Adesso tutti indignati per la rissa tra genitori
durante la partita di calcio dei bambini…
Ma queste cose accadono regolarmente
da decenni nello sport competitivo.
Ricordo che già quando partecipavo alle mie prime gare
di karate, avevo più o meno 14 anni e non c'era molta scelta allora nel panorama del karate italiano, più volte ho visto accapigliarsi sugli
spalti fratelli e genitori dei ragazzi che combattevano.
Per non parlare
dell'imbarbarimento che è seguito di lì a poco nel mondo del karate sportivo,in cui gli stessi
'insegnanti' fanno carte false per far vincere i propri allievi arrivando ad
accapigliarsi con gli arbitri che non è stato possibile 'comprare' perché
spesso già venduti ad altri… O gli atleti che mancano di ogni
minimo rispetto per l'avversario, per l'arbitro, e delle loro scene di patetica
eccitazione in caso di vittoria o di sconfitta chiaro segno di instabilità
psicologica e di una eccitazione psicologicamente vicina alla patologia o alla
tossicodipendenza.
Non c'è bisogno che si arrivi alla rissa per capire quanto lo sport
competitivo, specie se gestito da gente immatura o interessata, porti a deformazioni e imbarbarimento. Basta guardare i genitori sugli
spalti armati di cronometro a valutare il tempo delle prestazioni dei propri
bambini impegnati in un allenamento in piscina oppure i parenti accalorati
nelle gare di a ginnastica artistica e potrei andare avanti all'infinito… pura
violenza innanzitutto nei confronti dei propri stessi figli.
In Giappone una proposta educativa in termini competitivi è stata quella dello Shiai. Ovvero il confronto con l'altro per mettere alla prova i propri limiti
'grazie all'altro' e non, in definitiva, contro l'altro. Ci si può confrontare
duramente, senza sconti, come spesso accade nel Dōjō, senza per questo essere
contro l'altro, senza per questo che l'obiettivo diventi battere l'altro con
ogni mezzo quanto invece confrontarsi con sé stessi, superare i propri limiti,
le proprie paure, perfezionare le proprie capacità, testare la propria tecnica
e strategia.
Questo era il senso dell'Ippon nello Shiai, cercare l'efficacia
totale del gesto, l'indiscutibile eccellenza, non certo l'accumulo, con ogni
mezzo e trucco, di piccoli puntarelli per arrivare al risultato finale.
Ma questo approccio richiede una maturità da parte di praticanti, insegnanti e
giudici difficilissima da trovare e mettere insieme.
Se non si riesce a organizzare in modo maturo e consapevole meglio rinunciare alla competizione, avrebbe solo effetti deleteri.
Insomma, per concludere, quel che succede sugli spalti di una partita di calcio
tra bambini non è altro che lo specchio della nostra civiltà,
dell'imbarbarimento della nostra cultura ed educazione. Cause e soluzioni vanno ricercate e trovate nell'educazione scolastica (riguardo
l'educazione nelle famiglie, nelle attuali famiglie, ho poca fiducia), che deve
innanzitutto puntare a formare degli esseri umani dotati di senso civico e di
capacità di collaborazione e non solo di capacità competitiva. E nei luoghi
come i veri Dōjō, dove si fa un'autentica educazione, unica nel suo genere. Ed
è per questo che i responsabili delle scuole serie di arti marziali
devono essere estremamente selettivi nella formazione degli insegnanti. Perché
si tratta di un compito molto delicato che richiede maturità e grande capacità,
perché non si tratta, per l'appunto, di formare un allenatore che faccia
vincere ragazzi alle gare magari con trucchi e giochi di potere, ma di formare
degli educatori.
Taigō Sensei