venerdì 22 novembre 2024

Il Pensiero prima del Pensiero

 

Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento offerto da Taigō Sensei durante la Pratica Zen al Tora Kan Dojo.

Tornate al vostro respiro, alla postura, e attraverso questo tornare abbandonate quella mente che tenta di afferrare. “Aprite la mano del pensiero”, esortava Uchiyama Roshi.
Abbandoniamo quella modalità con cui di solito usiamo il pensiero, o meglio, quella modalità che ci porta ad essere usati dal pensiero. Non si tratta di non pensare, si tratta di pensare dal fondo profondo del non pensiero, ‘Hishiryo’.
La mente è come un oceano, se noi ci immergiamo nelle profondità della mente, come quando ci immergiamo nelle profondità dell’oceano, guardando in alto possiamo vedere come in superficie sia un continuo movimento di onde piccole e grandi, vortici, correnti … ma nella profondità tutto si acquieta.
Eppure è la stessa mente.
Quando siamo in superficie siamo coinvolti, a volte travolti dalle onde e dalle tempeste, dalle correnti che agitano la nostra mente, ma se noi attraverso il respiro, la postura, il nostro Zazen, riusciamo ad installarci nelle profondità di questo fondo di non pensiero, possiamo osservare serenamente tutte le tempeste che agitano il nostro pensiero.
Spesso accade che quando sediamo è come se la nostra mente si ribellasse al nostro tentativo di non volerci fermare alla superficie, al voler andare in profondità … allora lo stare solo semplicemente seduti, ‘Shikantaza’, appare noioso, poco attraente, ma questo pensiero sorge nel momento in cui è avvenuta una disconnessione, non siamo più connessi con la nostra postura, con lo Zazen; solo allora possiamo trovarlo poco interessante, noioso. Finché siamo unificati pienamente nell’azione del sedere non ci sarà spazio né tempo per annoiarsi e questo accade in ogni momento della nostra esistenza quotidiana.
Se noi troviamo noioso il lavare una scodella è perché in quel momento siamo disconnessi da quello che stiamo facendo e vivendo, dal lavare la scodella, da quello che percepiamo.
La nostra mente è già fuggita altrove, nel passato o nel futuro e allora subentra la noia, subentrano tanti aspetti che non ci permettono di vivere pienamente quell’esperienza. Eppure quel gesto è sempre nuovo, le sensazioni sono sempre diverse. Lavare una scodella può essere ogni giorno una nuova avventura, un’esplorazione nel percepire i nostri gesti in relazione a quell’oggetto, le sensazioni che ci ritornano.
I gesti che compiamo quotidianamente possono essere sempre più raffinati ed efficaci.
La nostra vita quotidiana diviene il nostro ‘laboratorio spirituale’.
Che differenza c’è tra il far girare una scodella tra le mani nel lavarla ed il compiere un passo di danza? Perché dobbiamo pensare che un gesto sia più nobile di un altro, o che compiere un passo di danza ci rimandi ad una consapevolezza ed una presa di coscienza più profondi o diversi dal tenere in mano una scodella e delicatamente prenderci cura di questa nel lavarla? Non è assolutamente così; diffiderei di un ballerino che non danza mentre lava una ciotola. Avrei seri dubbi sulla sua comprensione di cosa sia davvero la danza.
Quando c’è implicazione, trasporto, presenza, c’è anche bellezza. Senza ombra di dubbio. Quando ricerchiamo la bellezza dobbiamo necessariamente muoverci nella direzione dell’equilibrio, dell’armonia, dell’efficacia.
Ecco perché il ricercare la bellezza e l’armonia nel Dōjō, e quindi nella vita quotidiana, è indissolubilmente legato alla qualità del nostro pensiero e della nostra consapevolezza, della nostra capacità di unificare il corpo e la mente nell’azione. Implica sia un aspetto interiore che un aspetto esteriore che in qualche modo devono fondersi nella nostra azione. Anche quando sediamo in Zazen, c’è un aspetto interiore in cui i contorni si sfumano fino a confondersi … esteriorità ed interiorità si condizionano vicendevolmente.
Ecco perché il mio maestro diceva “l’abito fa il monaco”. Quell’abito, che è innanzi tutto un abito mentale, ti costringe a rivedere tutto il tuo modo di pensare, muoverti, interagire con lo spazio e le cose, ti costringe ad un’altra qualità di presenza. Quindi non è un accessorio che possiamo indossare e dismettere a piacimento.
Sediamo in Zazen prendendoci cura di quella che apparentemente può sembrare un’immagine esteriore: la postura ben diritta, ma il nostro tendere verso quell’immagine ideale, quello sforzo interiore che non si vede dall’esterno, è quello che fa il nostro Zazen.
Ecco perché Dōgen Zenji dopo aver descritto scrupolosamente la postura di Zazen, facendo un lungo elenco che comprende anche le caratteristiche del luogo dove ci sediamo, addirittura la temperatura della stanza, alla fine dice: ma attenti perchè lo Zazen non è solo sedere. Dobbiamo essere in grado di essere in Zazen anche mentre laviamo una scodella.. È molto importante comprendere questo perché lo Zazen non diventi una tecnica che sarebbe una completa deviazione da quello che è lo Zazen del Buddha.
Questo ‘Installarsi’nel pensiero Hishiryo, accedere alla dimensione più profonda della mente permette di osservare in profondità.
Pensate ad esempio quando vi alzate al mattino e magari resistete all’idea di sedervi in Zazen e quando poi invece vi sedete su quel cuscino riuscite a realizzare quanto la vostra mente sia agitata, stia rincorrendo passato e futuro … ma il fatto che voi seduti in Zazen  vedete questo chiaramente è già la realizzazione, è già trasformativo. Quei pensieri che si rincorrono non sono più gli stessi pensieri, la loro qualità si è già trasformata. Quando si dice che Zazen è Hishiryo non significa che il pensiero scompare, ma che cambia il modo in cui noi siamo consapevoli del nostro pensiero, lo osserviamo e non ne siamo più condizionati.
Allora, vi capiterà anche quando state in fila all’ufficio postale, che in un momento torniate alla vostra postura e al respiro, e vedrete la vostra mente riflessa come in uno specchio … e probabilmente un sorriso apparirà sul vostro viso, perché avrete capito che voi non siete quella mente e non può più ingannarvi, intrappolarvi nelle sue illusioni.
Potrete accogliere allora il pensiero, qualunque pensiero, come si accoglie un soffio di vento che attraversa la nostra stanza che magari in quel momento fa volare i nostri fogli, ma noi sappiamo che basterà chinarci a raccoglierli.

Trascrizione a cura di Monica Tainin

















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sabato 16 novembre 2024

La via del Guerriero: Hagakure

Pubblichiamo un brano di Costantino Ceoldo pubblicato dalla Biblioteca dell'Estremo Oriente 

"Ho scoperto che la Via del Guerriero consiste nella morte. Quando arriva il momento di scegliere tra vita morte, è meglio scegliere subito la morte. Non è poi così difficile: basta solo decidere e andare avanti. Chi sostiene che morire senza aver raggiunto il proprio scopo sia morire invano, pratica una via da mercanti".

Questo è il terribile inizio dell’Hagakure di Yamamoto Tsunetomo.



Un libro che in forma di precetti, sentenze, massime ma anche brevissime storie, ha rappresentato per generazioni una sorta di breviario spirituale per tutti i giapponesi che abbracciavano la Via del Guerriero. O che intendevano farlo.

Un libro maledetto, secondo le forze di occupazione americane in Giappone. Un libro tanto odiato e temuto che gli statunitensi si impegnarono con zelo nel tentativo di rimuoverne il ricordo. Ne bruciarono nel fuoco migliaia di copie. Gli americani imputavano all’Hagakure l’acceso nazionalismo che i giapponesi avevano manifestato fino alla sconfitta bruciante della Seconda Guerra Mondiale. All’Hagakure e ai suoi insegnamenti fu fatto risalire il fenomeno dei kamikaze e dei suicidi di massa al posto della resa, anche tra i civili.

I vincitori cercarono così di bruciare ogni copia esistente ma fallirono nel loro scopo ed il libro è sopravvissuto divenendo noto in tutto il mondo, studiato, ancora adesso apprezzato o odiato da chi lo conosce.

Hagakure non è stato scritto dallo stesso Tsunetomo ma dal suo unico allievo Tashiro il quale contraddisse la volontà del maestro e non distrusse la trascrizione delle conversazioni che i due ebbero tra il 1710 e il 1716. Ne scaturì un libro che fu subito considerato un tesoro prezioso dai samurai del clan a cui Tsunetomo apparteneva e secoli dopo divenne uno dei capisaldi della letteratura samuraica.

Negli anni in cui Hagakure fu scritto la classe dei samurai manifestava già i tratti decadenti del tempo di pace perché l’unificazione del Giappone era già stata completata da più di un secolo.

La pace portava con sé, infatti, stabilità e prosperità e quindi il bisogno di funzionari amministrativi competenti più che di legioni di guerrieri sempre pronti alla battaglia. La chiusura delle frontiere, decretata da un governo che temeva (non completamente a torto) le ingerenze politiche e religiose di Spagna e Portogallo, impediva anche l’avvio di campagne militari all’estero così che molti samurai si ritrovarono a vivere la situazione contraddittoria di guerrieri che erano combattenti solo in via potenziale. Molti di loro persero il loro impiego, diventando ronin, dei samurai senza padrone costretti ad una vita raminga e molto dura. Altri ricorsero alla morte per suicidio, unico mezzo per sfuggire al disonore della miseria.

Tsunetomo insegna guardando al futuro perché teme la decadenza che vede serpeggiare nel presente e ricorda con rimpianto i fasti di un periodo scomparso, da lui però mai vissuto. Un periodo in cui gli uomini potevano confrontarsi gli uni con gli altri sul campo di battaglia ed ognuno guardava in faccia la propria verità senza poter mentire.

Lui stesso era un samurai dei tempi moderni: non aveva mai partecipato ad alcuna guerra o battaglia o duello e, al di fuori del suo addestramento, non aveva mai conosciuto le asperità della vera vita militare del tempo di guerra.

Era sempre stato però un fedele vassallo del suo Signore, incarnando gli ideali di fedeltà e dedizione che affondavano le loro radici profonde nella cultura confuciana e buddhista che il Giappone aveva mutuato dalla Cina. Ma Tsunetomo era talmente fuori tempo storico da non poter neanche praticare junshu alla morte del suo feudatario. Non poté, cioè, realizzare il suicidio per fedeltà che si era prefisso fin da giovane e che era sempre stato concesso a quei samurai che avevano fatto voto di non sopravvivere alla morte del loro daimyō: pochi anni prima era stata infatti approvata una legge che proibiva simili atti a causa degli eccessi del passato. Come alternativa gli fu permesso di pronunciare i voti religiosi e diventare monaco buddhista fino alla fine dei suoi giorni terreni. Lui stesso lo riconosce nel libro, affermando di preferire di reincarnarsi sette volte come samurai del suo clan piuttosto che conseguire il nirvana degli illuminati.

Di che parla Hagakure?

Parla di fedeltà. Di dedizione. Di coraggio. Di etica. Di come vivere la propria vita servendo il proprio Signore in modo decoroso. Ma non solo.

Parla di un concetto tipico della cultura giapponese dell’epoca e, in misura molto diversa, contemporanea: quello di giri, il debito morale che si ha con chi è venuto prima di noi e prima di noi ha saputo compiere grandi cose. Giri è un’idea presente anche in altre culture ma non sempre in maniera così marcata come nel Giappone dei samurai. Inutile ricordare come nel mondo contemporaneo occidentale, dominato dal consumismo e dalla brama di denaro, tale concetto suoni superato ed anacronistico alle orecchie di molte persone. Buffo, alle orecchie degli stolti.

Hagakure parla della morte e di come affrontarla quotidianamente, per esempio esortando a guardare quotidianamente a se stessi come se si fosse già morti: l’accettazione di questo fatto, secondo Tsunetomo, porta la capacità di vivere con equilibrio e in modo etico. Questo è un punto interessante perché vi sono ordini religiosi cristiani i cui monaci hanno l’abitudine di salutarsi ricordandosi esplicitamente l’ineluttabilità della morte. Il richiamo alla caducità dell’esistenza umana dovrebbe portare la persona ad agire rettamente e con equilibrio nella sua vita quotidiana.

Hagakure è anche una continua esortazione alla moderazione: dei sensi, dei sentimenti, delle aspettative, delle parole, degli atti, dei gesti. Perché se è facile cadere in una situazione critica a causa di una parola pronunciata con leggerezza o di un gesto fatto anche senza cattive intenzioni, può essere però difficilissimo uscirne. E l’unico modo di togliersi da una situazione critica può essere il seppuku, il suicidio rituale di cui junshu era una delle varianti.

Tsunetomo era intriso di sentimento buddhista e questo traspare nelle esortazioni al rispetto per tutte le creature viventi. Può sembrare un comportamento contraddittorio ma quella dei samurai è una figura complessa e il venir meno di uno stato di guerra continua fra clan feudali aveva favorito l’affermarsi di caratteristiche diverse nella stessa figura di guerriero.

Hagakure è un’opera scritta in un’epoca oramai passata ed alcuni riferimenti culturali sono difficili da comprendere per l’uomo contemporaneo ma nella sua essenza permane un’opera che offre molti spunti di riflessione. Può essere un ottimo strumento per la vita quotidiana sapendo scegliere e adattandolo allo spirito dei nostri tempi.

Vi sono infatti parti di Hagakure che non è possibile trasporre direttamente nella società deforme e deformata nella quale viviamo oggi ma altre invece vi possono essere adattate. Coraggio, lealtà, rispetto, impegno, attenzione continua e precisa per l’attimo che stiamo vivendo: sono tutte caratteristiche che l’uomo contemporaneo può coltivare come le coltivava il samurai dell’antico Giappone.

Si tratta in realtà di qualità senza tempo perché appartengono alla natura umana, sono il fondamento dello stato di diritto e perfino di una società democratica.

La figura del samurai, il guerriero disposto al sacrificio supremo per lealtà al proprio Signore, ha visto una grande e variegata produzione cinematografica.

Tralasciando i film della produzione nipponica, sconfinata nella sua vastità, è interessante segnalare il bel film di Jim Jarmusch Ghost Dog nel quale un eclettico Forest Whitaker interpreta la parte di un samurai contemporaneo, di colore, curiosamente al soldo di un boss mafioso italoamericano.

Quello di Whitaker è un personaggio con tratti negativi e per alcuni versi condannato-votato al finale ineluttabile, ma non per questo privo di una sua morale e di una propria etica. Proprio dalla lettura dell’Hagakure, brani del quale si sentono recitati nel film, si intuisce lo sforzo di autocostruzione della propria personalità che Whitaker-Ghost Dog porta avanti. Quasi che la realizzazione dell’epica samuraica nella sua vita quotidiana fosse per lui l’unica via di fuga dall’ambiente oppressivo e senza futuro del ghetto in cui è nato e cresciuto e in cui vive.

Come nella migliore tradizione samuraica, l’errore involontario nell’adempimento di un incarico, determina una catena di eventi che portano inevitabilmente alla morte del personaggio del film. Il samurai di colore si ribella seguendo, in questo, un altro topòs dell’epica samuraica: la ribellione del guerriero esplode, a causa del modo ingiusto con cui viene trattato proprio da colui a cui si è consacrato, in tutta la sua furia possente quanto inutile. La morte inevitabile suggella la fine della ribellione del samurai Whitaker-Ghost Dog: è la nobiltà della sconfitta, come l’ha chiamata Ivan Morris e tema caro ancora oggi ai giapponesi.

Come ci insegna il vecchio Tsunetomo, alla fine si possono anche prendere decisioni in contrasto con quelle del proprio Signore ma bisogna sempre essere pronti a rispondere per le loro conseguenze.

Voglio ricordare per concludere, l’ultimo junshu di cui si ha notizia: alla morte dell’Imperatore Hitohito, nel 1989, un cittadino giapponese compì seppuku lasciando una breve spiegazione. Quell’uomo scrisse “ero un soldato, molti anni fa avevo giurato di dare la mia vita per l’Imperatore”.



"I have found that the Way of the Samurai consists in death. When it comes time to choose between life and death, it is best to immediately choose death. It is not difficult, you just need to decide and move on. Those who argue that die without having achieved their purpose is to die in vain, practice a Way of merchants".

This is the terrible beginning of Yamamoto Tsunetomo's Hagakure.

A book that in the form of findings, maxims and precepts, accounted for generations a sort of spiritual breviary for all Japanese who had embraced the way of the warrior. Or for whom intended to embrace it.

A cursed book, according to the American occupation forces in Japan. A book so hated that the Americans were engaged with zeal in an attempt to remove his memory, by burning thousands of copies. The Americans imputed to Hagakure the intense nationalism that the Japanese had shown up to the stinging defeat of the Second World War. The phenomenon of kamikaze and mass suicide instead of surrender, even among civilians, was also brought up to the Hagakure and its teachings.

Thus, the winners tried to burn every existing copy but failed to do so and now the book is well-known all over the world, studied, yet loved or hated by the readers.

Hagakure was not written by Tsunetomo himself but by his only student Tashiro which contradicted the will of his master and did not burn the first transcript of their conversation, which took place from 1710 to 1716. The result was a book that was once considered a precious treasure by the samurai of the clan to which Tsunetomo belonged and centuries later became one of the cornerstones of samurai literature.

During the years when Hagakure was written, the unification of Japan had already been done for more than a century and the samurai class already manifested the decadent traits of the peacetime.

Peace brought with it, in fact, stability and prosperity and therefore the need for competent administrative officials rather than legions of warriors always ready for battle. The closure of borders imposed by a government who feared the political and religious interference of Spain and Portugal, also prevented the launch of military campaigns abroad so that many samurai found themselves more and more to live the contradictory situation of warriors who were fighters only in potential. Many of them even found themselves out of work, becoming ronin, masterless samurai forced into a wanderer and very hard life, or to the death by suicide, the only way to escape the disgrace of poverty.

Tsunetomo teaches looking to the future because he fears the decadence that he sees meander in the present and remembers with regret the splendor of a period gone he never lived. A time when men were confronted with each other on the battlefield and faced their truth, without being able to lie.

He himself was a samurai of modern times: he had never participated in any war or battle or duel and, outside of his training, he had never experienced the harshness of real military life during wartime.

He had always been, however, a faithful vassal of his Lord, embodying the ideals of loyalty and dedication that had their roots deep in Confucian and Buddhist culture that Japan had borrowed from China. But Tsunetomo was so out of historical time that he could not even practice Junshu at the death of his feudal Lord. He could not, that is, carry out the suicide for loyalty he had promised many years before and that always had been granted to those samurai who had vowed not survive the death of their daimyo: few years before, in fact, it was passed a law prohibiting such acts. As an alternative, he was allowed to pronounce his vows and become Buddhist monk until the end of his days on earth.

What about talk Hagakure?

Talks about loyalty. Dedication. Courage. Ethics. But not only.

It talks about a typical concept of Japanese culture of that time and, to varying degrees, contemporary: the "giri", the moral debt that you have with those who came before us and before us has been able to accomplish great things. Giri is an idea also present in other cultures but not always in a manner so marked as in the Japan of samurai. Needless to say as in the contemporary western world, dominated by consumerism and the lust for money, this concept sounds outdated and anachronistic to the ears of many people.

Hagakure speaks of death and how to deal with it daily, for example calling to look daily at yourself as if you were already dead: the acceptance of this fact, according to Tsunetomo, brings the ability to live a balanced and ethical life. This is an interesting point because there are Christian religious orders whose monks have a habit of greeting explicitly remembering the inevitability of death. The reminder of the transience of human existence should lead the person to act righteously and with balance in everyday life.

Hagakure is also a continuous exhortation to moderation of the senses, feelings, expectations, words, acts and gestures. Because if it is easy to fall into a critical situation due to a word spoken lightly or a gesture made even without bad intentions, however, may be difficult to get out. And the only way to get out from a critical situation can only be by seppuku, the ritual suicide of which Junshu was one of the variants.

Tsunetomo was steeped in Buddhist sentiment and this shines through in the exhortations to respect for all living creatures. It may seem a contradictory behavior but that of the samurai was a complex figure and the absence of a state of war continues between feudal clan had favored the emergence of different features in the same figure of a warrior.

Hagakure is a work written in an era now passed, and some cultural references are difficult to understand for the contemporary men but in its essence it remains a work that offers much food for thought. Knowing choosing and adapting to the spirit of the times, it can be a great tool for everyday life.

There are, i.e., parts of Hagakure that cannot be transposed directly into the crooked and deformed society in which we live today but, instead, other parts can be adapted. Courage, loyalty, respect, commitment, attention continuous and precise: these are all features that modern men can cultivate like the samurai of ancient Japan.

In fact, these qualities are timeless because they belong to human nature and are the foundation of the rule of law and, even, of a democratic society.

The figure of the samurai as a warrior willing to make the supreme sacrifice for loyalty to his Lord, saw a large and diverse film production.

Apart from the Japanese film production, boundless in its vastness, it is interesting to note the beautiful Jim Jarmusch's Ghost Dog in which an eclectic Forest Whitaker plays the part of a samurai contemporary, colored, in the pay of an Italian-American mafia boss.

A character with negative traits, and in some ways doomed to failure, that of Whitaker, but not without its own moral and ethical. Just from the reading of Hagakure, excerpts of which appear recited in the film, you can understand the effort of self-construction of his own personality that Whitaker-Ghost Dog carries forward. Almost that the realization of the samurai epic in his daily life was, for him, the only escape from an environment oppressive and without future, like that of the slum where he lives.

As in the best tradition, a mistake (in this case unintentionally) in the line of duty, determines a chain of events that lead inevitably to the death of the character of the film. A sacrificial death that seals the rebellion of the samurai Whitaker-Ghost Dog: as we learn from the old Tsunetomo, at the end you can also take decisions running counter to those of your Lord but you must always be prepared to answer for the consequences.

We want to remember, finally, the last known junshu: after the death of the Emperor Hitohito, in 1989, a Japanese citizen performed seppuku, leaving a brief explanation. That man wrote, "I was a soldier, many years ago I swore to give my life for the Emperor".


© Tora Kan Dōjō
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venerdì 27 settembre 2024

Il segreto dello Zen

"Nel mondo in cui viviamo, tale insegnamento è difficile da seguire: solo coloro che hanno ereditato un buon Karma ne sono gli eredi, ne possono misurare la portata e l'importanza. Forse penserete che questa Regola sia troppo rigida, tuttavia in essa risiede l'aspetto più profondo e più alto del Buddhismo Mahayana. E' il vero Zen, così come lo ha trasmesso il Buddha. E' il segreto dello Zen, poiché è solamente nella pratica vissuta, quotidiana, che si realizza veramente il Dharma, il vero Spirito dei Maestri. Se vi accontentate di una trasmissione intellettuale, superficiale, il vostro studio sarà ben poco efficace. Ma se comprenderete attraverso la pratica regolare e fedele delle mille azioni della vita di ogni giorno, comprenderete esattamente attraverso tutto il corpo e tutto lo spirito, e potrete progredire."


Dal commento del Maestro Taisen Deshimaru al Tai Taiko Gogejari Hō

(capitolo dell’ Eihei Shingi) di Dōgen Zenji


© Tora Kan Dōjō











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domenica 8 settembre 2024

Il valore del Tempo

 


Il tempo ci viene tolto o sottratto, quasi a nostra insaputa, oppure ci sfugge non si sa come. 

E la cosa più indecorosa è perderlo per trascurata leggerezza. 

Prova a pensarci: gran parte della vita ci scappa via mentre agiamo in modo sbagliato, la maggior parte mentre stiamo senza far niente, e l'intera esistenza trascorre in occupazioni inutili e che non ci riguardano veramente. 

Trovami, se sei capace, uno che dia al tempo il giusto valore, che capisca quanto può essere importante una giornata, che si renda conto che noi moriamo un po' ogni giorno! 

Perché questo è il punto: noi pensiamo alla morte come a qualcosa che sta davanti a noi, mentre in gran parte è già alle nostre spalle: tutta l'esistenza trascorsa è già in suo potere. 

Voi vivete come se doveste vivere sempre, non pensate mai alla vostra fragilità, non volete considerare quanto del vostro tempo è già trascorso; buttate via il tempo come se lo attingeste da una fonte inesauribile. 

Preso nel vortice degli affari e degli impegni ciascuno consuma la propria vita, sempre in ansia per quello che accadrà, e annoiato di ciò che ha. 

Chi invece dedica ogni attimo del suo tempo alla propria crescita, chi dispone ogni giornata come se fosse la vita intera, non aspetta con speranza il domani né lo teme. 

Nessuno ti restituirà i tuoi anni, nessuno ti restituirà un'altra volta a te stesso; il tempo andrà per la via su cui si è incamminato, e non tornerà indietro, nè arresterà il suo percorso; non farà rumore, non ti avviserà della sua velocità: scivolerà via silenzioso. 

Cerchiamo dunque che ogni momento ci appartenga: ma non sarà possibile, se, prima, non cominceremo noi ad appartenere a noi stessi.

Seneca

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giovedì 15 agosto 2024

Narita Shuyu Rōshi ricorda il Maestro Kodō Sawaki

Narita Shuyu Rōshi (1914-2004), Abate Fondatore di Fudenji, ricorda il Maestro Kodō Sawaki
Brano tratto dal libro pubblicato il 1° luglio 1967 nella collana “Daihorin”, serie completa dei libri sul Maestro Kōdō Sawaki, Allegato I, testimonianza dei suoi discepoli.

IL RIMPROVERO: Il mio primo incontro con il Maestro risale al mese di aprile del 1935, quando arrivai all’università di Komazawa, dove, in effetti, arrivammo contemporaneamente. A quell’epoca, in quell’università costruita dalla setta Sōto, non vi erano insegnanti in grado di dirigere l’autentico Zazen trasmesso. Questa situazione, in un’università superiore per l’insegnamento del Maestro Dōgen, non soddisfaceva affatto gli studenti del primo anno. Questi insistettero energicamente presso il rettore, il sig. Omori, affinché invitasse ad ogni costo a Komazawa il Maestro Sawaki, che a quel tempo insegnava lo Zazen con fede e coraggio nella provincia di Kumamoto di Kyushu.

Il fatto che un semplice monaco Zen senza notorietà né posizione fosse invitato come professore nella maggiore Università costruita dalla setta Sōto, era per quel tempo qualcosa di inedito e di eccezionale.

Date le premesse, l’incontrarlo fu per me una gioia immensa.

Il Maestro alloggiava nel dormitorio degli studenti ed instancabilmente faceva la spola fra l’Università e i Templi, come Sōjiji, il lunedì, il martedì ed il mercoledì.

Io allora non ero che un semplice studente impegnato nella ricerca spirituale ed intellettuale; soffrivo ideologicamente soprattutto per i problemi riguardanti la vita ed ero alla ricerca di qualcosa di non ben definito.

Osservando per la prima volta le caratteristiche del Maestro, provai un sentimento d’intimità profonda e fui naturalmente attratto dalla sua personalità che ispirava fiducia e suscitava energia e forza, attraendo ciascuno.

Le attività della scuola cominciavano alle cinque del mattino. Il Maestro si sedeva da solo verso le 4, senza mai sapere chi avrebbe partecipato allo Zazen. Io ero uno di coloro che vi prendevano parte ma, anche se andavo allo Zazen molto presto, il Maestro era già seduto: questo acuiva inevitabilmente il mio spirito di competizione. Un giorno decisi di alzarmi verso le tre: non c’era nessuno, “bene, ecco fatto!”.

Mi sedetti, quindi, su uno Zafu posato sullo Zaniku (cuscino imbottito di forma quadrata) di fronte alla statua di Buddha, senza ben sapere che cosa fosse lo Zazen o il comportamento da assumere nel Dojo.

Trascorsi 15 o 16 minuti, una voce proveniente dal cielo mi inchiodò e mi raggelò di spavento: “Che cosa stai facendo imbecille, nessuno si è mai seduto in Zazen in quel posto lì!”.

Più tardi mi invitò nella sua camera, mi offrì del the e dei dolci e mi spiegò con infinita pazienza la posizione e le regole da osservare nel Dojo.

Ancora oggi sudo freddo al solo pensarci. In seguito lo Zazen mi convinse completamente e divenni suo discepolo, il che mutò l’indirizzo dei miei studi.

Di tanto in tanto, ricordandosi della mia disavventura, il Maestro diceva sorridendo ironicamente: “Quel ragazzo lì, che non sapeva niente, si è seduto sullo Zaniku di fronte a Buddha; è stato sgridato, ma io gliel’ho fatta una volta per tutte dandogli il mio Kolomo”. Ogni volta arrossivo della mia sprovvedutezza giovanile.

DIVENTARE DISCEPOLO DEL MAESTRO:  Rapidamente i miei rapporti con il Maestro divennero sempre più profondi ed io mi affezionai molto a lui, il che fece desistere mio padre dal trasmettermi il suo Dharma, permettendomi così di diventare discepolo del Maestro e di ricevere il suo Shihō.

A quel tempo il Giappone era coinvolto in una violenta guerra in Manciuria e in Cina. Dopo la laurea mi ero recato a vivere presso il Maestro nel tempio Sōjiji della setta Sōto, ma trascorso un anno, fui richiamato sotto le armi: egli allora mi invitò a un colloquio personale nella sua camera e mi diede il suo “SAN IE” (tre piccoli Kesa, cuciti dalla monaca Sumi) come portafortuna, invece del tradizionale “Senibali” (pezzo di stoffa consegnato al giovane che parte per la guerra, cucito da mille persone).  Prendendomi le mani, mi incoraggiò: “Abbi cura di questi SAN IE: essi ti proteggeranno sempre”.

Dovetti inoltre partecipare attivamente alla guerra fra il Giappone e la Russia, ma li portai sempre con me, in tasca durante i combattimenti in Cina, e penso che mi abbiano veramente protetto. Oggi li conservo nella mia camera, strappati e forati dai colpi di fucile.

Il Maestro spiegava sempre il “Kesa Kudoku”.

Dopo che fui tornato dalla guerra, ebbi ogni anno la meravigliosa opportunità di ricevere le sue spiegazioni ed i suoi commenti dello “SHŌBŌGENZŌ” per cinque o sei giorni a partire dal 22 luglio, instancabilmente ogni estate.


© Tora Kan Dōjō

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domenica 14 luglio 2024

Uno spillo nell'oceano

Insegnamento offerto da Taigō Spongia Sensei presso il Tora Kan Dōjō durante la Pratica Zen e pubblicato nel libro : 'La Forma del Vuoto: Riflessioni su Zen e Arti Marziali' di Paolo Taigô Spongia ed. Mediterranee disponibile per l'acquisto in tutte le librerie e online:






Kōshō Uchiyama Roshi, già discepolo di Sawaki Roshi, abate di Antai-ji, definiva la Pratica dello Zazen con una frase giapponese che aveva coniato: 'Omoi no o tebanashi'. 
‘Omoi’: pensiero, 'te': mano, 'no o tebanashi': aprire la mano, lasciare la presa. 
Può essere tradotto con 'Aprire la mano del pensiero'. È una definizione a mio parere, molto azzeccata. 
Cosa significa 'Aprire la mano del pensiero'? 
Intanto, il carattere ‘Omoeru’ '思' che significa 'pensare' o 'pensiero', ha al suo interno dei radicali che rappresentano un campo dalle cui profondità si sviluppano delle erbe di vario tipo; può essere l'immagine di un campo di riso nel quale nascono e crescono vari tipi di erbe oltre al riso... ed è quello che accade nel terreno della nostra mente. 
E perché aprire 'la mano del pensiero'? 
Se vi osservate in Zazen, se osservate la vostra mente, se osservate i vostri pensieri, vi accorgerete che la mente ripercorre sempre gli stessi percorsi, quasi mai si produce un pensiero originale. 
Il pensiero sorge, ordinariamente, sulla base dei condizionamenti, delle esperienze vissute, delle memorie, e quasi mai è un pensiero fresco, intuitivo, sorprendente. 
In qualche modo, anche se non ce ne accorgiamo, esercitiamo un controllo sul pensiero, e questo controllo, questo filtro in realtà non fa altro che produrre altro pensiero condizionato.
Allora 'aprire la mano del pensiero' significa: concentrati sulla postura e sul respiro, abbandonare questa presa, lasciar cadere questo filtro. 
In un passaggio dello Zuimonki, Dōgen Zenji rispondendo alla domanda di un allievo riguardo alla Pratica, risponde: 
"La Pratica del Buddhadharma è solo sedere, esclusivamente sedere. Non cercate altro al di fuori di questo"... molto radicale in questa sua risposta. 
Perché la Pratica del Buddhadharma è conoscere se stessi, e conoscere se stessi è nell’essere ‘solo seduti’ (Shikantaza). 
Siamo attratti irresistibilmente dalle pratiche che ci offrono consolazione e distrazione, che ci offrono tanti giocattoli con cui distrarci... guardatevi intorno, oggi è pieno di queste offerte.
Oggi più che mai le persone cercano distrazione, ma la Pratica non è mai distrazione.
Pratica è immergersi completamente nel 'problema del nascere e morire' in maniera impellente, radicale. 
Sedere in Zazen non è facile, essere di fronte a questo muro per tanti anni, giorno dopo giorno, eppure... eppure è tutto lì. 
Tornare alla nuda essenza della nostra mente, attraverso la postura ed il respiro come punti d'osservazione, senza giocattoli (altra definizione che amava Uchiyama Roshi: ‘Zazen senza giocattoli’) senza distrazioni. 
È per questo che è una pratica molto matura e asciutta, per tutti e per nessuno. 
Bisogna essere davvero determinati ad andare al nocciolo della questione fondamentale della nostra vita senza distrazioni e senza girarci intorno. 
Deshimaru Roshi diceva "È prendere la via diretta per la cima della montagna, senza disperdersi passeggiandoci intorno". 
Quindi se vi sentite chiamati dallo Zazen non perdete questa opportunità.
Se vi sentite chiamati nonostante tutte le resistenze e le difficoltà che possiate incontrare, che sono fisiologiche e assolutamente normali, vuol dire che il vostro Karma vi ha predisposto a questo Incontro. Non perdete questa opportunità, non torna più... 
Dōgen Zenji fa degli esempi molto esplicativi della rarità di questo incontro: "Incontrare il Buddhadharma è così raro come trovare uno spillo in un oceano." E quindi esorta: "Non perdete questa occasione".


(registrazione e sbobinatura a cura di Monica De Marchi)

© Tora Kan Dōjō

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giovedì 27 giugno 2024

L'estetica del fare

 

Si dice che Socrate avesse voluto più di una coppa di veleno per sacrificarne una parte al cielo, ma ci sono gesti che né la terra né il cielo possono contenere, che non si arrendono alla natura né agli uomini, ci sono favole che nessuna biografia può contenere né imprigionare, “Roba vecchia di una volta”, qualcuno potrebbe pensare. 

Difficile da dire, ma senz’altro roba di un altro mondo, molto più vicino, però, a questo nostro mondo, dove può sempre accadere di sentirsi uniti, compagni, fratelli, sorelle, padri, madri, maestri, allievi. 

Le onde non sono mai abbastanza alte né paurose per chi le sa guardare in faccia. E solo una tavola consente di cavalcarle, la tavola della via maestra, quella che ci fa sentire sullo stesso cammino e potrebbe far dire a qualcuno “Ricordo anche voi quando eravate ragazzi. Sembra un sogno….”. 

A Cesare Barioli, che ho incontrato nella sua casa natale di Milano, ho chiesto di scrivere del mito e della sua poesia…

Fausto Taiten Guareschi

Caro Fausto, chiedendo di parlare della Via mi fai ringiovanire. E mi chiedo se la memoria non mi inganna e quello che racconto non sia fantasia… C’era stata la Guerra. Crescevo tra le infamie del dopoguerra e l’entusiasmo della ricostruzione. Io scoprivo il mondo, ma tutta l’Italia scopriva una diversa maniera di vivere. Venivo da un gruppo scout che aveva patito quattro morti in sei mesi: a imitazione di Cristo, Akela insegnava la sofferenza per salvare l’anima e io mi ribellavo, sognando di introdurre il judo francese nello scoutismo. Ma capitai tra i terzo-internazionalisti dell’Associazione Proletaria di Educazione Fisica e conobbi degli uomini di fede, come Attilio Maffi, medico che curava gratuitamente i braccianti nell’Oltre-Po, e il vigile del fuoco (Maestro di Jūdō) Emilio Roveda che era stato torturato dai nazisti a Villa Triste e poi si autoaccusò del furto commesso da un altro pompiere perché il colpevole aveva famiglia, mentre lui era scapolo. Accettò il disonore di degradazione ed espulsione per non condannare alla fame della disoccupazione una famiglia…

Insomma, quando mi venne spiegato che era importante vincere ad ogni costo (avevano un poco il mito della classe operaia), mi ribellai e cominciai a fare di testa mia. La crisi mi colse al primo Campionato regionale. Ero in finale all’italiana con Bozzini della Pirelli e Angelo, mio compagno di Società, e proiettai facilmente il primo, ma Angelo ci perse. Allora ricevetti ordine di perdere con Angelo perché, con una vittoria e una sconfitta ciascuno, la classifica si sarebbe risolta al peso col risultato di Angelo primo, io secondo e l’atleta della Pirelli terzo. Lo feci. Ma la morale proletaria della vittoria di squadra non faceva per me. E neppure la sconfitta. Mi trovai ad andare in gara, rifiutando questi obiettivi: nel combattimento di judo ritenevo perseguibile la bellezza del gesto e null’altro. Mi consideravano strano, ma raggiunsi la fama di tecnico. E quando andai in Nazionale, i romani mi accusarono ‘di non combattere per l’Italia’. Ed era vero. Io vincevo le selezioni e loro mettevano in squadra il secondo classificato. Inutilmente li sfottevo dicendo che papà aveva vinto un’importante competizione a squadre chiamata Prima Guerra Mondiale, mentre io andavo ai Campionati Europei a fare judo: loro erano combattenti-agonisti e ritenevano di portare gloria al Paese.

Nel ’55 lessi su Illustred Kodokan Judo: “Il primo piede sulla Via è posto quando sono superati i concetti di vittoria e sconfitta”. Poi Kano allude al judo come gyo, esercizio ascetico dei monaci (sanscrito ‘sanskara’). Diedi fiducia a queste parole. Supposi che potessero ispirare la vita e, quando smisi l’attività agonistica, il mio avversario era il mondo, ma in palio non c’era vincere ad ogni costo, ma la bellezza dell’azione e l’estetica del fare.

C’era il gesto semplice di portare il cucchiaio alla bocca e quello complesso di donare ogni avere a qualcuno che ne avesse bisogno. Così ero pronto alla possibilità di morire se fosse capitata l’occasione. Ma non avvenne. Forse ebbi paura di andare in Vietnam, ma da una parte o dall’altra della guerra l’occasione di donare la vita l’avrei trovata. Non lo feci, con la scusa di studiare quanto Kano Jigoro aveva nascosto nei kata… Avevo la proibizione di parlare della Via.

Perché l’allievo valorizza le sue qualità arrivandoci da solo. Solo due volte mi trovai scoperto: una volta a pranzo dall’ingegner Rosemberg, maestro dell’arco da guerra. Lui comprese perfettamente il mio stato di essere quando presi una posata per mangiare e io sono arrossito per il riconoscimento che mi ha dato, segnalandolo alla moglie. Ma l’ingegnere era uomo della Via. La seconda volta è stata quando Marcello Bernardi ha scritto: “Apro una seconda e minuscola parentesi. Trovo che Cesare sia ammirevole non solo per le sue qualità morali, ma anche (forse meno nobilmente) per le sue doti estetiche, che si esprimono nell’armonia. Quando pratica il judo sembra che voli e anche quando non fa judo mantiene l’eleganza in ogni suo gesto. E anche questo mi sembra un nuovo e importante contributo educativo ad un mondo che di estetico ormai ha ben poco” (Corpo mente cuore, 1998). Marcello faceva judo, ma non gli avevo parlato dell’estetica. Lui ci è arrivato da solo, favorito anche da una profonda cultura classica.

Com’è che avevo la proibizione di parlare della Via? Non potevo spiegare ai miei agonisti che la strada immediata per arrivare a Il Miglior Impiego dell’Energia e quindi proseguire per Amicizia e Mutua Prosperità, consiste nel provare la bellezza del gesto e perseguirla fino a disporne nella quotidianità? Beh, agli agonisti era presto: loro credevano solo alla vittoria in gara e valutavano un uomo dalle orecchie a carciofo.

Non potevo dire che l’estetica introduce al Miglior Impiego dell’Energia, e che poi Amicizia e Mutua Prosperità sgorga dall’estetica conquistata?

No. Certe cose si tacciono. L’allievo sincero le assimila dall’insegnamento silenzioso. E non subito. Deve superare shobu-judo: il judo da combattimento; risolvere rentai-judo: essere sani per essere utili. Solo dopo si affronta sushin-judo: la morale del nuovo periodo dell’Umanità.

E quando l’allievo è arrivato a quel punto si tace, perché non vi è nulla da dire. Ch’io sappia in otto ci arrivarono ed hanno una mia lettera che inizia: “Ho tutto dato a…”. Solo se le circostanze mi avessero convinto che il messaggio autentico di Kano fosse in pericolo, avrei potuto parlarne apertamente, e questo avvenne venticinque anni fa quando ho cominciato a rivelare i kata.

Cesare Barioli e Taiten Guareschi

Ho fatto fatica ad andare contro-corrente, tutti i miei vecchi compagni mi hanno disprezzato, ma il più è passato e ormai ci sono giovani che masticano le Forme di Kano Jigoro.

E allora, da qualche anno, ho cominciato a raccontare l’altra-estetica, qualcosa che è da fare, non da apprezzare perché l’ha fatta un altro. Parlo di un’estetica che non ha conferma in Kant, Croce o Adorno. E mentre i judoisti italiani mi guardano sempre strano e gli insegnanti di scuola cercano di strapparmi un giudizio sulla Gelmini (vorrebbero che io dicessi che non segue la Via..), trovo qualche spazio, qualche critica e qualche antagonista all’estero e concentro le poche forze in Congressi e Tavole Rotonde, come quella che radunerà a Pasqua in Romagna persone di tre continenti a discutere che ‘il futuro è un drammatico confronto tra l’educazione (la Via) e il caos. Caro Fausto, ho cercato di riassumere qualcosa che richiede mezzi, tempo e spazio superiori a un articolo. Probabilmente confondo il lettore. Ma l’essere umano ha diritto all’azione, non al risultato. Magari qualcuno un giorno troverà riscontro nelle mie parole.

Cesare Barioli 

Tratto da Notiziario Zen - Fudenji

© Tora Kan Dōjō

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