
ovunque sguardi persi nel vuoto, non è
un caso che il regista Romero abbia ambientato la sua storia di zombie proprio
in un supermercato.
Si
tratta dunque di ricostruire degli istinti attraverso la nostra pratica. Il
Maestro Deshimaru affermava che lo Zen è tornare alla condizione originale,
normale, del corpo e della mente. Non dobbiamo pensare di diventare dei
superuomini, si tratta semplicemente di ritrovare la nostra piena umanità che è
anche animalità e che si esprime in una profonda sensibilità, in una naturale
efficacia ed eleganza.
Percepire
la distanza che ci separa da un altro essere umano, mantenerla o ridurla a
seconda delle circostanze, non può essere il risultato di calcoli mentali, la
si deve percepire con la pelle. Allora sì che questa rieducazione comporta una
vera rivoluzione nella propria vita, anche nelle relazioni, tutto ne guadagna.
Perciò
dobbiamo stare attenti a come stiamo approcciando la nostra pratica, a dove
facciamo affondare le radici della nostra pratica, in quale terreno.
Bisogna
essere così onesti da chiedersi “sto cogliendo il segno oppure ho solo
indossato una maschera che nasconde le mie paure?”, perché questi abiti, come
il karategi, lo stesso abito del monaco, facilmente diventano un’effimera e
fragile maschera, se non sono indossati con sincerità, con gratitudine, con
spirito di servizio…..
L’hagakure
afferma che se fate finta di avere coraggio di fronte ad una situazione di
pericolo alla fine diventerete davvero coraggiosi. Perché pur essendo
spaventati rimanete lì di fronte al pericolo, affrontate la paura, e questo è
già vero coraggio.
E’
l’abito che fa il monaco se è indossato con sincerità.
Cosa
vuol dire ‘fare finta di essere coraggiosi’ in fin dei conti? Vuol dire che
rimani lì e non scappi, ecco l’educazione dello Zazen. E pian piano, rimanendo
lì, imparando a non distogliere lo sguardo, imparerai ad osservare e affrontare
le tue paure e comprenderai quel che sei chiamato a fare, ecco il coraggio!
Cos’è
il coraggio in fin dei conti se non fare quel passo avanti verso l’ignoto che
terrorizza?
“Sotto
la spada alta levata
C’è
l’inferno che ti fa tremare
Ma
fai un passo avanti e troverai
La
terra della beatitudine.”
Miyamoto
Musashi
Ecco
l’importanza dell’Abito inteso come postura e comportamento, nel momento in cui
lo indossi, se lo fai con sincerità, sei investito di un potere ed una
responsabilità e costretto ad una determinata modalità d’azione, e quindi
cambi, ti trasformi per forza di cose.
Se
invece lo indossi senza sincerità, senza rispetto e gratitudine, con egoismo,
senza un’adeguata educazione che ne faccia un Dō, una Via, allora diventa una
trappola, una fragile maschera, che non reggerà di fronte allo sguardo
penetrante della vita.