di Tiziana Verde
Pubblichiamo questo articolo che la scrittrice Tiziana Verde ci ha inviato per il nostro Blog.
Tiziana è una grande amica del Tora Kan Dojo e di sensei Paolo.
Siamo onorati e felici di pubblicare il suo contributo sul nostro Blog.
Tiziana Verde, insegnante, ha già pubblicato L’uccello di fuoco, vincitore di un concorso letterario nella “Raccolta Nuovi Narratori Campani” (Guida, 1997), L’ordine del vento (Filema, 2005), Il testamento di Marlon Brando (Incontri editrice 2007), vincitore del Premio Letterario Città di Sassuolo, Il Fazzoletto Rosso (Napoli 1799).
“La bella e la bestia” comincia d’inverno, quando la neve è già alta
A suo padre che infila il piede nella staffa per partire a cavallo per un viaggio d’affari, la figlia minore chiede, al posto del gioiello o dell’abito che lui vorrebbe portarle in dono come farà con le altre sorelle, “una rosa, soltanto una rosa”.
Sembrerebbe il regalo più innocuo ed è invece il più arduo.
Per questa richiesta temeraria e gentile di un fiore che immagino rosso sul bianco intatto della neve e che naturalmente fiorisce soltanto nel giardino della Bestia, ho pensato di ripercorrere il simbolo della rosa così come si rivela nei versi di alcuni nostri poeti.
"Symbolon" significa congiungere, accostare… per i greci i due bordi dell’oggetto (sigillo, dado, anello) spezzato alla partenza e il cui perfetto ricomporsi avrebbe testimoniato dell’amante, amico o pellegrino che ne possedeva l’altra metà.
Quest’immagine ci insegna subito un tratto della natura profonda del simbolo, noi ne afferriamo la parte visibile sapendo che l’altra (l’assente, l’imponderabile) aspetta che il caso, lo sforzo o un istante di grazia ce l’accosti dal lontano di cui fa parte.
Il simbolo è anche un intero che all’inizio è stato infranto e reca per sempre, tra perdite e precari ritrovamenti, il solco e il dolore di questa ‘spezzatura’.
Uso qui l’immagine della rosa perché essa è stata per l’occidente, quello che per gli orientali è il loto, scrigno di rimandi, concetti, evocazioni… il loto vittorioso del fango in cui le sue radici pure affondano, la rosa schiusa con grazia e spacconeria, alla fine d’uno stelo di spine.
Il puro nome l‘ha cantato Gertrud Stein.
La rosa è laccio della sillaba, anello che si ripete per essere sempre oltre.
La memoria vi gira intorno, lo sa inafferrabile ma il suono ne riverbera tratti eterni…
«Quando dissi: Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa. E poi più tardi questo lo foggiai in un cerchio lo feci poesia, cosa avevo fatto? Avevo accarezzato, completamente accarezzato e chiamato un sostantivo» scrive la Stein.
Le parole si rivelano in questo mantra per quello che sono a noi umani: esilio e dimora, giacché chi parte o vive lontano da dov’è nato, impara a sue spese come si riposi soltanto nella propria lingua.
Dunque semplicemente accarezzando il nome, la Stein riesce a suggerire quale avvento, complicazione, mistero sia una rosa. Noi siamo allora catturati da versi che sospendono il significato e navighiamo dentro quella sorpresa o ‘mare aperto’ d’una lingua non ancora usurata, come quelle giaculatorie che recitavamo da bambini, persi a ripetere una rima, in quello stato liquido dove la mente genera figure, dove ogni figura ha molti scorci e ogni scorcio si biforca in molte direzioni…
“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” è appunto il nome della rosa, nome prima dei nomi e dopo i nomi, nudo suono, balbettìo di quando ancora non sapevamo parlare…
Il nome della rosa è anche l’enigma della rosa, l’indovinello in cui petalo dopo petalo ci si addentra, talvolta bianco come un’opera filosofale, altre rosso come un cuore.
A decifrarne il rebus vengono in soccorso antichi miti.
Quello di Osiride, ucciso dal fratello Seth che lo fa a pezzi e ne disperde le membra nei punti più remoti della terra. E’ Iside che parte in un’impossibile ricerca per ricomporne il corpo e dargli sepoltura.
Il fiore di questa sua folle ostinazione è una rosa.
Certi gesti, la loro bellezza è incancellabile e le culture se li tramandano.
Il ‘rosa-rio’, la collana dei nomi inanellati a ornare la Vergine, include un ‘Rosa Mistica’ , forse eredità di quel viaggio della dea, forse desiderio d’essere cercati oltre ogni evidenza che sia inutile, forse speranza che qualcuno non accetti si perda, quanto è già così inconfutabilmente perduto.
”In forma dunque di candida Rosa mi si mostrava la Milizia Santa, che nel suo sangue, Cristo fece sposa" dirà Dante della comunità dei beati, incastonati come petali, intorno al volto di Dio.
E come una rosa ci attende in cima al Carmelo o paradiso raggiunto, sempre una rosa è senso e traccia della cacciata da esso, di un viaggio contrario di cui ci si porta dietro l’irredimibile rimpianto.
E’ una poesia di Borges a rendere evidente questa contraddizione:
“Prima di entrare nel deserto
i soldati bevvero a lungo l'acqua della cisterna.
Ierocle gettò per terra
l'acqua della sua brocca e disse:
Se dobbiamo entrare nel deserto,
io sono già nel deserto.
Se la sete deve bruciarmi,
che già mi bruci.
Questa è una parabola,
Prima di sprofondarmi nell'inferno
i littori del dio mi permisero di guardare una rosa.
Quella rosa ora è il mio tormento
lì nell'oscuro regno”.
Dell’immagine di molti roseti sarà costellato l’inferno, ricordiamo infatti che le uniche rose disponibili, al padre che voleva accontentare sua figlia, fiorivano proprio nel giardino della bestia, il più mostruoso tra gli esseri (la rosa stessa ha in sé questo ossimoro, croce e delizia della corolla e delle spine).
Rilke, ne riassume molti aspetti durante l’esilio in Francia nelle sue poesie sulla Rosa. Essa per la forma stellata, è la mente desta, mentre dorme ciò che le sta intorno. E’ il Libro-mago, chiave suprema d’un ignoto alfabeto. Si apre al vento, che può essere letto solo ad occhi chiusi e da cui escono confuse le farfalle delle idee. E’ quanto è già compiuto e si contiene all’infinito, (Così ricca eri, da potere te stessa diventare cento volte dentro un fiore solo);è una ed è la forma di tutte le rose (Una sola rosa è tutte le rose e insieme quella sola: l’irreplicabile, la perfetta, la tenerezza che si può dire a parole, incastonata nel testo delle cose).
E’ la consolatrice, quando tutto si rifiuta al cuore reso amaro (Se ti appoggi, rosa fresca e chiara,contro il mio occhio chiuso, come avessi mille palpebre).
E’ il segreto che non s’arriva mai a svelare, ma anche quanto sovrabbonda, l’adempimento (Io ti trattengo e tu ti riveli, Essere rosa, dirà qualcuno, non è proprio compiere un lavoro. Dio, osservando dalla finestra, edifica la casa).
E’ infine quanto l’attraversa la precarietà, quanto da un lato è soggetto al tempo che passa, sfoglia, fa sfiorire, (Cosa fa una rosa là dove la sorte si consuma in noi? Senza ritorno. E tu con noi sperduta, questa vita dividi) dall’altro quanto al tempo resiste, quell’eterno che se ne frega della fine.
C’è un ultimo aspetto di questo “Farsi rosa” che mi piace ricordare.
E’ un salmo di Celan (poeta rumeno ebreo, di madrelingua tedesca) struggente perché è il canto della più assoluta negazione. E’ l’invocazione di una salvezza a partire dall’ammissione di un Nulla. Celan si gettò nella Senna a 50 anni, dopo essere stato più volte ospite di cliniche psichiatriche. Il suo è un linguaggio scabro, quasi di coltello, eppure di incontenibile potenza. Il Salmo dice: “Nessuno ci impasta da terra e fango, /nessuno rianima la nostra polvere. Nessuno. Che tu sia lodato, Nessuno. /Per amore tuo vogliamo noi fiorire. Incontro a te/ un Nulla fummo, siamo e restiamo, la di-Niente, la di-Nessuno rosa. Con il pistillo chiaro d’anima, lo stame deserto di cielo, la corolla rossa per la parola di porpora, che noi cantiamo sopra, oh si, sopra la spina”.
Viene in mente la ginestra di Leopardi, contenta dei deserti e che si leva contro lo sterminator Vesuvio.
Essa oppone all’imminente disastro, il suo profumo e il più silenzioso canto.
Per contraddizioni e contrari, anche la Bella della fiaba imparerà per quale reciproco soccorso, sublime e mostruoso possano formare una figura umana, grazie a quella richiesta iniziale e inconsapevole d’una rosa, una rosa… soltanto una rosa…