Quanto segue è la prefazione che Raimon Panikkar ha
scritto al testo 'Il Vangelo
secondo Giovanni e lo Zen' edizioni Dehoniane di Bologna.
Il libro è stato scritto da p. Luciano Mazzocchi in
collaborazione con Jiso
Forzani
Chi ha orecchie, intenda (Mt. 13,43)
L’ideogramma giapponese di kiku (ascoltare) è composito,
essendo formato
dall’accostamento di tre ideogrammi semplici,
precisamente quelli di
orecchio, occhio e cuore. Ciò evidenzia come
ascoltare non sia soltanto
capire, né soltanto leggere. Il libro che ho il
piacere di presentare, é, come
tutti i libri, un testo scritto; ma andrebbe
piuttosto ascoltato e non
semplicemente letto. Essere un vero lettore di un
libro autentico è esserne
coautore. All’espressione sanscrita itivuttaka (così
fu detto), che apre una
intera raccolta di testi attribuiti a Buddha, la
tradizione buddista
giapponese aggiunge, in giapponese antico, nyoze
gamon (così udii), come
Jisô Forzani, coautore discreto del libro, con amore
e precisione annota
altrove.
Il Vangelo esige l’ascolto, lo Zen richiede
l’esperienza. Ascoltare è
sperimentare. La comprensione dei messaggi religiosi
del Vangelo e dello
Zen consegue dall’ascoltarli e dal metterli in
pratica; quindi avviene solo
in un secondo o terzo tempo. Con questo secondo
volume sul Vangelo di
Giovanni, come con gli altri volumi di commento ai
Vangeli sinottici,
l’autore (gli autori) porta a compimento un’impresa
straordinaria: quella
di dilatare e approfondire il messaggio evangelico,
senza tradirlo. Per dei
lettori occidentali, ma anche per quelli non
occidentali, una simile lettura
è una vera boccata d’aria fresca. Infatti il più
delle volte il nostro entrare
in contatto con le Sacre Scritture cristiane è
condizionato da strati di
storia non sempre cristiana, che finiscono per
seppellirne il senso
originario sotto parole fin troppo abitudinarie, se
non addirittura
riduttive. I dati forniti dalla sociologia
evidenziano come le vecchie
cristianità oggi registrino una certa fiacchezza.
Leggendo queste pagine,
non sempre facili da capire, vi si coglie il soffio
dello Spirito rinnovatore.
È vero: non sono facili da capire! Ma nemmeno il
Vangelo è facile da
capire, a meno che lo si metta in pratica.
Sono consapevole della differenza che passa tra una
prefazione e
un’introduzione. Questa mia non vuole essere
un’introduzione del lettore
ai contenuti profondi del libro; ma si limita
piuttosto a una riflessione
teologica, a mo’ di prefazione.
* * *
Ravviso una sfida teologica profonda dietro queste
pagine belle e
apparentemente semplici. Con poche eccezioni che
sempre ci furono in
tempi e luoghi diversi, la maggior parte dei
cristiani ha pensato di
possedere i diritti d'autore dei Vangeli e,
quand’anche li usò in ambiente
non-cristiano, lo fece per evangelizzare; la qual cosa,
se non viene confusa
con l’indottrinamento, è di per sé un intento del
tutto legittimo. L'autore è
un cristiano dichiarato, tuttavia egli ha imparato
come ascoltare il
messaggio con altri orecchi, occhi e cuore, diversi
da quelli ereditati dalla
cultura nella quale è cresciuto, senza per questo
rigettarla. Ci troviamo
qui di fronte ad un esempio vivente di
interculturalità, che è un imperativo
religioso dei nostri tempi.
La normale esegesi cristiana dei Vangeli per lo più
è consistita in una
interpretazione degli stessi all’interno del
contesto storico della cultura
giudeo-ellenico-romana dei tempi in cui essi furono
scritti. Per una
corretta ermeneutica di un testo si richiede la
conoscenza del suo contesto
e, aggiungo io, quella dell’intento dello scrittore.
Sui Vangeli sono stati
scritti migliaia di libri, al punto che è proprio
dall'interpretazione della
Bibbia che la moderna scienza ermeneutica trae le
sue origini. Si è venuto
formando perfino un corpus di interpretazioni della
Scrittura, che ha avuto
l’approvazione ecclesiastica e costituisce quella
che è chiamata la
tradizione cristiana, una cornice obbligata per ogni
interpretazione
cristiana che voglia essere ortodossa. Mi sta bene!
Le Sacre Scritture
cristiane non possono ignorare il corpus della
tradizione che le
accompagna. Il Sola Scriptura, piuttosto che
un'eresia tipica di un periodo
storico di individualismo moderno, è
un'impossibilità, perché una Scrittura
scritta pressoché venti secoli fa non è sola; strati
di polvere l’hanno
ricoperta e fasci di luce l’hanno illuminata. Di
più, le nostre stesse lenti
hanno uno spessore di due mila anni.
Parimenti la tradizione buddista Zen ha prodotto
migliaia di libri, e
annovera un gran numero di scuole e interpretazioni
diverse,
caratterizzati da un tocco esistenziale ed
esperienziale tutto suo. Così fu
detto! Ma quando ciò che fu detto viene udito,
allora è questo e quello. Il
nostro autore ama dire: Quidquid recipitur ad modum
recipientis recipitur
(ognuno riceve secondo la capacità che ha di
ricevere).
Per la maggior parte del tempo queste due branche
della sapienza sono
vissute indisturbate, in splendido e placido
isolamento vicendevole. Oggi
questo non è più possibile. Nessuna religione può
ignorare chi le vive
accanto. Noi veniamo come rimbalzati l'uno contro
l'altro; e ogni
coesistenza comporta i suoi problemi!
Quando, quasi mezzo secolo fa, stavo per accingermi
a tradurre una parte
notevole di Sacre Scritture Hindu, alcuni amici
cristiani mi misero
sull’avviso che queste non avrebbero dovuto essere
usate per la preghiera
cristiana. Evidentemente si possono usare i salmi e
gli inni anche di
origine non-cristiana o pagana; ma mai e poi mai i
Veda! Alcuni amici
hindu, sull’altro versante, mi fecero osservare che
un prete cattolico
romano non poteva pretendere di capire i mantra
hindu e, strettamente
parlando, neppure leggerli, a scapito di profanarli.
Conoscere una cosa è
entrare dentro quella cosa; per capire una cosa
bisogna esserne parte in
qualche maniera. Solo così si può sperimentare la
sua vera essenza. È
certamente corretto affermare che senza fede uno non
può capire
adeguatamente un testo sacro. Ma la fede non va
confusa con credenza. Io
ho introdotto anche la nozione di pisteuma nella
fenomenologia religiosa,
in contrapposizione con il noêma della fenomenologia
tradizionale.
Pisteuma (da pistis, fede) è ciò che il credente
crede; noêma (da nous, mente)
è ciò che un osservatore capisce. La fenomenologia
religiosa si incarica di
descrivere ciò che il credente crede e non quello
che l'osservatore osserva.
Se l'osservatore, un outsider, si limita a descrive
quello che osserva, è certo
che non descrive quello che il credente crede. La
risposta che io davo ai
miei critici era che i Veda appartengono all’umanità
e che la mia
ermeneutica (come qualsiasi traduzione) era
legittima, a patto che io
partecipassi di quello spirito umano che aveva
ispirato la sruti, la
rivelazione vedica. Sorprendentemente, a lavoro
finito, fui riconosciuto da
molti pandit come un rsi reincarnato, uno dei saggi
che per primi
cantarono i Veda. Come avrei potuto altrimenti,
dissero, scrivere ciò che
avevo scritto? Dico questo, per sottolineare insieme
sia la diversa reazione
dell’altra cultura, come la sfida teologica del
libro di p. Luciano e di Jiso.
Sono perfettamente d’accordo che un testo sacro
debba essere maneggiato
con rispetto, che una certa disciplina dell’arcano
sia giustificata e che un
certo tipo di iniziazione sia richiesto per
accostare con frutto qualsiasi
testo sacro, il che assurge a un atto liturgico. La
democrazia è un buon
antidoto alla teocrazia, ma ha un effetto
collaterale rovinoso se distrugge
ogni senso di gerarchia. Non è il mio ruolo qui
quello di prescrivere degli
antidoti. Dobbiamo rispettare la tradizione; eppure
le tradizioni viventi
non sono mummie ibernate. Abbiamo bisogno del soffio
vitale dello
Spirito; e non di stare attaccati a tradizioni senza
vita, solo perché esse
erano considerate vive in un certo passato (cfr. Mt.
15, 2 ss.; 23, 25 ss.
ecc.). Proprio qui sta la sfida teologica di questo
libro. L'autore, un uomo
di fede, legge e spiega i Vangeli al di fuori del
loro contesto proprio. È ciò
appropriato? La proprietà intellettuale dei Vangeli
non appartiene forse alla
specifica tradizione cristiana? Il contesto storico
proprio del periodo
temporale in cui essi furono scritti non è
essenziale e normativo? Qui
sorgono due domande. Una filosofica: i Vangeli sono
solo racconti
intellettuali e storici? L'altra strettamente
teologica: il messaggio
evangelico è essenzialmente legato ai figli naturali
o a quelli adottivi di
Israele o di Abramo, come dir si voglia?
Senza alcun dubbio i Vangeli intendono trasmettere
ben più che la
semplice informazione storica e intellettuale. Le
prime parole pubbliche di
Gesù invitavano alla metanoia (conversione), al
trascendimento del nous, al
superamento dell’intelletto, anche della struttura
mentale del ceppo di
Abramo. Se a Paolo fu ordinato di andare ai gentili,
fu solo per
addottrinarli nelle maniere culturali ebraiche o non
piuttosto per rendere
possibile anche altrove l'Incarnazione della Parola?
L’interpretazione
spirituale è più che legittima. E dicendo spirituale
mi riferisco a quello
Spirito che soffia dove, quando e come vuole.
La sfida cui ho fatto cenno all'inizio, deve essere
collocata nella situazione
nuova del nostro terzo millennio. Dobbiamo conoscere
i segni dei tempi. E
qui trovo l'importanza di questo libro, insieme con
altri studi che
cominciano discretamente ad apparire. Mi sia
permesso formulare questa
precisa domanda: i Vangeli fanno riferimento
soltanto alla figura storica
di un Uomo chiamato Gesù, oppure parlano fin
dall’inizio del Cristo Gesù,
che l'arcangelo Gabriele descrisse come Figlio
dell’Altissimo e ai pastori
fu annunciato come Salvatore, Unto e Signore? Certo,
il Cristo risorto era
il Gesù storico, ma l’argomento-materia dei Vangeli
non è la storia di
colui che veniva creduto figlio di Giuseppe, bensì
la preistoria e il racconto
del Figlio di Dio che cammina come vero Uomo, in una
particolare terra e
in un determinato tempo. La tendenza moderna per il
Gesù storico ha
portato in superficie interessanti caratteristiche
di quell’ebreo di paese e
taumaturgo mediterraneo; ma ha anche distolto
specialmente esegeti e
studiosi da quello che è il cuore dei Vangeli, senza
per questo dover cadere
nella superstizione. Alessandro il Grande, Gengis
Khan e Napoleone
hanno cambiato anche il corso della storia e, come
ebbero a dire gli storici
contemporanei, la faccia della terra. Di quale
terra? Sono i Vangeli solo
libri storici? In altre parole, per ragioni storiche
e altri motivazioni che la
sociologia della conoscenza ci aiuta a scoprire, la
visione del mondo dei
primi secoli cristiani era ferma a una nozione
geografica e storica assai
ridotta dell'oikumene: nessuno oggi oserebbe
sostenere che i sei giorni di
Mosé erano di ventiquattro ore o che la terra dei
Vangeli includesse anche
la Patagonia. Eppure, questa sindrome di un solo
mondo, che equivaleva al
nostro mondo, ha persistito fino ai nostri giorni.
Durante i primi secoli
cristiani si pensava che l'Impero romano fosse
l’intero mondo civilizzato;
la formula urbi et orbi, che più tardi divenne la
formula usata dal Romano
Pontefice, era una abituale espressione latina, che
rifletteva la mentalità
imperiale: orbis in urbe iacet (il mondo intero
giace nella città di Roma), e
potrei moltiplicare gli esempi, su su fino a
Copernico e alla moderna
ideologia globale. Quello che accade per lo spazio,
similmente accade col
tempo, anche se non è ora il caso di fare
disquisizioni sul tempo delle
aspettative escatologiche o della risurrezione. Che
la rivelazione termini
con l'ultimo degli Apostoli è stata una credenza teologica
cristiana
senz’altro utile, naturalmente, per considerare
l’Islam un'eresia e i Bahâ'i
in errore. Ma disquisendo così noi restiamo
rinchiusi nella cultura del
ceppo di Abramo. Come possiamo giustificare queste
nostre
estrapolazioni? È il tempo escatologico la fine di
una temporalità lineare?
Non c’è alcun dubbio che le Sacre Scritture
cristiane appartengano al
ceppo culturale abramico, innestato sulla cultura
ellenica. C’è da dire qui
che questa inculturazione o mutua fecondazione tra
le culture ebraica ed
ellenistica, è un fenomeno precristiano, come
testimonia la straordinaria
attività interculturale degli autori dei Settanta
nell'Alessandria del III
secolo prima di Cristo, che ha avuto il suo culmine
in Filone, pressappoco
contemporaneo di Cristo. Ciò che Filone fece con il
giudaismo, divenne
modello per i Padri della Chiesa dei primi secoli.
Tuttavia sembra che quel
movimento creativo si sia fermato lì, a parte alcuni
cambiamenti
accidentali introdotti dalla cultura europea
posteriore. Richiamo questi
fatti perché da ben più di mezzo millennio sembra
proprio che l’ascolto dei
Vangeli debba ridursi ad ascoltare gli echi di
periodi passati.
È un fatto che al di fuori dell’area
ellenico-semitica, la Bibbia ebraica suoni
esotica, estranea e qualche volta incomprensibile,
per non dire scandalosa.
I Vangeli greci nella loro semplicità sono più
congeniali alle altre culture,
ma la teologia susseguente, costruita su di loro, è
incomprensibile al di
fuori degli schemi mediterranei di intelligibilità.
Devono forse, gli altri
popoli del mondo subire una circoncisione della
mente dopo che la
circoncisione del corpo fu abolita dal I Concilio di
Gerusalemme? Credo in
quel sacramento primordiale di Jahve con il suo
popolo; ma anche qui non
possiamo fare estrapolazioni. Il Giudaismo sta in
piedi da solo e non ha
bisogno della protezione, meno ancora
dell'assorbimento da parte di una
religione nuova che la Sinagoga ha rigettato. Ma
questo non è il luogo per
parlare di pluralismo. La mia questione non è se i
cristiani debbano
impiantare dappertutto i semi del Vangelo, benché mi
sorga il sospetto
che per taluni inculturazione non significhi
piantare dei semi (simboli), ma
far crescere piante (sistemi concettuali). Nessuna
meraviglia che quei semi
(semina Verbi) producano pochi frutti, non perché la
terra non è buona, ma
perché il sottosuolo è diverso. Non tutte le piante
possono crescere nello
stesso suolo e sotto lo stesso clima. Parlo, invece,
di interculturazione, cioè
di fecondazione mutua. La mia questione è se le
Sacre Scritture cristiane
hanno qualcosa da dire, in quanto Scrittura
religiosa, a popoli che non
sono né figli di Abramo, né nipoti delle culture
europee. Dovremmo noi
leggere i Vangeli come documenti culturali
interessanti o come messaggi
religiosi (spirituali)? La mia questione riguarda
l'identità cristiana.
Vogliono i cristiani mantenere la propria identità,
salvaguardando le
differenze (principio di non-contraddizione)? Oppure
sottolineando la
auto-comprensione (principio di identità)?
Entrambe le risposte, sì o no, sono sensate e del
tutto legittime. Per dare
una risposta dal versante cristiano, per decenni ho
invocato un II Concilio
di Gerusalemme, dal momento che io non ho alcuna
autorità per decidere
del destino della Chiesa cristiana. Questa si trova
di fronte a un bivio:
deve decidere se la comunità cristiana è il resto di
Israele, il piccolo gregge;
ovvero se ha il coraggio di seguire l'esempio del I
Concilio che ruppe con
il giudaismo ed abolì il patto fondazionale di Jahve
con il suo popolo (la
circoncisione), liberando il Cristo kenotico,
simbolo universale di
risurrezione, liberazione, realizzazione, salvezza,
pienezza, destino della
realtà intera. Uso un simbolismo cristiano molto
tradizionale: come
Maria, la Madre di Dio (theotokos), diede la nascita
a Gesù e Gesù fece poi
il suo percorso di adulto, allo stesso modo la
Chiesa del terzo millennio,
quale icona di Maria, partorisce il Cristo che si
incarna nei figli dell’Uomo
in modi che non spetta a noi determinare o persino
prevedere. Potrei
insinuare di passaggio che se una Chiesa adulta
avesse tagliato il cordone
ombelicale con il giudaismo e avesse riconosciuto il
valore indipendente
della Bibbia, senza pretendere di averne
un'interpretazione più autorevole
di quella giudaica, l’ondata antisemita non sarebbe
mai sorta. L’eredità
giudaica del cristianesimo è un dato di fatto
innegabile. Per quanto
concise e poco elaborate possano essere queste mie
note, non sono
marginali: mirano a mettere in risalto l'importanza
di questo libro e il suo
rischio, se mal compreso.
* * *
Non so se l’autore abbia inteso avventurarsi fin
qui; certo è che io trovo in
ciò che scrive una profonda empatia con le questioni
che ho sollevato. È
evidente che del contenuto di una prefazione è
responsabile chi la scrive.
Tuttavia mi preme sottolineare che la decisiva sfida
teologica che fa
capolino nell’opera dell’autore è la stessa che qui
io ho appena abbozzato.
Soltanto di un abbozzo si tratta e niente più, come
si addice in questo
contesto. In realtà, l’autore che cosa sta facendo?
È una domanda
legittima! Non sta forse presentando una figura di
Gesù alla luce di una
cultura e religione straniera, in modo che sia
significativa tanto per il
buddista come per il cristiano? Così facendo, i
Vangeli, come illuminati da
una nuova luce, rivelano aspetti nuovi dell’Uomo
Gesù: quindi nuovi
significati per i cristiani e contemporaneamente
messaggi che parlano
anche a quelli che si trovano fuori dei confini
della Chiesa visibile.
Ma altri, al contrario, si domandano se l’autore non
stia forse travisando
l'immagine di Gesù, che dopo tutto non era un guru
orientale. Cerca forse,
si chiedono, di smussare gli aspetti acuminati della
spiritualità Zen, per
adattarli a un pubblico occidentale? E se togliendo
la polvere dei secoli
finisse per buttare via autentici tesori della
tradizione cristiana? Serve mai
a qualcosa l’eclettismo? Anche queste sono voci da
ascoltare!
Uno dei miei critici mi scrisse una volta che al
posto di cristianizzare
l’induismo, che era quello che avrei dovuto fare,
stavo induizzando il
cristianesimo, il che era una eresia. Ho gentilmente
risposto che il
cristianesimo era vivo grazie alle simbiosi operate
con la Grecia, Roma,
l’Europa, la Modernità e simili. Perché dovremmo
fermare il vento,
meglio, la brezza dello Spirito? Uno Spirito che fa
muovere tutte le cose e
che millenni fa ha spazzato via il sogno umano di
una sola lingua
universale, come riferisce l'episodio della torre di
Babele narrato nella
Genesi.
I problemi ingigantiscono. Non traviserei forse
l'immagine di Napoleone,
se ignorassi la storia europea che lo precede e lo
assimilassi a Tipu, il
Sultano dell’India Meridionale, suo contemporaneo?
Entrambi erano
grandi guerrieri e personalità straordinarie, entrambi
hanno pronunciato
frasi memorabili. Ma se li isolassi dai rispettivi
mondi storici favorirei la
comprensione di questi due capi politici? Il Gesù
storico è davvero il
giudeo della Palestina occupata di due mila anni fa,
così come Hui-neng, il
sesto Patriarca, è un’altra figura storica del VII
secolo. Detto ciò, ancora
ci domandiamo: ma lo Zen e i Vangeli sono solo
documenti storici?
L’etnocentrismo ebraico è perfettamente
comprensibile. Jahve è il Dio di
un popolo, il suo popolo che Egli ha difeso contro i
suoi nemici. Ancor più
è comprensibile la tragica grandezza di tale popolo
che visse nella
diaspora, senza armi e spesso senza potere,
circondato da gentili non
sempre troppo gentili. La sua unica speranza era
stata la protezione del
suo Dio. L'inizio della Lettera agli Ebrei
esemplifica quanto fosse
drammatico il dilemma dei primi cristiani ebrei. Non
c'è dubbio che
secondo la Lettera, i Profeti che Jahve aveva
inviato al suo popolo fossero
solo ebrei. Immaginare che l'autore della Lettera
avesse potuto sognare
altri profeti, di altre tradizioni, come ho fatto
io, non è storicamente
corretto. Ma la Lettera va avanti e parla del Figlio
(di Dio) che frantuma i
particolarismi degli Ebrei. Questo Figlio è creatore
dei mondi, splendore di
Dio e substrato di tutte le cose per il potere della
sua Parola. Da una parte è
scritto che questo Figlio è più grande degli angeli,
per cui la sua gloria e
potere, non vi è dubbio, non sono limitati ai figli
di Israele. Dall’altra si
può capire anche l’orgoglio presente in tutta la
Lettera, per il fatto che
l'apparire storico di quel Figlio – apparizione
storica che a sua volta era
stata iniziata dalla figura di un non-ebreo, di
Melchisedech - sia
strettamente connesso al popolo ebreo, nonostante le
dure requisitorie dei
profeti circa l'infedeltà di quel suo popolo. Jahve
avrebbe potuto fare come
un padre che castiga i suoi figli. Ma non è corretto
utilizzare le dure
parole dei profeti ebrei contro il popolo di
Israele, per denigrarlo dal di
fuori o per difendere l'interpretazione cristiana;
così come non è corretto
invocare lo scandalo della Croce per difendere gli
insegnamenti cristiani,
come se lo scandalo non fosse tale anche per i
cristiani stessi. È chiaro che
non sto parlando della teocrazia secolarizzata del
moderno Stato di
Israele.
Insomma, la tensione si avverte fin dall'inizio. La
Bibbia, come libro
religioso appartiene indubbiamente alle tribù di
Israele; ma le Sacre
Scritture cristiane, fosse anche come semplice libro
religioso, non
appartengono a nessuno in particolare. Il
Cristianesimo non è una
religione etnica, e questo è il mio punto. Non era
ovvio all'inizio. Che
diritto abbiamo di pensare che il messaggio di quell’ebreo
trascenda i
confini della Giudea e della Galilea? Non si fece
forse discepolo di
Giovanni il Battista per percorrere il sentiero
della conversione del cuore?
Ricalco: del cuore. Non fu forse anche lui un
giovane rabbino che pensava
di essere stato mandato solamente per il popolo di
Israele, per cui ci fu
bisogno dell’amore di una madre per il suo bambino
per frantumare quella
sua rigida ortodossia (Mt. 15, 22 ss.)? Non crebbe
anche lui in sapienza (Lc.
2, 51)? Non fu forse rigettato dal proprio popolo e
crocifisso fuori della
Santa Città, come non a caso i cristiani della prima
generazione
sottolineano? E soprattutto, non dovette risuscitare
il terzo giorno?
Eppure in Cristo non ci sono né giudei, né greci, né
schiavi o liberi, e
neppure uomini o donne (Gal. 3, 28). I Vangeli non
sono la storia di Gesù,
l’ebreo; sono invece i racconti di Gesù, il Cristo,
cioè il Risorto.
Il Cristianesimo non è una religione del Libro,
bensì della Parola. La
parola ha bisogno di essere ascoltata. C'è una certa
ironia nel fatto che la
divina Provvidenza abbia disposto che noi di fatto
non conosciamo una
sola frase di Gesù. Tommaso d'Aquino sostiene
magnificamente che Gesù
non avrebbe dovuto scrivere alcunché, altrimenti il
suo messaggio vivente
si sarebbe convertito in mera dottrina (Summa teol.
III, q., 42, un. 4).
Sto riportando il discorso a quanto ho detto
all'inizio. C'è un profondo e,
oserei dire, per molti un disturbante problema, già
nell’intento stesso di
questo libro. È comprensibile che coloro che si
sentono investiti della
responsabilità di custodire la purezza della
dottrina, non si lascino
convincere facilmente dalle buone intenzioni di quei
teologi che vanno
oltre le frontiere stabilite. È una situazione
analoga a quella della donna
siro-fenicia: le disquisizioni in cui manca l’amore
creano confusione, se
non danno. Voglio dire che non dobbiamo accostarci
al problema
dialetticamente, cioè dottrinalmente. Le parole di
vita eterna sono concesse
gratuitamente a quelli che ne hanno sete vera. Per i
dotti e i ricchi è più
difficile. Noi non possiamo, naturalmente, né
ridurre il cristianesimo a una
dottrina, né eliminare dalle Sacre Scritture il loro
contenuto mistico,
senza con ciò trascurare la stessa dottrina. L’unico
messaggio che il Cristo
risorto instilla in noi è quello della pace e del
non avere paura.
Lo dico in maniera più accademica. Stiamo assistendo
alla crisi del mito
che ha prevalso in occidente: il mito che una sola
cultura sia sufficiente per
abbracciare l’intera gamma dell'esperienza umana. In
base a tale mito re,
imperatori, papi, presidenti, governi ed eserciti,
in buona fede, hanno
fomentato il progetto di unificazione politica,
religiosa o economica del
mondo. Un nome passato del progetto è stato
colonialismo; ora ha preso
altri nomi: globalizzazione, etiche globali, scienza
universale e simili. Ora,
il mito è in crisi, se non in procinto di crollare.
* * *
Non pretendo che l’autore insegua queste tematiche,
una a una, per
risolverle. Tuttavia deve sapere che il suo lavoro è
senz’altro importante.
Esso rappresenta un passo nuovo nella
auto-comprensione cristiana e apre
scenari nuovi per un ecumenismo veramente ecumenico
per il terzo
millennio cristiano. Nonostante le provocazioni di
questa mia prefazione,
l’autore non si lascia frastornare dalle
problematiche, ma continua sereno
il suo lavoro. Gli dovremmo essere grati.
* * *
Una prefazione non è una introduzione. Di fatto, con
queste
considerazioni non ho introdotto il lettore al
libro; non ho sottolineato le
inaspettate ricchezze che l’esegesi ivi contenuta
può portare in superficie;
né ho sottolineato che senza esperienza personale la
lettera uccide. Il lettore
scoprirà tutto questo da solo.
Questa mia prefazione in tono teologico voleva solo
mettere in rilievo
l'importanza teologica della ricerca che ha
accompagnato questo libro e
gli altri dell’autore. L'idea che vi soggiace è che
il messaggio religioso di
Cristo non appartiene ad alcun particolare gruppo
umano. Quindi lo
stesso significato del nostro essere cristiani è
sempre aperto a nuovi raggi
di luce.
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