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Orma del piede di Buddha |
Il testo che segue è la
prima parte della trascrizione di alcune lezioni tenute nel Dōjō Zen
da Sensei Paolo Taigō Spongia a commento dello Shushōgi di Dōgen Zenji.
Lo Shushōgi è il testo
fondamentale adottato dalla Sōtō-Shu come compendio catechistico degli
Insegnamenti del Buddha indirizzato principalmente ai fedeli laici.
Si tratta di una
raccolta, una selezione dell’Opera di Dōgen Zenji [grande riformatore del
buddismo, capostipite della Scuola Zen Sōtō giapponese 1200 -1253].
La raccolta è stata
operata nella sua stesura definitiva nel 1890, su iniziativa dell’Abate di
Eiheiji, Takiya Zenji e dell’Abate di Sojiji, Azegami Zenji, basandosi sulla
compilazione già attuata dal laico Ouchi Seiran (1845-1918) il quale, a sua
volta, si era avvalso di lavori di cinquant’anni prima: l’ Eihei Shōshu Kun e
l’ Eihei Kakun. Quest’ultima opera di Menzan del 1738.
L’esigenza di questa
compilazione si è sentita in particolar modo nel momento in cui, nel 1888,
monaci e laici si sono riuniti in un’unica organizzazione la Sōtō Fushukai.
E’, a mio parere, di
particolare rilievo la collaborazione dei due abati dei Templi Madre della Sōtōshū
(Dai Honzan) che, pur adottando stili diversi nella formazione monastica, hanno
condiviso nella compilazione dello Shushōgi i principi ispiratori della
pratica.
Proprio l’obiettivo
della diffusione tra i laici ha fatto sì che nel testo non siano affrontati
temi legati più direttamente alla formazione monastica quali: Sanshi
Monpo, l’investigazione del Dharma sotto la guida di un Maestro e Kufu
Bendo, l’intenso e continuo esercizio dello Zazen.
Pur non menzionando mai
direttamente lo Zazen, lo Shushōgi appare ai miei occhi una continua
descrizione dello spirito dello Zazen.
E’ mio desiderio
iniziare da questa sera un ciclo di lezioni volte ad illustrare lo Shushōgi,
fondamentale testo Zen Sōtō, che raccoglie in una sapiente selezione il
pensiero e Insegnamento di Dōgen Zenji espresso nei 95 capitoli dello
Shōbōgenzō.
Alcuni di voi sono già
venuti in contatto con quest’opera mentre per molti si tratta ancora di una
novità.
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Shōbōgenzō |
La mia intenzione è
quella di fare un lavoro di ricerca in cui approfondire i singoli capitoli del
testo andando a ricercare all’interno dei capitoli dello Shōbōgenzō da cui i
paragrafi son tratti in modo da avere un respiro più ampio nello studio e
nell’ermeneutica del testo.
Questo proposito
comporta uno sforzo da parte mia che mi auguro sia sostenuto da un attivo
interesse da parte vostra, vi prego quindi di intervenire con domande,
riflessioni…in modo che, insieme, si possa portare avanti una ricerca ed uno
studio approfonditi e, di certo per noi, inediti.
Vi ricordo l’origine di
quest’opera: vede la sua compilazione definitiva nel 1890 ad opera dei due
abati dei Daihonzan, dei due templi madre della Sōtō Shū, Takiya Zenji di
Eiheiji e Azegami Zenji di Sōjiji. I due Abati si sono basati sulla
straordinaria opera precedentemente prodotta da un laico: Ouchi Seiran, al
quale va riconosciuta la grande capacità di saper estrapolare dai capitoli
dello Shōbōgenzo i passaggi chiave che sapientemente riuniti nello Shushōgi
hanno dato vita ad un ‘distillato’ dell’Insegnamento di Dogen Zenji o per
meglio dire dell’Insegnamento di Buddha Shakyamuni.
Si tratta pertanto di
un compendio ‘catechistico’ che è indirizzato principalmente, anche se non
esclusivamente, ai fedeli laici. I due Abati, nonostante la diversa
impostazione pedagogica nella formazione monastica attuata nei due Templi, si
sono trovati in pieno accordo nella stesura dello Shushōgi.
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Dogen Zenji |
Proprio la sua
caratteristica di essere un’opera indirizzata prevalentemente ai laici fa si
che in essa non vengano trattati due aspetti più caratteristici della
formazione monastica, ovvero, lo studio del Dharma sotto la guida di un
Maestro, la trasmissione del Carattere che viene dal condividere vita-pratica
con l’Insegnante, in giapponese definito Sanshi Monpō, e la pratica fondata
sull’intenso esercizio dello Zazen, Kufū Bendō.
Lo Zazen non è mai
citato direttamente in tutta l’opera e un po’ come nel Bendowa, Dogen Zenji dopo
aver dettagliatamente descritto la pratica dello Zazen afferma:
’…eppure lo
Zazen non ha nulla a che vedere con la posizione seduta…’, lo Zazen è la mente
che è alla base dei principi esposti in tutta l’opera.
Cominciamo con
l’esaminare il titolo dell’opera:
Shushōgi, attraverso
l’analisi dei caratteri che lo compongono:
Shu: Il carattere
esprime lo sforzo, la coltivazione del comportamento, atti ad attualizzare,
incarnare un’Insegnamento. Il carattere è il medesimo di Shugyō, o Shukyō in
un’accezione più a carattere religioso, che esprime il percorso ascetico,
shugyosha è colui che percorre questo sentiero, colui che fa della propria vita
una pratica continua, colui che comprende che vita e pratica sono unità, Shushō
Ichinyo.
Dicevo qualche giorno fa a coloro che hanno superato gli esami di
graduazione del Dōjō di Karate: la pratica richiede sforzo perché si tratta di
‘riorganizzare’ la propria vita, di riarmonizzarsi con l’Ordine Cosmico,
abbandonando le cattive abitudini sostituite dai principi del Dharma.
Il Buddha è definito
anche ‘il grande medico’ perché somministra la cura. Diceva: ‘Non vi posso
mostrare la luce, poichè non siete in grado di vederla, ma posso suggerirvi il
rimedio per guarire i vostri occhi in modo che possiate vedere la luce
direttamente’. Ma come un buon medico sa bene non basta una pillola a guarire,
ma il malato deve rivedere il proprio stile di vita insieme alla terapia e
spesso è più efficace questo riorganizzare il proprio stile di vita che la
terapia stessa. Allora il Buddha dettava il rimedio: lo Zazen e nello stesso
tempo suggeriva come riarmonizzare il proprio stile di vita con l’Ordine
Cosmico, i precetti.
Shō: è tradotto con
Risveglio o Realizzazione. Se analizziamo il carattere vediamo che il radicale
di sinistra rappresenta il parlare, la parola, e quello di destra rappresenta
il giusto. Quindi La parola che esprime ciò che è giusto, la prova, l’evidenza.
L’espressione Risveglio ricorre costantemente nell’Insegnamento del Buddha. Si
vive nel sonno e come zombie perpetuiamo meccanicamente azioni per cui siamo
programmati. Tutt’altro che liberi agiamo e re-agiamo costantemente spinti
dalla corrente generata da ira, brama, ignoranza (i Tre Veleni) e dal nostro
Karma. Praticare lo Zen significa de-programmarsi, smettere di agire sulla base
dei condizionamenti. E questo Risveglio coincide con l’esercizio stesso (ancora
Shushō Ichinyo). Lo Zazen è pratica sul Risveglio.
Gi: Si traduce con
Principio, con un’accezione che attiene al dovere, alla lealtà (Gi Ri). Ovvero
la pratica, la vera pratica, inizia quando realizziamo la ricchezza e la
profondità della nostra vita e ci sentiamo chiamati alla restituzione di un
debito.
“Render grazie e la
pietà son l’esercizio senza fine d’ogni giorno. (ogni istante della nostra vita
è prezioso) Nell’oblio di sé Non c’è giorno che non sia un buon giorno.”
Shushōgi cap.V
Questa è la Pratica,
non c’è pratica senza questa gioia del ‘render grazie’, la commozione costante
di fronte alla rarità e preziosità di ogni singolo istante.
Questo ‘oblio di
sé’ ha tutt’altro che un’accezione nichilistica.
Si tratta di abbandonare il
nostro ‘piccolo io’ generato e nutrito dalla nostra illusione, dalla nostra
ignoranza. L’abbandono del ‘piccolo io’ è possibile soltanto quando si comincia
a restituire, si abbandona la presa che trattiene e argina la vita, quando ci
spende donandosi. Allora la vita in tutta la sua grandiosa potenza fluisce
liberamente attraverso di noi. La pratica religiosa è proprio questo abbandono,
questo lasciarsi attraversare dalla meraviglia, lo Zazen è pratica
‘pentecostale’, si attende, aperti al mistero.
Nell’abbandonare la ‘piccola
mente’ lasciamo che si manifesti, attraverso la nostra forma che è azione, la
‘Grande Mente’, la Mente del Buddha.
Da Budhha a Buddha
altro non si trasmette che questa mente:
“Shakyamuni Buddha altro non è che
questa stessa mente.” Shushōgi cap.V
Dunque traduzione del termine Shushōgi
è ‘Sul Principio della Realizzazione in Esercizio’ .
Ovvero, nella versione recitabile elaborata dal Maestro Taiten:
‘Dei Principi
dell’Esercizio nel Risveglio’, che esprime bene il concetto poc’anzi descritto
della pratica come espressione del Risveglio e non il Risveglio come effetto
successivo all’esercizio.
Nell’esercizio la
Realizzazione e a sua volta il Risveglio non può essere espresso altrimenti che
attraverso l’esercizio.
La prassi, dice Dogen Zenji, è matrice del bene:
“Il bene non è
esistenza, non-esistenza, vacuità o forma: è solo prassi; indipendentemente dal
luogo e dal tempo in cui viene realizzato, esso è prassi.” Shōbōgenzō Cap. 31 Shoakumakusa
Il
Bodhisattva è dunque ‘azione risvegliata’. Ma questo è comprensibile ed
esperibile solo attraverso la pratica.
Veniamo ora al primo
capitolo dello Shushōgi: Sōjo.
Sōjo può essere tradotto con ‘Introduzione
Generale’ ma i caratteri forniscono anche l’accezione di ‘Mutamento di
prospettiva’ suggerendo come si entri nella pratica solo nel momento in cui
siamo in grado di mettere in discussione le nostre certezze, il modo in cui
conduciamo la nostra vita.
La pratica religiosa si fa beffe delle esigenze
umane. Si tratta di far esprimere l’Ordine Cosmico’ attraverso la nostra vita.
Qualcuno ha definito lo Zen come l’università della Religione. Senza nulla
togliere all’aspetto popolare e consolatorio delle religioni, lo Zen punta
direttamente al nucleo fondamentale dell’esperienza religiosa, ed è per questo
che la sua radicalità è difficile da digerire dalla massa che ricerca nella
religione conforto e conferma delle proprie convinzioni.
“Chiarire del
nascer,morire la causa ed il caso è la grande prima questione di chi del Buddha
segue ‘l Sentiero”.
Il capitolo si apre
ponendo la Grande Questione, Dai Ji. Anche l’Hagakure, il testo Samurai, che
raccoglie gli insegnamenti del monaco Zen Sōtō, già Samurai, Yamamoto
Tsunetomo, si apre con l’affermazione: ‘La Via del Samurai è morire’
Porsi di fronte alla
morte diviene il catalizzatore che fa cadere istantaneamente l’illusione,
l’attaccamento, permettendo così di abbandonare quella ‘timidezza’ con la quale
abitualmente viviamo. La questione del nascere-morire non è altro che la
consapevolezza dell’impermanenza, a partire da questa la vita può essere
vissuta pienamente.
Porsi di fronte al nascere-morire è Zazen.
“La casa è in fiamme, e
molti cercano di fuggire usando carri diversi. Costoro devono fermarsi e
pensare: dove posso andare ? Fuggire elimina davvero il pericolo rappresentato
dalla casa in fiamme? Se solo costoro si fermassero nel vicolo e osservassero
la casa che brucia, ne trarrebbero una profonda conoscenza della vita, e il
vicolo diventerebbe il Picco del’Avvoltoio: un luogo in cui si impara e ci si
addestra.” Shōbōgenzō cap. 90 Hokke Ten Hokke
Questo passaggio dello
Shōbōgenzō è una perfetta descrizione dello Zazen.
La casa in fiamme è la
nostra mente illusa dalla quale si pensa di poter fuggire saltando su veicoli
diversi, che non sono altro che distrazioni dal problema fondamentale del
nascere-morire.
Fermarsi e osservare (Zazen)
è l’unico modo per sfuggire veramente al rogo.
Si tratta pertanto di rimanere
lì dove vita-morte si manifestano apprezzando pienamente la rara e preziosa
occasione data da ogni singolo momento.
E’ il vivere qui ed ora
che ci fa nati. In ogni momento dobbiamo rinascere e in ogni momento morire. In
ogni momento rinascere e la forma che assumiamo è la nostra pratica.
Nella vita
essere totalmente vivi nella morte totalmente morti. La morte si conosce solo
da vivi. Il legno non può conoscere la propria cenere afferma Dogen Zenji.
Con
la morte non c’è cosa che non muoia e il Buddha ha insegnato come vivere da
vivi, come spendersi fino in fondo vivendo.
Nasciamo e moriamo
continuamente attraversando i sei regni dell’esistenza (Rokudō): L’Esistenza
Infernale, quella dei Preta, gli spiriti avidi e affamati, l’esistenza animale
e quella umana, l’esitenza guerriera e quella celeste.
Osservare e divenire
consapevoli del processo del nascere-morire che si manifesta in ogni istante è
l’occasione della percezione della Legge del Karma.
Questa presa di
coscienza permette di comprendere che non esiste azione anche quella
apparentemente più quotidiana, banale o intima, che non produca dei frutti,
degli effetti, con una risonanza universale, che si manifesta nel presente e
nel futuro.
Ecco perché nella ‘vita Zen’ si dà tanto rilievo alle semplici
azioni quotidiane.
Una volta il mio
Maestro, osservando le ciabatte lasciate disordinatamente dagli ospiti
intervenuti all’incontro domenicale, disse: “queste persone nel togliere le
ciabatte, distrattamente, hanno pensato che la loro vita fosse oltre quelle
ciabatte, altrove, in altro tempo e luogo…”
“Non due,tre, ma una
sola è la vita. Peccato coltivar Un’erronea visione.
Non basta pensar di non
far male o di far bene: soggetti si è del Karma comunque, scusa non c’è per chi
‘l giusto non vede." Shushōgi cap. 1
Non basta pensare di
non fare del male o di far del bene, se la nostra mente non è in grado di
‘vedere la realtà’ non abbiamo possibilità di distinguere tra bene e male, che
sono comunque contingenti.
Attraverso la pratica
si perde la capacità di compiere il male perché:
“Colui che è capace di
una percezione totale può vedere tutti i dharma, dunque, può vedere un solo
dharma come per esempio un granello di polvere, e conoscere il mondo intero.” E
ancora: “Il bene non è esistenza, non-esistenza, vacuità o forma: è solo
prassi” Shōbōgenzō cap. 31 Shoakumakusa
Il bene è dare la
giusta importanza a ciò che di momento in momento siamo chiamati a fare dice il
rev. Yaoko Mizuno. E’ l’orecchio a questo richiamo che dobbiamo riaffinare
attraverso la pratica. Alla domanda di Hakurakuten: ‘qual è l’essenza
dell’Insegnamento del Buddha?’ Il Maestro Dōrin rispose:
‘Non fare alcun male,
pratica tutto il bene, purifica la mente.
D’ogni Buddha questo è
tutto l’Insegnamento’
La chiave del ‘non fare il male e praticare il bene’ è in
quel ‘purifica la mente’ che non è altro che l’esercizio d’ogni giorno.
Fine prima parte
© Tora Kan Dōjō
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