domenica 29 dicembre 2019

Non Attaccarsi all'Illuminazione




Il Sesto Patriarca, Hui Neng, ha detto: "Dimorare nella vacuità e mantenere una mente calma non è zazen". Inoltre, "Lo Zen non è limitarsi a starsene seduti a gambe incrociate".
Vi confonderà, questo, se non capite che cos'è la nostra pratica e vi attaccate alle parole; ma se capite che cos'è il vero Zen, sapete anche che le parole dei Patriarchi intendono, in un certo senso, metterci in guardia.
[...] Se avete praticato il vero zazen sarete felici di tornare alla vita quotidiana, ma se provate qualche esitazione vuol dire che siete ancora attaccati allo zazen. Per questo il Sesto patriarca ha detto: " Se dimorate nella vacuità e vi attaccate alla pratica, quello non è vero zazen".
Quando praticate zazen, attimo dopo attimo, accettate quello che già avete ora, in questo momento, e siete soddisfatti di quello che fate. E' sufficiente che lo accettiate senza avere nulla da recriminare. Quello è zazen. Anche se non ci riuscite sapete cosa fare, quindi sedervi in zazen vi spinge a fare anche altre cose. Proprio come accettare il male alle gambe mentre sedete in meditazione, accettate la vita di tutti i giorni anche se potrebbe essere molto più difficile che non praticare lo zazen.
Se riuscite ad assaggiare il sapore della vera pratica [...] e poi tornare alla vostra vita attiva e indaffarata senza perdere il sapore ella pratica, questo vi sarà di grande aiuto. Anche se è difficile, anche se siete molto occupati, porterete sempre nella mente il sapore della calma, non perchè ci siete attaccati ma perchè l'avete goduto. [...]
Può darsi che crediate di avere raggiunto l'illuminazione, ma se siete occupati o presi in qualche difficoltà e pensate di doverla sperimentare di nuovo, quella non era vera illuminazione: è un qualcosa a cui vi state attaccando. [...] L'illuminazione non è qualcosa che potete incontrare dietro appuntamento. Se organizzate la vostra vita, non ci sarà bisogno di prendere appuntamento: lei si presenterà all'angolo di strada dove la incontrate sempre. La nostra Via è fatta così. E' una stupidaggine.
E' così che si raggiungere l'illuminazione. Non c'è niente da ridere. Sto parlando di una cosa reale. Non prendere appuntamenti significa non aspettarsi l'illuminazione, non attaccarvisi.
Quando siete mossi dall'illuminazione vi basta anche solo vederla, anche un'occhiata sola, per essere felici tutto il giorno. Se pretenderete troppo da lei significa già che siete attaccati all'illuminazione.
"Limitarsi a dimorare nella vacuità non è vera pratica". "Senza dimorare nel nulla, si ha la vera mente". Se vi attaccate a qualcosa, dunque, perderete la vostra illuminazione.
Anche se fate di tutto per ottenere un appuntamento, non funziona.


Shunryu Suzuki Roshi 


© Tora Kan Dōjō






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giovedì 26 dicembre 2019

Nell’oblio di sé non c’è giorno che non sia un buon giorno - Lo Shushōgi - Prima Parte


Orma del piede di Buddha 
Il testo che segue è la prima parte della trascrizione di alcune lezioni tenute nel Dōjō Zen da Sensei Paolo Taigō Spongia a commento dello Shushōgi di Dōgen Zenji.

Lo Shushōgi è il testo fondamentale adottato dalla Sōtō-Shu come compendio catechistico degli Insegnamenti del Buddha indirizzato principalmente ai fedeli laici.
Si tratta di una raccolta, una selezione dell’Opera di Dōgen Zenji [grande riformatore del buddismo, capostipite della Scuola Zen Sōtō giapponese 1200 -1253].
La raccolta è stata operata nella sua stesura definitiva nel 1890, su iniziativa dell’Abate di Eiheiji, Takiya Zenji e dell’Abate di Sojiji, Azegami Zenji, basandosi sulla compilazione già attuata dal laico Ouchi Seiran (1845-1918) il quale, a sua volta, si era avvalso di lavori di cinquant’anni prima: l’ Eihei Shōshu Kun e l’ Eihei Kakun. Quest’ultima opera di Menzan del 1738.
L’esigenza di questa compilazione si è sentita in particolar modo nel momento in cui, nel 1888, monaci e laici si sono riuniti in un’unica organizzazione la Sōtō Fushukai.
E’, a mio parere, di particolare rilievo la collaborazione dei due abati dei Templi Madre della Sōtōshū (Dai Honzan) che, pur adottando stili diversi nella formazione monastica, hanno condiviso nella compilazione dello Shushōgi i principi ispiratori della pratica.
Proprio l’obiettivo della diffusione tra i laici ha fatto sì che nel testo non siano affrontati temi legati più direttamente alla formazione monastica quali: Sanshi Monpo, l’investigazione del Dharma sotto la guida di un Maestro e Kufu Bendo, l’intenso e continuo esercizio dello Zazen.
Pur non menzionando mai direttamente lo Zazen, lo Shushōgi appare ai miei occhi una continua descrizione dello spirito dello Zazen.
E’ mio desiderio iniziare da questa sera un ciclo di lezioni volte ad illustrare lo Shushōgi, fondamentale testo Zen Sōtō, che raccoglie in una sapiente selezione il pensiero e Insegnamento di Dōgen Zenji espresso nei 95 capitoli dello Shōbōgenzō.
Alcuni di voi sono già venuti in contatto con quest’opera mentre per molti si tratta ancora di una novità.


Shōbōgenzō

La mia intenzione è quella di fare un lavoro di ricerca in cui approfondire i singoli capitoli del testo andando a ricercare all’interno dei capitoli dello Shōbōgenzō da cui i paragrafi son tratti in modo da avere un respiro più ampio nello studio e nell’ermeneutica del testo.
Questo proposito comporta uno sforzo da parte mia che mi auguro sia sostenuto da un attivo interesse da parte vostra, vi prego quindi di intervenire con domande, riflessioni…in modo che, insieme, si possa portare avanti una ricerca ed uno studio approfonditi e, di certo per noi, inediti.
Vi ricordo l’origine di quest’opera: vede la sua compilazione definitiva nel 1890 ad opera dei due abati dei Daihonzan, dei due templi madre della Sōtō Shū, Takiya Zenji di Eiheiji e Azegami Zenji di Sōjiji. I due Abati si sono basati sulla straordinaria opera precedentemente prodotta da un laico: Ouchi Seiran, al quale va riconosciuta la grande capacità di saper estrapolare dai capitoli dello Shōbōgenzo i passaggi chiave che sapientemente riuniti nello Shushōgi hanno dato vita ad un ‘distillato’ dell’Insegnamento di Dogen Zenji o per meglio dire dell’Insegnamento di Buddha Shakyamuni.
Si tratta pertanto di un compendio ‘catechistico’ che è indirizzato principalmente, anche se non esclusivamente, ai fedeli laici. I due Abati, nonostante la diversa impostazione pedagogica nella formazione monastica attuata nei due Templi, si sono trovati in pieno accordo nella stesura dello Shushōgi.
Dogen Zenji
Proprio la sua caratteristica di essere un’opera indirizzata prevalentemente ai laici fa si che in essa non vengano trattati due aspetti più caratteristici della formazione monastica, ovvero, lo studio del Dharma sotto la guida di un Maestro, la trasmissione del Carattere che viene dal condividere vita-pratica con l’Insegnante, in giapponese definito Sanshi Monpō, e la pratica fondata sull’intenso esercizio dello Zazen, Kufū Bendō.
Lo Zazen non è mai citato direttamente in tutta l’opera e un po’ come nel Bendowa, Dogen Zenji dopo aver dettagliatamente descritto la pratica dello Zazen afferma:
’…eppure lo Zazen non ha nulla a che vedere con la posizione seduta…’, lo Zazen è la mente che è alla base dei principi esposti in tutta l’opera.

Cominciamo con l’esaminare il titolo dell’opera:
Shushōgi, attraverso l’analisi dei caratteri che lo compongono:

Shu: Il carattere esprime lo sforzo, la coltivazione del comportamento, atti ad attualizzare, incarnare un’Insegnamento. Il carattere è il medesimo di Shugyō, o Shukyō in un’accezione più a carattere religioso, che esprime il percorso ascetico, shugyosha è colui che percorre questo sentiero, colui che fa della propria vita una pratica continua, colui che comprende che vita e pratica sono unità, Shushō Ichinyo. 
Dicevo qualche giorno fa a coloro che hanno superato gli esami di graduazione del Dōjō  di Karate: la pratica richiede sforzo perché si tratta di ‘riorganizzare’ la propria vita, di riarmonizzarsi con l’Ordine Cosmico, abbandonando le cattive abitudini sostituite dai principi del Dharma.
Il Buddha è definito anche ‘il grande medico’ perché somministra la cura. Diceva: ‘Non vi posso mostrare la luce, poichè non siete in grado di vederla, ma posso suggerirvi il rimedio per guarire i vostri occhi in modo che possiate vedere la luce direttamente’. Ma come un buon medico sa bene non basta una pillola a guarire, ma il malato deve rivedere il proprio stile di vita insieme alla terapia e spesso è più efficace questo riorganizzare il proprio stile di vita che la terapia stessa. Allora il Buddha dettava il rimedio: lo Zazen e nello stesso tempo suggeriva come riarmonizzare il proprio stile di vita con l’Ordine Cosmico, i precetti.
Shō: è tradotto con Risveglio o Realizzazione. Se analizziamo il carattere vediamo che il radicale di sinistra rappresenta il parlare, la parola, e quello di destra rappresenta il giusto. Quindi La parola che esprime ciò che è giusto, la prova, l’evidenza. L’espressione Risveglio ricorre costantemente nell’Insegnamento del Buddha. Si vive nel sonno e come zombie perpetuiamo meccanicamente azioni per cui siamo programmati. Tutt’altro che liberi agiamo e re-agiamo costantemente spinti dalla corrente generata da ira, brama, ignoranza (i Tre Veleni) e dal nostro Karma. Praticare lo Zen significa de-programmarsi, smettere di agire sulla base dei condizionamenti. E questo Risveglio coincide con l’esercizio stesso (ancora Shushō Ichinyo). Lo Zazen è pratica sul Risveglio.
Gi: Si traduce con Principio, con un’accezione che attiene al dovere, alla lealtà (Gi Ri). Ovvero la pratica, la vera pratica, inizia quando realizziamo la ricchezza e la profondità della nostra vita e ci sentiamo chiamati alla restituzione di un debito.
Render grazie e la pietà son l’esercizio senza fine d’ogni giorno. (ogni istante della nostra vita è prezioso) Nell’oblio di sé Non c’è giorno che non sia un buon giorno.”

Shushōgi cap.V

Questa è la Pratica, non c’è pratica senza questa gioia del ‘render grazie’, la commozione costante di fronte alla rarità e preziosità di ogni singolo istante. 
Questo ‘oblio di sé’ ha tutt’altro che un’accezione nichilistica. 
Si tratta di abbandonare il nostro ‘piccolo io’ generato e nutrito dalla nostra illusione, dalla nostra ignoranza. L’abbandono del ‘piccolo io’ è possibile soltanto quando si comincia a restituire, si abbandona la presa che trattiene e argina la vita, quando ci spende donandosi. Allora la vita in tutta la sua grandiosa potenza fluisce liberamente attraverso di noi. La pratica religiosa è proprio questo abbandono, questo lasciarsi attraversare dalla meraviglia, lo Zazen è pratica ‘pentecostale’, si attende, aperti al mistero. 
Nell’abbandonare la ‘piccola mente’ lasciamo che si manifesti, attraverso la nostra forma che è azione, la ‘Grande Mente’, la Mente del Buddha.
Da Budhha a Buddha altro non si trasmette che questa mente: 
Shakyamuni Buddha altro non è che questa stessa mente.” Shushōgi cap.V 
Dunque traduzione del termine Shushōgi è ‘Sul Principio della Realizzazione in Esercizio’ .
Ovvero, nella versione recitabile elaborata dal Maestro Taiten: 

Dei Principi dell’Esercizio nel Risveglio’, che esprime bene il concetto poc’anzi descritto della pratica come espressione del Risveglio e non il Risveglio come effetto successivo all’esercizio.
Nell’esercizio la Realizzazione e a sua volta il Risveglio non può essere espresso altrimenti che attraverso l’esercizio. 
La prassi, dice Dogen Zenji, è matrice del bene:
Il bene non è esistenza, non-esistenza, vacuità o forma: è solo prassi; indipendentemente dal luogo e dal tempo in cui viene realizzato, esso è prassi.” Shōbōgenzō Cap. 31 Shoakumakusa
 Il Bodhisattva è dunque ‘azione risvegliata’. Ma questo è comprensibile ed esperibile solo attraverso la pratica.

Veniamo ora al primo capitolo dello Shushōgi: Sōjo
Sōjo può essere tradotto con ‘Introduzione Generale’ ma i caratteri forniscono anche l’accezione di ‘Mutamento di prospettiva’ suggerendo come si entri nella pratica solo nel momento in cui siamo in grado di mettere in discussione le nostre certezze, il modo in cui conduciamo la nostra vita. 
La pratica religiosa si fa beffe delle esigenze umane. Si tratta di far esprimere l’Ordine Cosmico’ attraverso la nostra vita. Qualcuno ha definito lo Zen come l’università della Religione. Senza nulla togliere all’aspetto popolare e consolatorio delle religioni, lo Zen punta direttamente al nucleo fondamentale dell’esperienza religiosa, ed è per questo che la sua radicalità è difficile da digerire dalla massa che ricerca nella religione conforto e conferma delle proprie convinzioni.
Chiarire del nascer,morire la causa ed il caso è la grande prima questione di chi del Buddha segue ‘l Sentiero”.
Il capitolo si apre ponendo la Grande Questione, Dai Ji. Anche l’Hagakure, il testo Samurai, che raccoglie gli insegnamenti del monaco Zen Sōtō, già Samurai, Yamamoto Tsunetomo, si apre con l’affermazione: ‘La Via del Samurai è morire
Porsi di fronte alla morte diviene il catalizzatore che fa cadere istantaneamente l’illusione, l’attaccamento, permettendo così di abbandonare quella ‘timidezza’ con la quale abitualmente viviamo. La questione del nascere-morire non è altro che la consapevolezza dell’impermanenza, a partire da questa la vita può essere vissuta pienamente. 
Porsi di fronte al nascere-morire è Zazen.
La casa è in fiamme, e molti cercano di fuggire usando carri diversi. Costoro devono fermarsi e pensare: dove posso andare ? Fuggire elimina davvero il pericolo rappresentato dalla casa in fiamme? Se solo costoro si fermassero nel vicolo e osservassero la casa che brucia, ne trarrebbero una profonda conoscenza della vita, e il vicolo diventerebbe il Picco del’Avvoltoio: un luogo in cui si impara e ci si addestra.” Shōbōgenzō cap. 90 Hokke Ten Hokke
Questo passaggio dello Shōbōgenzō è una perfetta descrizione dello Zazen. 
La casa in fiamme è la nostra mente illusa dalla quale si pensa di poter fuggire saltando su veicoli diversi, che non sono altro che distrazioni dal problema fondamentale del nascere-morire.
Fermarsi e osservare (Zazen) è l’unico modo per sfuggire veramente al rogo.
 Si tratta pertanto di rimanere lì dove vita-morte si manifestano apprezzando pienamente la rara e preziosa occasione data da ogni singolo momento.
E’ il vivere qui ed ora che ci fa nati. In ogni momento dobbiamo rinascere e in ogni momento morire. In ogni momento rinascere e la forma che assumiamo è la nostra pratica. 
Nella vita essere totalmente vivi nella morte totalmente morti. La morte si conosce solo da vivi. Il legno non può conoscere la propria cenere afferma Dogen Zenji. 
Con la morte non c’è cosa che non muoia e il Buddha ha insegnato come vivere da vivi, come spendersi fino in fondo vivendo.
Nasciamo e moriamo continuamente attraversando i sei regni dell’esistenza (Rokudō): L’Esistenza Infernale, quella dei Preta, gli spiriti avidi e affamati, l’esistenza animale e quella umana, l’esitenza guerriera e quella celeste. 
Osservare e divenire consapevoli del processo del nascere-morire che si manifesta in ogni istante è l’occasione della percezione della Legge del Karma.
Questa presa di coscienza permette di comprendere che non esiste azione anche quella apparentemente più quotidiana, banale o intima, che non produca dei frutti, degli effetti, con una risonanza universale, che si manifesta nel presente e nel futuro. 
Ecco perché nella ‘vita Zen’ si dà tanto rilievo alle semplici azioni quotidiane.
Una volta il mio Maestro, osservando le ciabatte lasciate disordinatamente dagli ospiti intervenuti all’incontro domenicale, disse: “queste persone nel togliere le ciabatte, distrattamente, hanno pensato che la loro vita fosse oltre quelle ciabatte, altrove, in altro tempo e luogo…
“Non due,tre, ma una sola è la vita. Peccato coltivar Un’erronea visione. 
Non basta pensar di non far male o di far bene: soggetti si è del Karma comunque, scusa non c’è per chi ‘l giusto non vede." Shushōgi cap. 1



Non basta pensare di non fare del male o di far del bene, se la nostra mente non è in grado di ‘vedere la realtà’ non abbiamo possibilità di distinguere tra bene e male, che sono comunque contingenti.
Attraverso la pratica si perde la capacità di compiere il male perché: 
Colui che è capace di una percezione totale può vedere tutti i dharma, dunque, può vedere un solo dharma come per esempio un granello di polvere, e conoscere il mondo intero.” E ancora: “Il bene non è esistenza, non-esistenza, vacuità o forma: è solo prassi” Shōbōgenzō cap. 31 Shoakumakusa
Il bene è dare la giusta importanza a ciò che di momento in momento siamo chiamati a fare dice il rev. Yaoko Mizuno. E’ l’orecchio a questo richiamo che dobbiamo riaffinare attraverso la pratica. Alla domanda di Hakurakuten: ‘qual è l’essenza dell’Insegnamento del Buddha?’ Il Maestro Dōrin rispose: 
Non fare alcun male, pratica tutto il bene, purifica la mente.
D’ogni Buddha questo è tutto l’Insegnamento’ 
La chiave del ‘non fare il male e praticare il bene’ è in quel ‘purifica la mente’ che non è altro che l’esercizio d’ogni giorno.

Fine prima parte 


© Tora Kan Dōjō






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domenica 22 dicembre 2019

Esprimi Pienamente te stesso



Quando vivi completamente in ogni singolo istante, senza aspettarti niente, non hai alcuna idea del tempo. Se sei coinvolto in un' idea di tempo - oggi, domani, l'anno prossimo - ecco che la tua pratica si fa egoistica. Gli svariati desideri cominciano a comportarsi in maniera riprovevole. Se ti preoccupi di quale sarà il tuo prossimo passo, cercando di diventare qualcun altro, perdi la tua pratica e perdi la tua virtù; quando sei fedele alla tua posizione o al tuo lavoro, ecco il tuo vero essere. Questo è un punto molto importante.
La pratica procede senza alcuna idea di tempo; attimo dopo attimo, si diventa se stessi. Questa pratica non è così facile. Ti costerà un grande sforzo. Poi ti puoi esercitare a prolungare questo sentimento istante dopo istante. Alla fine si estenderà alla tua vita quotidiana.
Il modo per estendere la tua pratica è esporti così come sei, senza cercare di essere qualcun altro. Quando sei molto onesto con te stesso e coraggioso quanto basta ti puoi esprimere pienamente: qualunque cosa pensino gli altri, va tutto bene. Sii semplicemente te stesso. [...]
Noi non siamo tutti uguali; ognuno è diverso e ognuno ha i suoi problemi. [...]. Quando pratichi zazen nessuno può sapere in che modo pratichi, ma per me è il momento migliore per conoscerti. Quando stai seduto faccia al muro e ti vedo da dietro, mi è particolarmente facile capire che tipo di pratica hai. E' molto interessante; se ballate o parlate o fate fracasso è piuttosto difficile capirvi, ma quando sediamo insieme in meditazione, ognuno di voi ha il suo proprio modo di sedere.
E' un grave errore credere che il modo migliore di esprimersi sia fare tutto quello che si vuole, agire come meglio piace. Questo non è esprimere se stessi. Quando hai molti modi possibili di esprimere te stesso non sei sicuro di che cosa fare, dunque ti comporti con superficialità; se invece sai esattamente che cosa fare, e lo fai, allora ti puoi esprimere pienamente.
E' per questo che seguiamo le forme. Forse pensi che all'interno di una forma particolare non ci si possa esprimere; quando pratichiamo tutti insieme, invece, le persone forti si esprimono in modo forte e le persone gentili si esprimono in modo gentile. Quando ci passiamo lungo la fila i fogli dei sutra da leggere, ognuno di voi ha un suo modo personale di farlo. Le differenze tra di voi sono facili da vedere perchè la forma è la stessa per tutti. E ripetendo più e più volte la stessa cosa, alla fine riusciamo a capire il modo di essere degli amici che abbiamo intorno.
Senza questo genere di pratica le tue relazioni con le persone rischiano di essere molto superficiali.
Se un monaco indossa un abito magnifico pensate che debba essere un bravo monaco. Se uno vi dà un oggetto bellissimo, pensate che sia molto gentile, che sia una persona meravigliosa. Questo genere di comprensione non è poi così buona.
Di solito la nostra società funziona in modo superficiale, frivolo. [...]. Essere semplicemente se stessi ed essere pronti a comprendere gli altri è il modo giusto per estendere la pratica alla vita quotidiana. Noi non sappiamo quello che succederà. Se non vi esprimete pienamente in ogni momento, più avanti potreste rimpiangerlo: quando vi aspettate di avere ancora un certo tempo davanti a voi, mancate l'opportunità che avete già adesso e venite fraintesi dai vostri amici.
Non aspettate a esprimervi pienamente!

Shunryu Suzuki Roshi



© Tora Kan Dōjō


















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mercoledì 18 dicembre 2019

Zanshin, lo spirito che permane




'Zanshin' è lo spirito che abita senza attaccarsi, lo spirito che rimane vigile.

Ci si prende cura dell'azione e si resta attenti a ciò che può sopraggiungere in seguito.

C'è per esempio, un modo 'zanshin' di chiudere una porta, di posare un oggetto, di mangiare o di condurre un'automobile, e anche di restare immobile.

Si posano gli oggetti con cura, si rallenta il proprio movimento una frazione di secondo prima di chiudere una porta, in modo da non farla sbattere.


Taisen Deshimaru Roshi


© Tora Kan Dōjō



















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domenica 15 dicembre 2019

Distogliersi da sé stessi




Per indicare la completezza fondamentale che non manca di nulla, Touzi disse: «Nel momento stesso in cui hai deciso di venire, hai già meritato un colpo». Questa non è una prova dell'illuminazione. Non appena si cerca di scoprire che cos'è la mente, che cos'è Buddha, ci si è già distolti da se stessi per rivolgersi a un altro. Anche se siete in grado di dire da voi stessi che tutto è svelato e naturalmente chiaro, anche se parlate di mente, di natura, di Zen e della Via, niente di tutto ciò è libero da sforzo. Se c'è uno sforzo, ci sono nuvole per diecimila miglia: vi siete già allontanati molto da voi stessi". Daokai era entrato in monastero e un giorno andò a parlare con il maestro Touzi. A una domanda di Touzi, Daokai stava rispondendo, ma Touzi lo anticipò colpendolo con uno scacciamosche e dicendo la frase che è riportata in questo brano che abbiamo letto. Così Daokai si illuminò.
La prova dell'illuminazione è la cessazione della necessità di andare o venire, di chiedere o di ribattere. Cosa c'è dietro la ricerca? Una domanda. L'assenza della domanda è l'assenza della ricerca. E l'assenza della ricerca è l'assenza dell'ego. È fondamentale la comprensione di questo punto. Perché l'assenza della ricerca è anche assenza dell'ego? Il fatto è che l'ego è il principio del dualismo stesso: a causa dell'ego ci sono io e ciò che è altro da me. Allora c'è la frammentazione della realtà, la divisione, la mancanza, la frattura e quindi il bisogno di una ricomposizione. Inizia il processo della ricerca, del domandare, dell'accattonare ciò che riteniamo poterci condurre alla ricomposizione della nostra unità, di una originaria interezza. Quindi dall'ego alla ricerca. Ma perché se non ricerco più, non c'è più ego? Potremmo pensare, invece, - e di solito così si ritiene – che l'ego continui a sussistere. Tuttavia è bene indagare la questione con maggior cura. La cosa decisiva è che qui stiamo parlando di un abbandono del domandare, del ricercare, e non di uno sforzo atto a bloccare la domanda che è già dietro alte nostre labbra; non è un costringersi a non tradurre quelli che sono i nostri numerosi e opprimenti pensieri relativi alla ricerca stessa e alle loro possibili soluzioni.
C'è l'abbandono della ricerca e c'è la resistenza alla ricerca. Il primo va praticato, mentre la seconda è un incubo. Abbandono della ricerca è alleggerimento, è la conclusione rilassante del domandare. La resistenza invece è solamente repressione, ulteriore violenza, auto-castrazione. Gli esiti di questi due atteggiamenti saranno altrettanto distanti: con la resistenza si giungerà all'inasprimento della tensione e quindi all'accrescimento della necessità della ricerca, al rafforzamento dell'ego; con l'abbandono si verrà condotti a uno stato di pacatezza, di distensione, di posatezza. Soprattutto: mediante l'abbandono della ricerca vi sarà un processo silenzioso e spontaneo di ritorno a sé. È spontaneo: non è che prima vi sia questo abbandono e poi il ritorno a sé; no: l'abbandono è esso stesso ritorno a sé. Ed è questo processo la resa stessa dell'ego. Rilassatezza: questa è una parola oramai molto banale, strausata, abusata. Ma può farci intendere la differenza di cui qui stiamo parlando. E come quando usciamo all'aperto in un giorno di freddo: una cosa è il corpo che, in una condizione di dimenticanza e di reattività, si contrae; un'altra cosa è il corpo che, presente e libero, permane nella sua condizione di rilassatezza. Che non è resistenza. Nell'abbandono c'è questo rientrare, c'è questo rincasare. Non c'è più due, ma uno. Ed è un recuperarsi che è anche uno sfumare, un dissolversi. Quando non c'è più dualità, quando non c'è più differenza, quando c'è solo unità, completezza e non- mancanza, allora è evidente che questa compiutezza sia silenzio, vuoto, assenza, non essere. È un fiducioso perdersi, un rigenerante abdicare, è quel retto lasciarsi, quel non aversi più, che è opposto allo scoramento, all'abbattimento e alla disperazione. È la fine dello sforzo: lo sforzo produce le nuvole, l'impegno genera ulteriori ostacoli, la tensione affatica; l'abbandono invece fa riemergere questo spazio pulito, semplice, riposante. Solitamente termini come conquista, cura, padronanza sono ritenuti contrari all'abbandono. Qui no.

Keizan Zenji (XIII sec)



© Tora Kan Dōjō



















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