venerdì 27 settembre 2024

Il segreto dello Zen

"Nel mondo in cui viviamo, tale insegnamento è difficile da seguire: solo coloro che hanno ereditato un buon Karma ne sono gli eredi, ne possono misurare la portata e l'importanza. Forse penserete che questa Regola sia troppo rigida, tuttavia in essa risiede l'aspetto più profondo e più alto del Buddhismo Mahayana. E' il vero Zen, così come lo ha trasmesso il Buddha. E' il segreto dello Zen, poiché è solamente nella pratica vissuta, quotidiana, che si realizza veramente il Dharma, il vero Spirito dei Maestri. Se vi accontentate di una trasmissione intellettuale, superficiale, il vostro studio sarà ben poco efficace. Ma se comprenderete attraverso la pratica regolare e fedele delle mille azioni della vita di ogni giorno, comprenderete esattamente attraverso tutto il corpo e tutto lo spirito, e potrete progredire."


Dal commento del Maestro Taisen Deshimaru al Tai Taiko Gogejari Hō

(capitolo dell’ Eihei Shingi) di Dōgen Zenji


© Tora Kan Dōjō











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domenica 8 settembre 2024

Il valore del Tempo

 


Il tempo ci viene tolto o sottratto, quasi a nostra insaputa, oppure ci sfugge non si sa come. 

E la cosa più indecorosa è perderlo per trascurata leggerezza. 

Prova a pensarci: gran parte della vita ci scappa via mentre agiamo in modo sbagliato, la maggior parte mentre stiamo senza far niente, e l'intera esistenza trascorre in occupazioni inutili e che non ci riguardano veramente. 

Trovami, se sei capace, uno che dia al tempo il giusto valore, che capisca quanto può essere importante una giornata, che si renda conto che noi moriamo un po' ogni giorno! 

Perché questo è il punto: noi pensiamo alla morte come a qualcosa che sta davanti a noi, mentre in gran parte è già alle nostre spalle: tutta l'esistenza trascorsa è già in suo potere. 

Voi vivete come se doveste vivere sempre, non pensate mai alla vostra fragilità, non volete considerare quanto del vostro tempo è già trascorso; buttate via il tempo come se lo attingeste da una fonte inesauribile. 

Preso nel vortice degli affari e degli impegni ciascuno consuma la propria vita, sempre in ansia per quello che accadrà, e annoiato di ciò che ha. 

Chi invece dedica ogni attimo del suo tempo alla propria crescita, chi dispone ogni giornata come se fosse la vita intera, non aspetta con speranza il domani né lo teme. 

Nessuno ti restituirà i tuoi anni, nessuno ti restituirà un'altra volta a te stesso; il tempo andrà per la via su cui si è incamminato, e non tornerà indietro, nè arresterà il suo percorso; non farà rumore, non ti avviserà della sua velocità: scivolerà via silenzioso. 

Cerchiamo dunque che ogni momento ci appartenga: ma non sarà possibile, se, prima, non cominceremo noi ad appartenere a noi stessi.

Seneca

© Tora Kan Dōjō

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giovedì 15 agosto 2024

Narita Shuyu Rōshi ricorda il Maestro Kodō Sawaki

Narita Shuyu Rōshi (1914-2004), Abate Fondatore di Fudenji, ricorda il Maestro Kodō Sawaki
Brano tratto dal libro pubblicato il 1° luglio 1967 nella collana “Daihorin”, serie completa dei libri sul Maestro Kōdō Sawaki, Allegato I, testimonianza dei suoi discepoli.

IL RIMPROVERO: Il mio primo incontro con il Maestro risale al mese di aprile del 1935, quando arrivai all’università di Komazawa, dove, in effetti, arrivammo contemporaneamente. A quell’epoca, in quell’università costruita dalla setta Sōto, non vi erano insegnanti in grado di dirigere l’autentico Zazen trasmesso. Questa situazione, in un’università superiore per l’insegnamento del Maestro Dōgen, non soddisfaceva affatto gli studenti del primo anno. Questi insistettero energicamente presso il rettore, il sig. Omori, affinché invitasse ad ogni costo a Komazawa il Maestro Sawaki, che a quel tempo insegnava lo Zazen con fede e coraggio nella provincia di Kumamoto di Kyushu.

Il fatto che un semplice monaco Zen senza notorietà né posizione fosse invitato come professore nella maggiore Università costruita dalla setta Sōto, era per quel tempo qualcosa di inedito e di eccezionale.

Date le premesse, l’incontrarlo fu per me una gioia immensa.

Il Maestro alloggiava nel dormitorio degli studenti ed instancabilmente faceva la spola fra l’Università e i Templi, come Sōjiji, il lunedì, il martedì ed il mercoledì.

Io allora non ero che un semplice studente impegnato nella ricerca spirituale ed intellettuale; soffrivo ideologicamente soprattutto per i problemi riguardanti la vita ed ero alla ricerca di qualcosa di non ben definito.

Osservando per la prima volta le caratteristiche del Maestro, provai un sentimento d’intimità profonda e fui naturalmente attratto dalla sua personalità che ispirava fiducia e suscitava energia e forza, attraendo ciascuno.

Le attività della scuola cominciavano alle cinque del mattino. Il Maestro si sedeva da solo verso le 4, senza mai sapere chi avrebbe partecipato allo Zazen. Io ero uno di coloro che vi prendevano parte ma, anche se andavo allo Zazen molto presto, il Maestro era già seduto: questo acuiva inevitabilmente il mio spirito di competizione. Un giorno decisi di alzarmi verso le tre: non c’era nessuno, “bene, ecco fatto!”.

Mi sedetti, quindi, su uno Zafu posato sullo Zaniku (cuscino imbottito di forma quadrata) di fronte alla statua di Buddha, senza ben sapere che cosa fosse lo Zazen o il comportamento da assumere nel Dojo.

Trascorsi 15 o 16 minuti, una voce proveniente dal cielo mi inchiodò e mi raggelò di spavento: “Che cosa stai facendo imbecille, nessuno si è mai seduto in Zazen in quel posto lì!”.

Più tardi mi invitò nella sua camera, mi offrì del the e dei dolci e mi spiegò con infinita pazienza la posizione e le regole da osservare nel Dojo.

Ancora oggi sudo freddo al solo pensarci. In seguito lo Zazen mi convinse completamente e divenni suo discepolo, il che mutò l’indirizzo dei miei studi.

Di tanto in tanto, ricordandosi della mia disavventura, il Maestro diceva sorridendo ironicamente: “Quel ragazzo lì, che non sapeva niente, si è seduto sullo Zaniku di fronte a Buddha; è stato sgridato, ma io gliel’ho fatta una volta per tutte dandogli il mio Kolomo”. Ogni volta arrossivo della mia sprovvedutezza giovanile.

DIVENTARE DISCEPOLO DEL MAESTRO:  Rapidamente i miei rapporti con il Maestro divennero sempre più profondi ed io mi affezionai molto a lui, il che fece desistere mio padre dal trasmettermi il suo Dharma, permettendomi così di diventare discepolo del Maestro e di ricevere il suo Shihō.

A quel tempo il Giappone era coinvolto in una violenta guerra in Manciuria e in Cina. Dopo la laurea mi ero recato a vivere presso il Maestro nel tempio Sōjiji della setta Sōto, ma trascorso un anno, fui richiamato sotto le armi: egli allora mi invitò a un colloquio personale nella sua camera e mi diede il suo “SAN IE” (tre piccoli Kesa, cuciti dalla monaca Sumi) come portafortuna, invece del tradizionale “Senibali” (pezzo di stoffa consegnato al giovane che parte per la guerra, cucito da mille persone).  Prendendomi le mani, mi incoraggiò: “Abbi cura di questi SAN IE: essi ti proteggeranno sempre”.

Dovetti inoltre partecipare attivamente alla guerra fra il Giappone e la Russia, ma li portai sempre con me, in tasca durante i combattimenti in Cina, e penso che mi abbiano veramente protetto. Oggi li conservo nella mia camera, strappati e forati dai colpi di fucile.

Il Maestro spiegava sempre il “Kesa Kudoku”.

Dopo che fui tornato dalla guerra, ebbi ogni anno la meravigliosa opportunità di ricevere le sue spiegazioni ed i suoi commenti dello “SHŌBŌGENZŌ” per cinque o sei giorni a partire dal 22 luglio, instancabilmente ogni estate.


© Tora Kan Dōjō

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domenica 14 luglio 2024

Uno spillo nell'oceano

Insegnamento offerto da Taigō Spongia Sensei presso il Tora Kan Dōjō durante la Pratica Zen e pubblicato nel libro : 'La Forma del Vuoto: Riflessioni su Zen e Arti Marziali' di Paolo Taigô Spongia ed. Mediterranee disponibile per l'acquisto in tutte le librerie e online:






Kōshō Uchiyama Roshi, già discepolo di Sawaki Roshi, abate di Antai-ji, definiva la Pratica dello Zazen con una frase giapponese che aveva coniato: 'Omoi no o tebanashi'. 
‘Omoi’: pensiero, 'te': mano, 'no o tebanashi': aprire la mano, lasciare la presa. 
Può essere tradotto con 'Aprire la mano del pensiero'. È una definizione a mio parere, molto azzeccata. 
Cosa significa 'Aprire la mano del pensiero'? 
Intanto, il carattere ‘Omoeru’ '思' che significa 'pensare' o 'pensiero', ha al suo interno dei radicali che rappresentano un campo dalle cui profondità si sviluppano delle erbe di vario tipo; può essere l'immagine di un campo di riso nel quale nascono e crescono vari tipi di erbe oltre al riso... ed è quello che accade nel terreno della nostra mente. 
E perché aprire 'la mano del pensiero'? 
Se vi osservate in Zazen, se osservate la vostra mente, se osservate i vostri pensieri, vi accorgerete che la mente ripercorre sempre gli stessi percorsi, quasi mai si produce un pensiero originale. 
Il pensiero sorge, ordinariamente, sulla base dei condizionamenti, delle esperienze vissute, delle memorie, e quasi mai è un pensiero fresco, intuitivo, sorprendente. 
In qualche modo, anche se non ce ne accorgiamo, esercitiamo un controllo sul pensiero, e questo controllo, questo filtro in realtà non fa altro che produrre altro pensiero condizionato.
Allora 'aprire la mano del pensiero' significa: concentrati sulla postura e sul respiro, abbandonare questa presa, lasciar cadere questo filtro. 
In un passaggio dello Zuimonki, Dōgen Zenji rispondendo alla domanda di un allievo riguardo alla Pratica, risponde: 
"La Pratica del Buddhadharma è solo sedere, esclusivamente sedere. Non cercate altro al di fuori di questo"... molto radicale in questa sua risposta. 
Perché la Pratica del Buddhadharma è conoscere se stessi, e conoscere se stessi è nell’essere ‘solo seduti’ (Shikantaza). 
Siamo attratti irresistibilmente dalle pratiche che ci offrono consolazione e distrazione, che ci offrono tanti giocattoli con cui distrarci... guardatevi intorno, oggi è pieno di queste offerte.
Oggi più che mai le persone cercano distrazione, ma la Pratica non è mai distrazione.
Pratica è immergersi completamente nel 'problema del nascere e morire' in maniera impellente, radicale. 
Sedere in Zazen non è facile, essere di fronte a questo muro per tanti anni, giorno dopo giorno, eppure... eppure è tutto lì. 
Tornare alla nuda essenza della nostra mente, attraverso la postura ed il respiro come punti d'osservazione, senza giocattoli (altra definizione che amava Uchiyama Roshi: ‘Zazen senza giocattoli’) senza distrazioni. 
È per questo che è una pratica molto matura e asciutta, per tutti e per nessuno. 
Bisogna essere davvero determinati ad andare al nocciolo della questione fondamentale della nostra vita senza distrazioni e senza girarci intorno. 
Deshimaru Roshi diceva "È prendere la via diretta per la cima della montagna, senza disperdersi passeggiandoci intorno". 
Quindi se vi sentite chiamati dallo Zazen non perdete questa opportunità.
Se vi sentite chiamati nonostante tutte le resistenze e le difficoltà che possiate incontrare, che sono fisiologiche e assolutamente normali, vuol dire che il vostro Karma vi ha predisposto a questo Incontro. Non perdete questa opportunità, non torna più... 
Dōgen Zenji fa degli esempi molto esplicativi della rarità di questo incontro: "Incontrare il Buddhadharma è così raro come trovare uno spillo in un oceano." E quindi esorta: "Non perdete questa occasione".


(registrazione e sbobinatura a cura di Monica De Marchi)

© Tora Kan Dōjō

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giovedì 27 giugno 2024

L'estetica del fare

 

Si dice che Socrate avesse voluto più di una coppa di veleno per sacrificarne una parte al cielo, ma ci sono gesti che né la terra né il cielo possono contenere, che non si arrendono alla natura né agli uomini, ci sono favole che nessuna biografia può contenere né imprigionare, “Roba vecchia di una volta”, qualcuno potrebbe pensare. 

Difficile da dire, ma senz’altro roba di un altro mondo, molto più vicino, però, a questo nostro mondo, dove può sempre accadere di sentirsi uniti, compagni, fratelli, sorelle, padri, madri, maestri, allievi. 

Le onde non sono mai abbastanza alte né paurose per chi le sa guardare in faccia. E solo una tavola consente di cavalcarle, la tavola della via maestra, quella che ci fa sentire sullo stesso cammino e potrebbe far dire a qualcuno “Ricordo anche voi quando eravate ragazzi. Sembra un sogno….”. 

A Cesare Barioli, che ho incontrato nella sua casa natale di Milano, ho chiesto di scrivere del mito e della sua poesia…

Fausto Taiten Guareschi

Caro Fausto, chiedendo di parlare della Via mi fai ringiovanire. E mi chiedo se la memoria non mi inganna e quello che racconto non sia fantasia… C’era stata la Guerra. Crescevo tra le infamie del dopoguerra e l’entusiasmo della ricostruzione. Io scoprivo il mondo, ma tutta l’Italia scopriva una diversa maniera di vivere. Venivo da un gruppo scout che aveva patito quattro morti in sei mesi: a imitazione di Cristo, Akela insegnava la sofferenza per salvare l’anima e io mi ribellavo, sognando di introdurre il judo francese nello scoutismo. Ma capitai tra i terzo-internazionalisti dell’Associazione Proletaria di Educazione Fisica e conobbi degli uomini di fede, come Attilio Maffi, medico che curava gratuitamente i braccianti nell’Oltre-Po, e il vigile del fuoco (Maestro di Jūdō) Emilio Roveda che era stato torturato dai nazisti a Villa Triste e poi si autoaccusò del furto commesso da un altro pompiere perché il colpevole aveva famiglia, mentre lui era scapolo. Accettò il disonore di degradazione ed espulsione per non condannare alla fame della disoccupazione una famiglia…

Insomma, quando mi venne spiegato che era importante vincere ad ogni costo (avevano un poco il mito della classe operaia), mi ribellai e cominciai a fare di testa mia. La crisi mi colse al primo Campionato regionale. Ero in finale all’italiana con Bozzini della Pirelli e Angelo, mio compagno di Società, e proiettai facilmente il primo, ma Angelo ci perse. Allora ricevetti ordine di perdere con Angelo perché, con una vittoria e una sconfitta ciascuno, la classifica si sarebbe risolta al peso col risultato di Angelo primo, io secondo e l’atleta della Pirelli terzo. Lo feci. Ma la morale proletaria della vittoria di squadra non faceva per me. E neppure la sconfitta. Mi trovai ad andare in gara, rifiutando questi obiettivi: nel combattimento di judo ritenevo perseguibile la bellezza del gesto e null’altro. Mi consideravano strano, ma raggiunsi la fama di tecnico. E quando andai in Nazionale, i romani mi accusarono ‘di non combattere per l’Italia’. Ed era vero. Io vincevo le selezioni e loro mettevano in squadra il secondo classificato. Inutilmente li sfottevo dicendo che papà aveva vinto un’importante competizione a squadre chiamata Prima Guerra Mondiale, mentre io andavo ai Campionati Europei a fare judo: loro erano combattenti-agonisti e ritenevano di portare gloria al Paese.

Nel ’55 lessi su Illustred Kodokan Judo: “Il primo piede sulla Via è posto quando sono superati i concetti di vittoria e sconfitta”. Poi Kano allude al judo come gyo, esercizio ascetico dei monaci (sanscrito ‘sanskara’). Diedi fiducia a queste parole. Supposi che potessero ispirare la vita e, quando smisi l’attività agonistica, il mio avversario era il mondo, ma in palio non c’era vincere ad ogni costo, ma la bellezza dell’azione e l’estetica del fare.

C’era il gesto semplice di portare il cucchiaio alla bocca e quello complesso di donare ogni avere a qualcuno che ne avesse bisogno. Così ero pronto alla possibilità di morire se fosse capitata l’occasione. Ma non avvenne. Forse ebbi paura di andare in Vietnam, ma da una parte o dall’altra della guerra l’occasione di donare la vita l’avrei trovata. Non lo feci, con la scusa di studiare quanto Kano Jigoro aveva nascosto nei kata… Avevo la proibizione di parlare della Via.

Perché l’allievo valorizza le sue qualità arrivandoci da solo. Solo due volte mi trovai scoperto: una volta a pranzo dall’ingegner Rosemberg, maestro dell’arco da guerra. Lui comprese perfettamente il mio stato di essere quando presi una posata per mangiare e io sono arrossito per il riconoscimento che mi ha dato, segnalandolo alla moglie. Ma l’ingegnere era uomo della Via. La seconda volta è stata quando Marcello Bernardi ha scritto: “Apro una seconda e minuscola parentesi. Trovo che Cesare sia ammirevole non solo per le sue qualità morali, ma anche (forse meno nobilmente) per le sue doti estetiche, che si esprimono nell’armonia. Quando pratica il judo sembra che voli e anche quando non fa judo mantiene l’eleganza in ogni suo gesto. E anche questo mi sembra un nuovo e importante contributo educativo ad un mondo che di estetico ormai ha ben poco” (Corpo mente cuore, 1998). Marcello faceva judo, ma non gli avevo parlato dell’estetica. Lui ci è arrivato da solo, favorito anche da una profonda cultura classica.

Com’è che avevo la proibizione di parlare della Via? Non potevo spiegare ai miei agonisti che la strada immediata per arrivare a Il Miglior Impiego dell’Energia e quindi proseguire per Amicizia e Mutua Prosperità, consiste nel provare la bellezza del gesto e perseguirla fino a disporne nella quotidianità? Beh, agli agonisti era presto: loro credevano solo alla vittoria in gara e valutavano un uomo dalle orecchie a carciofo.

Non potevo dire che l’estetica introduce al Miglior Impiego dell’Energia, e che poi Amicizia e Mutua Prosperità sgorga dall’estetica conquistata?

No. Certe cose si tacciono. L’allievo sincero le assimila dall’insegnamento silenzioso. E non subito. Deve superare shobu-judo: il judo da combattimento; risolvere rentai-judo: essere sani per essere utili. Solo dopo si affronta sushin-judo: la morale del nuovo periodo dell’Umanità.

E quando l’allievo è arrivato a quel punto si tace, perché non vi è nulla da dire. Ch’io sappia in otto ci arrivarono ed hanno una mia lettera che inizia: “Ho tutto dato a…”. Solo se le circostanze mi avessero convinto che il messaggio autentico di Kano fosse in pericolo, avrei potuto parlarne apertamente, e questo avvenne venticinque anni fa quando ho cominciato a rivelare i kata.

Cesare Barioli e Taiten Guareschi

Ho fatto fatica ad andare contro-corrente, tutti i miei vecchi compagni mi hanno disprezzato, ma il più è passato e ormai ci sono giovani che masticano le Forme di Kano Jigoro.

E allora, da qualche anno, ho cominciato a raccontare l’altra-estetica, qualcosa che è da fare, non da apprezzare perché l’ha fatta un altro. Parlo di un’estetica che non ha conferma in Kant, Croce o Adorno. E mentre i judoisti italiani mi guardano sempre strano e gli insegnanti di scuola cercano di strapparmi un giudizio sulla Gelmini (vorrebbero che io dicessi che non segue la Via..), trovo qualche spazio, qualche critica e qualche antagonista all’estero e concentro le poche forze in Congressi e Tavole Rotonde, come quella che radunerà a Pasqua in Romagna persone di tre continenti a discutere che ‘il futuro è un drammatico confronto tra l’educazione (la Via) e il caos. Caro Fausto, ho cercato di riassumere qualcosa che richiede mezzi, tempo e spazio superiori a un articolo. Probabilmente confondo il lettore. Ma l’essere umano ha diritto all’azione, non al risultato. Magari qualcuno un giorno troverà riscontro nelle mie parole.

Cesare Barioli 

Tratto da Notiziario Zen - Fudenji

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mercoledì 19 giugno 2024

Essere forti per essere utili


Tratto dal libro : 'La Forma del Vuoto: Riflessioni su Zen e Arti Marziali' di Paolo Taigô Spongia ed. Mediterranee

disponibile per l'acquisto in tutte le librerie e online: https://www.amazon.it/forma-vuoto-Riflessioni-arti-marziali/dp/8827232230/





Il grande Jigoro Kano Sensei affermava che l'obiettivo primario della nostra Pratica dell'Arte Marziale è quella di 'ricercare il miglior impiego dell'energia' Seiryoku Zen'yo 精力善用
e lo facciamo 'perchè il beneficio sia mutuo e reciproco' Jita Kyoei
自他共栄.
E riassumeva questi due principi nella massima:
'essere forti per essere utili'

Cerco di insegnare ai miei allievi e di mettere in pratica nella mia vita che allenarsi strenuamente solo per affermare il proprio ego è peggio che non praticare affatto.

Nella Pratica dell'Arte Marziale forgiamo la nostra mente ed il nostro corpo a quale scopo?
Solo con la finalità di doverci difendere combattendo ? (che è davvero l'ultima risorsa quando non si è stati in grado di fare altro...) Semmai dovesse capitarci, una volta nella vita ? (se vi capita più spesso dovreste chiedervi se non sono gli altri a doversi difendere da voi...).

Sarebbe tempo perso, non perchè la tecnica non sarebbe efficace ma perchè senza i presupposti di cui sopra non sareste in grado di applicarla al momento giusto e nella giusta situazione e fareste più danni che altro (soprattutto a voi stessi).

'Essere forti per essere utili' significa portare avanti il proprio compito ogni giorno, affrontando con fiducia ed energia ogni difficoltà e avere il coraggio di non distogliere lo sguardo di fronte all'ingiustizia e alla prepotenza, soprattutto quando sono espressi nei confronti degli altri, dei più deboli.
Invece di preoccuparvi solo della vostra inutile incolumità ergetevi come dei giganti di fronte all'arroganza e all'ingiustizia!

Se non avete maturato questo coraggio e quest'attitudine verso la vita il vostro aver imparato a tirare calci e pugni non ha alcun valore.

"La paura non impedisce di morire, impedisce di vivere"














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mercoledì 29 maggio 2024

Pratica è essere pronti ad accogliere l'inatteso



Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento offerto da Taigô Kônin Sensei durante la Pratica Zen.

Tratto dal libro : 'La Forma del Vuoto: Riflessioni su Zen e Arti Marziali' di Paolo Taigô Spongia ed. Mediterranee

disponibile per l'acquisto in tutte le librerie e online: https://www.amazon.it/forma-vuoto-Riflessioni-arti-marziali/dp/8827232230/


"Forma è ciò che rende una cosa bella, e permette di apprezzarne il valore raro e prezioso.

La pratica Zen ci permette di riscoprire la capacità di apprezzare e vivere la 'forma'. Un qualcosa che oggi è caduto in disuso.

La forma è un aspetto importante dell'esistenza. 
Nell'essere umano la forma nutre tanto quanto il contenuto... Anzi, direi che la forma è inseparabile dal contenuto. 

C'è una forma adeguata ad ogni istante, ad ogni momento, ad ogni situazione, ad ogni relazione.
Quello che studiamo attraverso l'esercizio nel Dōjō, mediante i  linguaggi che utilizziamo, è proprio essere capaci di percepire ed adeguare la forma a seconda di come lo richieda la situazione.
Questo significa un'esplorazione profonda di noi stessi e della nostra relazione con gli altri, con le cose, con il tempo e lo spazio... 


Senza questa consapevolezza la forma potrà essere inadeguata e diventerebbe solo il patetico ed impacciato tentativo di riprodurre un qualcosa che ci è stato suggerito ma che non abbiamo compreso, la forma perderebbe ogni contenuto. 


Spesso purtroppo la pratica Zen rischia di diventare questo senza una guida onesta, senza una ricerca critica. Un esercizio che invece di risvegliare instupidisce.

Un esercizio che invece di rendere liberi e intuitivi conduce ad attaccarsi a delle forme vuote e ottuse per rassicurarsi, l’esatto contrario della libertà e del Risveglio del Buddha.

Quando ‘allestiamo’ il Dōjō, la collocazione di ogni oggetto,  non è disposta a caso.
Ogni cosa nello spazio-tempo del Dōjō ha un senso ed un orientamento, bisogna diventare sensibili per percepirli comprendendone profondamente la natura ed il significato.

La pratica Zen è nello studio e nell'esplorazione personale di questo significato. 

II significato del situarsi di ogni cosa e di ognuno in uno spazio preciso che richiama e permette di gettare uno sguardo su una realtà 'altra'. Sono delle porte di accesso alle profondità del mistero della vita che è fatto di spazi, tempi, ritmi… che bisogna conoscere e rispettare per poter vivere armoniosamente il nostro tempo nel mondo.

La statua sull'altare, i fiori, la candela... La sistemazione degli oggetti nel Dōjō sono delle porte, delle porte di accesso ad una realtà 'altra', ad una dimensione che sfugge ad uno sguardo superficiale.
Essendo delle porte, quello che noi facciamo quando utilizziamo queste forme non è altro che predisporci ad accogliere quello che da queste porte e da questi passaggi può arrivare: ad accogliere il mistero.

La pratica religiosa e spirituale non è altro che un predisporsi ad accogliere...un predisporsi a ricevere, non una ricerca di qualcosa che desideriamo, 'a ricevere degnamente un ospite che non sappiamo né quando né da quale porta potrà entrare'.

Pratica è predisporsi ad essere pronti, sempre, ad accogliere l’inatteso.

Tratto da : 'La Forma del Vuoto: Riflessioni su Zen e Arti Marziali' di Paolo Taigô Spongia ed. Mediterranee

disponibile per l'acquisto in tutte le librerie e online: https://www.amazon.it/forma-vuoto-Riflessioni-arti-marziali/dp/8827232230/




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venerdì 10 maggio 2024

La vera salute è qui ed ora in qualsiasi condizione.

L'unico modo per 'coltivare' davvero la propria salute è imparare a conoscersi attraverso la Pratica e diventare sensibili alle sottili variazioni dell'equilibrio mente-corpo imparando a ripristinare lo stesso con piccoli, immediati aggiustamenti.

E soprattutto, come afferma il buon Nietzsche, senza pensare che il benessere possa essere trovato nel futuro, in una condizione ideale, asettica, priva di difficoltà e sforzo.

A volte dobbiamo imparare a gestire un corpo che ha subito le ingiurie del tempo o dell'avventura imparando a gestirlo con grande efficacia pur nei sui punti deboli, dobbiamo convivere col dolore pur mantenendo l'efficacia, senza trovare scuse ed anzi approfittare di questa condizione per approfondire la conoscenza di noi stessi, come un artigiano utilizza con perizia il suo strumento di lavoro preferito ormai logorato dall'uso continuando a creare con esso dei capolavori.

Lo slancio è importante, il non risparmiarsi, l'essere generosi nell'offrirsi all'azione in qualsiasi condizione ci si trovi in quel momento.

Paradossalmente è proprio nel momento in cui siamo disposti a morire nell'esprimere noi stessi, in cui ci lanciamo entusiasticamente senza riserve nell'azione, che attingiamo ad inesauribili energie e possiamo considerarci davvero sani.

Si può rimanere sani anche nella malattia...

Taigō Sensei

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