sabato 30 dicembre 2023

Il Karate a me piace così

Premessa del Maestro Paolo Taigô Spongia all'articolo:

"Qualche tempo fa un amico condivise con me  questo post del Maestro Ilio Semino che era stato pubblicato su di un gruppo dedicato alle 'arti marziali' (uno di quei tanti gruppi dove chi pratica poco parla molto...).
L'ho molto apprezzato.
Il post era evidentemente indirizzato in risposta a tutti coloro che hanno la mania dell'efficacia, della difesa personale, dei confronti tra le arti marziali, a quelli che credono che Van Damme sia un artista marziale e che l'arte marziale sia quella che vedono nei film... e che, per lo più avendo praticato poco o nulla, pontificano dall'alto della loro incompetenza e nutrono complessi d’inferiorità nei confronti di altre discipline da combattimento.
Insomma in poche parole quelli che sono rimasti alla 'fase anale' delle arti marziali, come mi piace definirla citando il buon Freud.
A beneficio di coloro che fanno fatica a capire quanto leggono premetto che l'incipit del testo è evidentemente paradossale e dà l'avvio alla provocazione.
Perchè non è affatto vero, almeno per quel che riguarda il vero karate che 'le parate non servono', 'i colpi sono finti' e ' 'i kata non servono a niente'.
Nel caso del Karate sportivo è poi verissimo che :
'le parate non servono', 'i colpi sono finti' e ' 'i kata non servono a niente'... perchè per le necessità del gioco sportivo non hanno alcun senso nella loro interpretazione marziale.”

Da questa provocazione iniziale l'autore sviluppa una splendida riflessione (tratta da karatedomagazine ) che riproponiamo qui.


Karate, a me piace cosi com’è: con le sue cerimonie, i suoi dogmi, la sua filosofia, il suo abito tradizionale, le cinture e le parole giapponesi. Le tecniche ripetute infinite volte, le parate che non servono, le posizioni inutili, i colpi che sono “finti” e i kata, che non si sa perché si pratichino, visto che non servono a niente.

Però, da oltre cinquant’anni, a me piace così e lo faccio con impegno e diligenza. Mi divertono quella specie di combattimenti dove chi attacca dice che cosa fa e l’altro para perché lo sa già; le applicazioni dei kata che sono veramente improponibili, perchè i cattivi stanno lì ad aspettare di prenderle mentre il “fenomeno” li colpisce, per finta ovviamente, con tecniche che, se fossero utilizzate sui ring o nelle gabbie, farebbero morire dal ridere il tatuato avversario di turno. A me stimolano la creatività, la fantasia, l’intuizione, anche se non servono a nulla. Mi è piaciuto praticarlo da ragazzo, perché non venivo emarginato per un mio difetto fisico, come era accaduto in altri “sport”, anzi! Esperti e competenti karateka mi sostenevano e incoraggiavano a continuare, considerandomi uno del “gruppo”, trattandomi e colpendomi in allenamento come colpivano i “normali”, senza sconti, per essere poi contenti quando i colpi li subivano loro. Mi piace insegnare Karate come l’ho imparato da Maestri che credevo inarrivabili e invincibili, che rispettavo e invidiavo e che mai avrei potuto immaginare che un giorno mi avrebbero stimato e rispettato e considerato come uno di loro. 

Conoscerlo mi ha consentito di proporlo ad altri che non credevano in loro stessi, che avevano bisogno di un esempio e di qualche cosa che li aiutasse a superare i loro disagi, fisici o sociali o psicologici e che, grazie anche a Karate, sono stati meglio e poi hanno continuato a praticarlo con entusiasmo.

Amo Karate perchè spesso mi ha consolato e ancora oggi mi consola, mi tiene compagnia, mi induce a leggere e studiare e approfondire, a migliorarne alcuni aspetti, a fare nuove conoscenze, mi stimola a essere una persona migliore, più aperta e disponibile verso gli altri… Mi riscalda il cuore.

Praticare la tecnica di Karate mi fa muovere il corpo nella maniera in cui, per età e acciacchi mi è possibile fare, senza giudicarmi, senza pretendere di più, se non la certezza del mio impegno: mi lascia decidere se dimostrare pubblicamente, con tanta fatica e molti errori, quello che sono capace di fare, ovvero mi consente di lasciare intendere di essere bravissimo, affermandolo senza farmi vedere da nessuno. A lui non importa: lascia che sia una decisione mia, una mia responsabilità. 

Non so se i miei anni di karate e tutti quegli inutili esercizi, mi permetterebbero di difendermi da un’aggressione sbaragliando il delinquente. Mi illudo che potrebbero servirmi a evitarla, a negoziare una soluzione non violenta, ovviamente, assecondando il rapinatore ed evitando che qualcuno si ferisca, sinceramente non lo so… Ma se un giorno accadesse e tutto questo non mi dovesse servire, me ne farò una ragione, consapevole del fatto che Karate non costruisce superuomini invincibili, ma cerca di far sì che le persone crescano giuste, sincere, garbate, socialmente positive e in salute per un tempo piu lungo possibile.

Maestro Ilio Semino











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domenica 24 dicembre 2023

Competizione sì, competizione no

 Competizione sì, competizione no

L’opinione del Maestro Paolo Taigō Spongia

 


Vorrei una volta per tutte chiarire il mio pensiero riguardo l'esperienza competitiva nella pratica del Karate.
Spesso sono stato molto netto nelle mie affermazioni al punto che molti hanno pensato che io sia completamente contrario alla competizione in qualsiasi forma.
Non è affatto così.
Io stesso ho partecipato fin dall'adolescenza a moltissime competizioni di Karate e poi di Kick Boxing full contact.
Nel Full Contact la mia ultima competizione fu nel 1988, quando avevo 26 anni e già fondato il Tora Kan Dojo, a Bergamo in cui mi confrontai al Campionato Italiano (vedi foto al termine dell’articolo).
Ho passato quasi tutti i fine settimana della mia giventù nei palazzetti dello sport a prenderle e a darle.
L'esperienza competitiva, specie nella fase adolescenziale, mi è molto servita per confrontarmi con le mie paure, insicurezze etc... e gareggiavo solo per quello, il risultato mi interessava molto meno.
D'altronde in quegli anni era l’unica esperienza che offriva il mondo del Karate italiano, il vero Karate di Okinawa era ancora un lontano miraggio (anche se già quindicenne ero convinto che prima o poi avrei incontrato il vero Karate che non poteva essere quello che mi vendevano allora).

Sin dalle prime esperienze di gara adolescenziali rimasi molto perplesso sia dai regolamenti, che mi sembravano estremamente limitanti nell'espressione tecnica e combattiva del Karate, sia nei confronti dell'ambiente che le federazioni avevano coltivato intorno al mondo delle gare :

- arbitri molto spesso impreparati, in genere era la pippa della palestra, quello che non era all'altezza di essere un buon agonista o un sufficiente tecnico che veniva scelto e motivato per fare la carriera arbitrale, e peraltro molti di questi si sono poi anche ritrovati scandalosamente graduati e qualificati ad insegnare per convenienze politico-federali.

- arbitri impreparati appunto e che proprio per questo subivano facilmente la manipolazione e il condizionamento dei maestroni di turno e delle politiche federali diventando degli esecutori delle ‘direttive superiori’ sulla pelle dei ragazzi che si scontravano in gara dopo tanti sacrifici.

- la politica federale che era sempre dietro ai risultati agonistici e che condizionava pesantemente i risultati di gara grazie, come detto, alla condiscendenza arbitrale e al regolamento che offriva una discrezionalità assoluta da parte dell’arbitro sull’esito di un incontro.

- i maestri di quel genere di Karate che pur di vincere medaglie per la loro palestra erano disposti a sotterfugi, a manovre politiche a intrallazzi arbitrali... per non parlare delle scene che si vedevano puntualmente con atteggiamenti irrispettosi e rissosi nei confronti degli arbitri sia da parte dei ‘maestri’ che degli atleti. Insomma tutto fuorchè un ambiente che rispettava i principi morali ed etici nonché educativi che dovrebbero essere basilari per un Karateka.

- Infine gli 'atleti' (non chiamiamoli Karateka per favore) che sapevano portare due o tre tecniche in cui si erano specializzati, per lo più gyaku zuki, uraken uchi, mawashi geri e poco altro, qualcuno, anche tra i campioni non l'ho mai visto tirare altro che gyaku zuki.
Inoltre le simulazioni erano uno strumento utilizzatissimo per guadagnare punti e ammonizioni per l'avversario che spesso facevano la differenza tra la vittoria e la sconfitta, ovvero vincevi prendendole o simulando di averle prese… alla faccia dello spirito guerriero.
Una roba che mi faceva orrore e disgusto, a me che pur essendo un ragazzo fondamentalmente insicuro non solo accettavo di competere dovunque proprio per affrontare i miei limiti ma che mi sarei vergognato come un ladro se avessi guadagnato un solo punto disonestamente e che rimanevo impassibile mentre il sangue mi colava dal naso per un colpo non controllato perché l’errore per me era stato il mio che mi ero fatto sorprendere e non dell’avversario...
Ho visto vincere campionati italiani e mondiali da atleti che guadagnavano almeno 1 punto ad ogni combattimento grazie alle simulazioni (agevolate dalla suddetta incapacità arbitrale) e altri punti portando solo una tecnica...

Detto questo, frutto di diretta esperienza da atleta e insegnante, la competizione nella forma che ho descritto, e che è quella che ancora impera nel mondo del Karate-sport, è a mio parere non solo l’espressione di uno sport da combattimento con tali limiti e aberrazioni da far fatica a rientrare dignitosamente nel novero dei suddetti sport (la continua esclusione dagli sport olimpici ne è la prova evidente) ma è assolutamente antieducativa sia sotto il profilo tecnico che quello etico e morale.

Fatta questa lunga ma necessaria premessa ecco il mio pensiero riguardo alla competizione:

L'esperienza competitiva può essere per i più giovani un importante strumento educativo e formativo, specie per quel che riguarda le qualità psicologiche ed emotive del Karateka.

Ma alle seguenti condizioni:

- Il regolamento di gara deve essere studiato e distillato da parte di Maestri molto esperti nell'ambito del programma tecnico e didattico della stessa Scuola e deve far sì che il Karateka non debba sacrificare alcun aspetto della propria preparazione globale nel vasto curriculum tecnico del Karate tradizionale di Okinawa al fine di specializzarsi in poche tecniche che fruttano punteggio.
Per far questo la competizione deve prevedere, per quel che riguarda il combattimento, se non il contatto pieno, quantomeno un significativo contatto (ad evitare tutte le aberrazioni e manipolazioni facilitate dal cosiddetto fantomatico e strumentale 'controllo dei colpi'), deve inoltre prevedere tutte le distanze del combattimento fin'anche la lotta a terra (entro certi limiti) in modo da ampliare il bagaglio dell'esperienza tecnica e strategica del Karateka e costringerlo a sviluppare una tecnica da combattimento vasta e completa e il più possibile vicina ad una situazione di combattimento reale.
Le gare di Kata le eviterei ma se proprio si volessero organizzare gli allievi dovrebbero essere premiati perchè eseguono il Kata qualitativamente e tecnicamente secondo i rigorosi canoni di valutazione che sarebbero adottati in occasione di un esame di passaggio di grado nell’ambito della stessa Scuola. Pertanto le competizioni di Kata dovrebbero essere solo nell'ambito dello stesso stile e della stessa scuola (altrimenti i parametri potrebbero variare di molto e si ricadrebbe in quella discrezionalità che favorisce le aberrazioni di cui sopra).
Nella IOGKF Italia e internazionale abbiamo sperimentato in alcune occasioni delle formule di gara che prevedevano il confronto nel combattimento e nel Kata durante ogni incontro, pertanto chi vinceva la gara doveva essere senza dubbio molto preparato in entrambe le espressioni di esercizio primarie del Karate: il Kata e il combattimento.

- I competitori devono essere valutati dagli stessi Maestri nell'ambito della stessa scuola con i parametri suddetti e la competenza richiesta e non ultima l'onestà e assoluta imparzialità del giudizio.

Vi assicuro che non è un'utopia.

Nella IOGKF Italia, non solo i giudizi sono stati sempre imparziali e corretti ma addirittura a volte ero costretto ad ammonire alcuni Maestri che tendevano a penalizzare eccessivamente i propri stessi allievi perchè non esprimevano il meglio di loro stessi nell'incontro...
Ma questo atteggiamento onesto e neutrale può esserci solo nell'ambito di una Scuola seria ed onesta, composta da veri Maestri e praticanti che si rispettano e stimano e che hanno a cuore il far fare un'esperienza formativa ed educativa ai propri allievi, Non può essere contemplata nessun'altra finalità e questo non può certamente avvenire in un ambiente ibrido federale dove la politica e gli interessi economici sono la finalità dell'organizzazione delle gare.

Per concludere ritengo che l'esperienza competitiva, se espressa nell'ambito da me descritto e secondo i severi parametri che ho illustrato, sia un'esperienza certamente positiva e uno degli strumenti da poter utilizzare per la formazione ed educazione dei giovani e non toglierebbe nulla alla preparazione completa e rigorosa del praticante di Karate tradizionale.

Lo spirito dovrebbe essere quello espresso dal termine 'Shiai' ovvero: mi confronto con l'altro, grazie all'altro, per confrontarmi con me stesso, a prescindere dal risultato.
Tanto che e gare potrebbero anche essere organizzate a porte chiuse, senza pubblico (che porta sempre ad una ricerca di spettacolarizzazione fine a sé stessa), come tentò di fare il Maestro Barioli per il suo Judo-Educazione

Ma se la competizione assume le forme aberranti e diseducative che ho descritto lungamente all'inizio di questo articolo allora se ne può tranquillamente fare a meno, anzi se ne deve fare a meno, sfruttando appieno altri strumenti educativi nel Dojo...

Mi aspetto già l'obiezione da parte di qualche insegnante di 'Karate Tradizionale' (che con ogni probabilità non ha mai fatto l'esperienza della competizione e di un confronto reale) che l'arte marziale punta al combattimento reale e che quello di gara non potrà mai essere un
combattimento reale, per ovvi motivi di salvaguardia dei combattenti.
Verissimo, ma è anche vero che nel Dojo di Karate Tradizionale si adottano già varie forme di esercizio che puntano all'esecuzione di tecniche adatte ad un combattimento reale e pertanto l'esercizio competitivo, dello Shiai, nella forma più completa possibile che ho sopra descritto, servirebbe come esrecizio per confrontarsi con alcuni aspetti psicologici ed emotivi con i quali è difficile confrontarsi nell'ambiente familiare del Dojo, per quanto possa essere dura e realistica la pratica, e che sono determinanti anche in una situazione di cosiddetta ‘difesa personale’ o ‘combattimento reale’.
Solo un Maestro di grande esperienza e personalità, che a sua volta sia stato educato con tali mezzi (e non ne vedo molti in giro), può essere in grado di portare gli allievi nel Dojo a toccare quel limite e quella profondità di esperienza psico-emotiva che viene dall'aleatorietà e rischio di una situazione come quella competitiva.

Ricordate che quello che fa la differenza in un combattimento, ancor più in una situazione reale, è l'atteggiamento mentale, la capacità di controllare l'emozione quando si è sotto pressione di fronte all'aleatorietà e al rischio reale di rimanere feriti se non uccisi e conterà per l'80% al fine del risultato, la tecnica conterà il 20%... il resto sono chiacchiere e scuse per coprire la propria mancanza di esperienza.

Sono certo che un gran numero di cinture nere di karate e maestri che non si sono confrontati con sé stessi a sufficienza in situazioni in cui questi aspetti psicologici diventano predominanti, in una situazione di reale rischio rimarrebbero bloccati o comunque non sarebbero in grado di esprimere pienamente il potenziale che sono convinti di possedere e soccomberebbero.
Né è anche la prova il complesso di inferiorità che dimostrano i karateka che si dicono tradizionalisti nei confronti di discipline di combattimento in cui ci si confronta duramente come ad esempio le mma (che considero assai discutibili sotto il profilo educativo) come quando condividono sui social video di tali combattimenti nell'intento di dimostrare che nei loro Kata ci sono anche quelle tecniche… la dice lunga sull'insufficienza della loro preparazione di cui sono pienamente consapevoli, pur non ammettendolo per ovvi interessi di mercato.

"Puoi combattere solo nel modo in cui ti sei allenato..."
affermava Miyamoto Musashi

Spero di aver chiarito il mio pensiero al riguardo una volta per tutte.

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Le foto che seguono sono state scattate a Bergamo durante le semifinali e finali del Campionato Italiano di Kick Boxing Full Contact Wako del 1988. Spongia Sensei è quello in pantaloni blu. I
l suo avversario in semifinale (quello in pantaloni bianchi) sei mesi dopo vinse i giochi del Mediterraneo e meno di un anno dopo divenne campione del mondo dei mediomassimi …in gara il valore degli avversari e la sincerità dello scontro sono fondamentali per il valore dell’esperienza. 






 

© Tora Kan Dōjō















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venerdì 8 dicembre 2023

ll suono del fuoco

Proponiamo un articolo scritto da Maura Garau e pubblicato nel 2006 sul giornale del Tora Kan Dōjō 




Diversi anni fa, durante un seminario di Shiatsu, appresi i suoni associati ai 5 elementi naturali che sono alla base della Medicina Tradizionale Cinese (legno, acqua, metallo, terra, fuoco).

In seguito mi dimenticai dei suoni e del loro uso; non ne avevo capito a fondo il significato.

Un paio di anni fa [nel 2004 n.d.r.], quando partecipai per la prima volta ad una lezione di karate al Tora Kan Dojo, venne eseguito il kata Sanchin. E fu un esplosione di sibili, rumori e aspirazioni. Pe me un'esperienza molto strana. Venivo da una pratica di karate Shorin Ryu dove il suono quasi esclusivo era il Kiai... 

Sanchin mi fulminò. Ci misi un po' di tempo ad ''interiorizzarlo'' e poi, all'improvviso, durante un altro seminario di Shiatsu, mi resi conto che la vibrazione sonora di Sanchin corrisponde al suono dell'elemento FUOCO ASSOLUTO secondo la Medicina Tradizionale Cinese [MTC].

Decisi di fare una piccola ricerca per capire se il mio pensiero avesse delle basi fondate. 

Per primo contattai Sensei Spongia e gli chiesi di raccontarmi del suono di Sanchin.

Mi rispose con le seguenti parole: 

“...Il nostro suono viene dalla gola"  :-)

Le mie uniche informazioni sono le indicazioni che dà costantemente Higaonna Sensei sul terminare l'espirazione nella fase di kime  (questo anche in alcuni esercizi di Junbi Undo) aprendo la gola e quando questo viene fatto correttamente si produce il suono hat oppure uat.

Naturalmente visto che per produrre quel suono si deve atteggiare la gola in un certo modo è vero anche l'inverso (dal suono risalire all'esecuzione).

Dalla mia personale ricerca risulta che in alcuni esercizi Yoga di Pranayama è richiesto lo stesso tipo di espirazione, con apertura della gola, per liberare dei canali energetici. Inoltre l'inspirazione del Sanchin: stringendo le narici e spingendo l'aria in un punto in alto nel naso, coincide sempre col Pranayama che sostiene che in questo punto in cui si dirotta l'aria, e che spontaneamente si utilizza quando si 'annusa', per esempio un fiore, è il punto in cui viene intercettato il Ki dell'aria...”

Poi contattai Eva Maria Schulze, insegnante di Shiatsu dell'Istituto Europeo di Shiatsu in Svizzera, la quale per prima mi fece sentire i diversi suoni degli elementi alla base della MTC; le chiesi se la vibrazione sonora che avevo sentito in Sanchin - “hat” o “uat” - potesse essere interpretata come suono del Fuoco Assoluto.

Segue la traduzione della sua risposta:

“Ho imparato i "suoni degli elementi" dagli insegnanti di Ohashiatsu [il Centro di Shiatsu di Sensei Ohashi a New York n.d.t.], mentre ero una studentessa e poi quando sono diventata assistente-istruttore a New York. Tutti loro conoscevano i suoni e li insegnavano con speciali indicazioni quali la pronuncia e come lasciare andare il respiro fino alla fine del suono anche se questo non è quasi più udibile. Dalle mie ricerche personali ho notato che i suoni assomigliano molto a quelli usati da Mantak Chia nel Qi Gong terapeutico, ma con delle sfumature diverse.

Riporto di seguito la pronuncia di questi suoni nel codice fonetico internazionale per l’apprendimento delle lingue:

Metallo = hsss, come il suono di un serpente

Terra = whoo, come u; come il suono scuro di un flauto di bambù

Fuoco assoluto = xo (oppure ch come nel tedesco "ach") la o è aperta come nell’inglese 

"often", e l’inizio è brusco per spingere la x

Acqua = fhhhh, come il rumore del risucchio attraverso una cannuccia – pulisce i polmoni

Fuoco supplementare = xiiii... (come il Tedesco ich), una “i” alta – si attorciglia intorno come la fiamma di un fuoco che non si può approcciare 

Legno = morbido, shhhhh (come nel tedesco "schon") a volte diventa un fischio leggero come un soffice vento primaverile”

Anche se la grafia è differente, sentendo pronunciare il suono “xo” si nota una forte somiglianza con “hat” o “uat”.

In seguito contattai Pauline Sasaki, (fondatrice del Quantum Shiatsu), chiedendole se i suoni utilizzati nello Shiatsu potevano ricondursi ai suoni della MTC e del Qi Gong, e se il suono “hat” o “uat” potesse essere quello del Fuoco Assoluto. Mi rispose che lei conosce i suoni del Qi Gong e che sono un po’ diversi da quelli definiti nello Shiatsu e MTC, tuttavia, a volte la differenza nasce solo da una grafia diversa. 

In questo senso il suono “hat” o “uat” potrebbe ricondursi  a quello del Fuoco Assoluto.

E parlando di Qi Gong, durante il seminario di Sensei Leijenhorst a Roma, la scorsa primavera, chiesi anche a lui se il suono di Sanchin potesse essere classificato come suono del Fuoco.

Mi rispose che secondo lui era molto plausibile. Inoltre, aggiunse, il percorso della respirazione di Sanchin è il percorso di Fuoco quindi ha senso pensare che il suono di Sanchin esprima l’elemento Fuoco. 

Segue illustrazione sul percorso di Fuoco dell’energia. Nel Qi Gong, questo percorso è considerato la via naturale in cui l’energia circola nel corpo; nella meditazione chiamata “piccola circolazione” il respiro accompagna l’energia attraverso il percorso di Fuoco (in breve, dal punto Huiyin, fra la zona genitale e anale, l’energia sale lungo la parte esterna al centro della schiena e testa, transita, attraverso la lingua, nella zona frontale e addominale per tornare al punto Huiyin e ripartire).


Illustrazione tratta da “The root of Chinese Chi Gong” del  Dott. Yang Jwing-Ming, Edizioni YMAA

Volli approfondire con un ultima breve intervista e contattai Paola Wu Min, direttrice del Centro di Tai Chi “Cielo e Terra” a Roma.

Essendo di madrelingua cinese, mi chiarificò il fatto che in queste discipline molto spesso la grafia cambia rispetto al suono ma la radice rimane e che secondo lei il suono “uat” o “hat” può corrispondere a quello del Fuoco Assoluto nella MTC.

A questo punto, qualcuno si chiederà, perché è così importante sapere se il suono di Sanchin corrisponde al Fuoco Assoluto??

Secondo la MTC e il sistema dei meridiani dello Shiatsu di Sensei Masunaga, il Fuoco Assoluto “è legato alla funzione di interpretazione e assorbimento/assimilazione. Ci concede la facoltà di portare informazioni e stimoli nel nostro “centro”, interpretarli, integrarli e convertirli in modo da esprimere noi stessi a partire dal nostro “centro”. (Istituto Europeo Di Shiatsu - Roma)

A livello fisico, coinvolge il sistema nervoso centrale ma soprattutto (secondo la MTC) l’intestino tenue e il cuore. Nella medicina occidentale, stimoli e informazioni vengono trasmessi al cervello (“centro” del sistema nervoso centrale); il cervello interpreta ed integra  le informazioni ricevute, elabora una risposta appropriata e la trasmette all’esterno; nella Medicina Tradizionale Cinese, è soprattutto l’intestino tenue che, (come con la scelta e assimilazione delle sostanze nutritive), sceglie le informazioni che possiamo integrare, “fare nostre”, e quelle che non ci appartengono. In tal modo l’intestino tenue “protegge” il cuore e, quando c’è equilibrio, “assimila solo ciò che è in linea con il sentire del cuore, in modo che poi il cuore possa esprimersi a pieno, con integrità”. Il cuore è il vero centro della nostra assimilazione.

A livello emotivo il Fuoco Assoluto rappresenta la consapevolezza di noi stessi: sentire quali sentimenti, valori e virtù ci appartengono e quali no; sentirci in pace con noi stessi e con  l’universo.

A livello mentale il Fuoco Assoluto rappresenta la coscienza e la consapevolezza: sapere chi siamo, avere una chiara idea di noi stessi e dell’Universo.

A livello spirituale, il Fuoco Assoluto (il Cuore) è la residenza dello “Shen degli Shen” (lo Spirito degli Spiriti) o della consapevolezza: dimora dello Spirito, o Mente più alta e più luminosa che ci accompagna. Lo Shen ci fa essere in armonia con noi stessi e ci rende Uno con l’Universo (integrazione totale di tutte le nostre parti, e di noi stessi con l’Universo). Espressione spirituale del Fuoco Assoluto è la meditazione.

In senso più alto, quando c’è equilibrio, il Fuoco Assoluto corrisponde all’allineamento fra i nostri pensieri e le nostre azioni. Fra le nostre azioni e i valori più profondi del nostro centro. 

Comunità di azione e intenti. Senza frammentazione. 

Sembra una cosa ovvia, ma non sempre lo è.

Così adesso, ogni volta che mi capita di praticare il kata Sanchin, mi ricordo del suono, mi ricordo della respirazione, mi ricordo del Fuoco... mi ricordo della comunità di azione e intenti... e mi ricordo chi sono... e anche se non so dove vado, so che agire con integrità e unità fa un’enorme differenza…


© Tora Kan Dōjō


















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giovedì 30 novembre 2023

La Forma che ci informa

Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento offerto da Taigō Kōnin Sensei durante la Pratica Zen.



Spero che siate nel silenzio profondo dello Zazen e che le mie parole non turbino il vostro silenzio ma lo attraversino come una brezza che attraversa una stanza.

Varcare la soglia del Dōjō ci immette in una dimensione che ci permette di connetterci tra di noi e con tutte le esistenze costringendoci ad uscire dal nostro isolamento.
Per entrare nel Dojo è necessario assumere una forma, vestire un abito, che non ha niente a che vedere con il formalismo o l’indossare una divisa.
Potrei altrettanto dire che entrare nel Dojo lo si può fare esclusivamente spogliandosi completamente, il che equivale al vestire il Kesa.

Quando parliamo di forma dobbiamo fare molta attenzione perché spesso non parliamo della stessa cosa. Qualcuno di voi qualche giorno fa mi faceva una domanda riguardo a questo, e dal momento che per me è una domanda sincera e significativa, come interroga me deve interrogare tutti voi.

La domanda era: “Ma se noi abbiamo tutti un cuore diverso, perché dobbiamo adottare tutti la stessa forma?”

È una domanda interessante ma è una domanda anche molto scontata, l’ho sentita fare parecchie volte espressa in forme diverse, però è una domanda interessante alla quale in qualche modo mi sono sentito in dovere di rispondere, e condividere con voi la mia risposta.

Se noi confondiamo la forma con una tecnica, con un guscio esteriore, siamo completamente fuori strada. L’educazione Zen è radicata nella forma, se non si comprende questo si rischia di essere talmente deviati nel proprio sforzo tanto da andare in tutt’altra direzione.

Purtroppo, proprio per questo mi trovo in difficoltà ed ho delle sincere perplessità nell’insegnare a chi sta lontano e non respira l’aria del Dojo insieme a me, perché alcune cose possono passare soltanto a stretto contatto, letteralmente fisico, osservando come si muove un Maestro, osservando come si muovono i propri compagni, imparando a muoverci ed a relazionarci in rapporto a chi condivide con noi lo spazio di pratica, alle cose che utilizziamo e al nostro insegnante. Tutte le parole che si possono dire su questo, senza un’esperienza concreta fatta con il corpo, rimangono parole vuote. Ma come diceva Katagiri Roshi: Anche se le parole non esprimono in senso compiuto ciò che vogliamo dire, noi, da insegnanti, siamo tenuti a dire qualcosa, ad assumerci il rischio di dire qualcosa su ciò che in realtà è inesprimibile.

Questo per chi si trova nel ruolo di trasmettere qualcosa è estremamente faticoso e doloroso come il tentativo di un parto, non può sapere se quello che nascerà sarà vitale o sarà nato morto.

La forma è una porta, un passaggio. Non è vero che ognuno ha un cuore diverso, o quanto meno, è vero fintanto che rimaniamo chiusi nella nostra concezione di noi stessi ed in quella che riteniamo essere la nostra individualità separata dal resto.
La forma nello Zen è la porta che ci permette l’accesso al cuore del mondo, a quello che Deshimaru Roshi definiva ‘l’Ordine Cosmico’, ad un cuore vasto, un pensiero vasto, un ordine, un equilibrio, del quale siamo parte ma che è ben oltre noi. Allora la forma ci ‘costringe’, non in un’accezione negativa, ci aiuta costringendoci ad usare il corpo e la mente unificati sperimentando nuove dimensioni, nuovi linguaggi, nuove sensazioni, un nuovo modo di entrare in relazione con le cose, con lo spazio, con il tempo e con gli altri. Non bisogna confondere la forma con una tecnica, con un risultato esteriore.

Lo Zazen è il più alto dei riti, diceva Deshimaru Roshi: la più alta delle forme.
E cosa facciamo noi in Zazen, con questo corpo pulsante di vita? Ogni volta che noi sediamo in Zazen ci slanciamo verso quella forma ideale che è la postura del Buddha.
Ogni volta deve essere uno slancio, una ricerca entusiasmante ed appassionata in cui spendiamo tutto noi stessi, non esiste Zazen al di fuori di questo spendersi totalmente nell’ atto dell’essere pienamente seduti. Ogni volta cerchiamo di tendere a quella forma ideale, che vuol dire corpo-mente unificati, che vuol dire veder dissolvere il nostro pensiero nel pensiero Hishiryo, nel silenzio profondo, colmo, gremito di richiami. Per fare questo assumiamo una forma che diventa la porta attraverso la quale possiamo accedere a questa unificazione.
Il mio Maestro diceva: “La postura di Zazen è l’arco teso pronto a scoccare la freccia dello spirito”.

Di tempio in tempio, di monastero in monastero, di Dōjō in Dōjō , di Maestro in Maestro, le forme possono assumere anche sfumature diverse, avere delle piccole o grandi differenze, anche se spesso i linguaggi fondamentali sono molto simili.
Se l’abate di Eiheiji venisse al Tora Kan Dojo, un po’ come dire se Papa Francesco venisse a fare visita ad una parrocchia di borgata, ebbene, l’abate entrando al Dōjō con ogni probabilità mi chiederebbe: cosa devo fare? Qual è la forma che adottate qui? Ne sono certo perché l’ho visto con i miei occhi, perché è la prassi, fa parte dell’educazione Zen, è il modo di un Maestro Zen, è il modo di un monaco Zen.

Quando voi vi ritirate in ango in un tempio, in Giappone o anche in Europa, c’è un periodo che viene chiamato Tangaryo, che può essere di sette o nove giorni in cui siete isolati in una stanza. Vi tolgono tutto, ogni accessorio personale, come in prigione, e per una settimana fate solo Zazen. C’è un monaco che si prende cura di voi, vi porta da mangiare, si dedica a spiegarvi nel dettaglio tutte le regole e le forme da adottare in quel tempio; dopo questo periodo, sempre che voi siate riusciti a superare la settimana in isolamento, siete ammessi nella comunità. Ovviamente non sarete reclusi in una stanza, uscirete e andrete nei bagni e potrete fare le vostre cose, ma quando incrocerete qualcuno vi ignorerà come se foste un fantasma. In realtà non esistete, siete ancora in qualche modo intrappolati nella vostra identità e avete bisogno di passare attraverso l’esperienza iniziatica, di capire quale linguaggio usare per comunicare con gli altri, per essere davvero parte della comunità. È effettivamente un’iniziazione. Oggi che non siamo più abituati a vivere l’iniziazione in nessun modo, ci può sembrare una cosa strana, costrittiva, frustrante. Eppure, se non passiamo attraverso il momento iniziatico, noi non saremo mai entrati nel Dōjō , non saremo mai entrati davvero nella relazione.

Se l’abate di Eiheiji venisse in questo momento al Tora Kan Dojo, prima di entrare mi chiederebbe: “Cosa devo fare? Insegnami … come fate qui?”, anche se io posso essere considerato l’ultimo dei monaci, l’ultimo del maestri. L’abate di Eiheiji sa cosa vuol dire una forma in un Dōjō e non pensa di aver capito tutto, non pensa che la sua forma sia migliore della nostra o che lui abbia compreso più di quello che possa aver compreso io; lui sa che per accedere a questo luogo, lui deve adottare una specifica forma, deve comunicare con quel linguaggio, altrimenti non sarà mai entrato nemmeno se varcherà la soglia … e questo vale per ognuno di noi.

Quindi pensate quanto può essere difficile pensare di essere entrati al Tora Kan Dōjō collegandosi online, come qualcuno ha la pretesa di fare, senza attraversare il momento iniziatico. Mi auguro che ognuno di voi che è lontano faccia tutto il possibile, anche oltre il possibile, per poter venire in questo luogo il più frequentemente possibile, il che vuol dire fare qualcosa di più di quelle che crediamo essere le nostre possibilità e limitazioni. Questo luogo non significa solo il Tora Kan Dōjō ovviamente, significa uscire dalla propria casa ed ‘andare e vedere’, intraprendere il pellegrinaggio verso noi stessi che ci richiede di perderci per ritrovarci.

Tornando alla forma, quando io posso dirvi, come è stato detto a me, e come io ho sperimentato nella mia esperienza e nel mio corpo, “alza bene i gomiti quando fai Gassho … alza bene i gomiti …” qualcuno potrebbe pensare: “ma se li tengo tre dita più giù cosa succede? magari io mi sento meglio così.”

Eppure nel momento in cui tu segui l’esortazione ed alzi i gomiti, come tante volte ho spiegato, il tuo corpo ti immette in una comprensione diversa, la mente e il corpo percepiscono delle cose, la forma ti informa … se tu lo fai davvero con partecipazione il tuo respiro cambia.
Non lo facciamo per ‘fare bene il compitino che ci ha assegnato qualcuno’ ma lo facciamo per fare esperienza diretta del Risveglio. Se non trovi il paradiso nel momento in cui alzi i gomiti facendo Gasshō, non lo troverai nemmeno quando sarai in un’altra vita.

Lo Zen ti dice alza i gomiti perché in quell’alzare i gomiti stai abbracciando il mondo intero, perché è il gesto di un abbraccio, perché il tuo respiro cambia e le tue spalle si abbassano, perché le tue dita davanti ai tuoi occhi ed il contatto delle tue mani unite innescano qualcosa nel tuo corpo e nella tua mente che ti fanno comprendere che cosa vuol dire davvero inchinarsi.

Nello Zen si dice che quando c’è una relazione con un insegnante s’instaura Kannodoko, una comunione di menti, una comunione di cuori che comunicano al di là delle parole, ed è quello stesso Kannodoko che si trasmette da cuore a cuore, la mente del Buddha, la comunione che ognuno di noi sedendo in Zazen instaura con il Buddha stesso, con la sua mente, che non è la mente di un uomo vissuto 2700 anni fa, ma è la Grande Mente di cui il Buddha, come noi, siamo un’espressione.

Perché avvenga questo Kannodoko si dice che ci si debba abbandonare ad una totale fiducia, un totale affidamento; come un bambino che si lancia tra le braccia del padre senza avere nessuna garanzia che il padre sia pronto a prenderlo al volo.
Questo è aderire alla forma.

Se voi fate Sampai con fiducia quando voi portate la fronte a terra e toccate la terra, se lo fate con spirito sincero, potrete ascoltare il brusio della terra, ascolterete quella parola dolce e delicata che la terra sussurra alle vostre orecchie mentre poggiate la vostra fronte, che non potrete sentire se siete pieni di voi; se voi poggiate la vostra fronte a terra con lo stesso atteggiamento di devozione e di amore con cui la poggereste sulla fronte di una persona che amate, di vostro padre o di vostra madre, allora la terra vi parlerà.

Ma se voi fate Sampai con l’atteggiamento di chi è intento a perfezionare un gesto tecnico, per quanto formalmente perfetto lo possiate fare, se non c’è quella partecipazione del cuore, la terra rimane muta, si ritrae. Perfezioniamo i nostri gesti perché il nostro corpo e la nostra mente divengano ‘uno’ in ogni azione, il che vuol dire essere totalmente presenti. Più il gesto si raffina e più siamo agevolati in questo, ma questo non significa che il gesto di un principiante che tiene la ciotola con tutte le dita e non con le prime tre, se lo fa con il cuore, con la tensione ‘verso quel’ gesto e ‘verso quel’ significato, non sia pienamente la mano del Buddha.

Quelle braccia che tengono la ciotola non devono essere più le nostre braccia in cerca avidamente di qualcosa per riempire lo stomaco ma devono essere le braccia dell’universo intero che si tendono nell’offrire e nel ricevere la vita stessa.

Tutti noi siamo portati a dire ‘Sì va bene ma io potrei farlo in un altro modo, mi sento più a mio agio facendolo così!’… l’ho fatto anch’io quando ho iniziato a praticare; eppure nel momento in cui ho cominciato piano piano ad affidarmi all’esortazioni anche severe del mio Maestro che mi richiamavano a quella presenza e quella forma, ho cominciato a capire che non era la stessa cosa se io l’avessi fatto come mi appariva più comodo e più affine a me … A me chi? A te chi? Ti chiede innanzitutto lo Zen.
Lo Zen innanzi tutto ci chiede: ma tu chi sei? a chi vuoi adattare questa forma?

E quando cominci a porti questa domanda: chi sono? allora capisci che la risposta viene solo dall’aderire a quella forma, nel passare attraverso quella porta.
La forma diventa allora la tua carne, le tue ossa, il tuo midollo, al di là della capacità di comprensione che è spesso condizionata dai nostri mi piace e non mi piace, che non ci permette di vedere.

Quanto più i maestri sono esigenti e richiedono una forma accurata e tanto più spesso gli allievi diventano integralisti e degli specialisti tecnici, ma è un rischio che vale la pena di correre. Bisogna saper riconoscere se quell’allievo in quel momento sta mettendo davvero tutto se stesso in quel gesto, anche se è apparentemente sbagliato. Se lo sta facendo con lo spirito giusto, qualcosa sta passando e sarà qualcosa che sta passando per lui e che io non potrò neanche lontanamente giudicare ed immaginare.

Posso fare solo da ponte, indicargli la via, indicargli la porta ma non posso passare per lui e non posso neanche sapere cosa lui vedrà, perché non sarà lo stesso panorama che ho visto io; sarà l’accesso a quel cuore comune che ci permetterà di guardarci e comprenderci aldilà delle parole. Quando vi inchinate in Gasshō uno di fronte all’altro voi lo sentite; chi lo pratica in un Dojo lo sa, può riconoscersi nelle mie parole. Si crea una comunicazione che va oltre le parole perché quei gesti sono come dei diapason, risuonano.

Se io vi dico che il Moppan si suona in questo modo è perché siete costretti a risuonare in quel modo. Risuonando in quel modo, il vostro cuore ed il vostro spirito, vibreranno insieme al legno, insieme al metallo che suona.

Il mio Maestro diceva: “La forma è una porta verso la libertà”. Libertà da se stessi innanzi tutto, da i nostri pregiudizi, da i nostri mi piace/non mi piace, dai nostri condizionamenti.

Lo Shodoka recita: “Un solo mi piace, non mi piace ed il cielo e la terra sono definitivamente separati.” Quando leggiamo queste cose, di cosa pensate che stiamo parlando? Questo è lo Zen.

Non si tratta di aderire ad uno schema, ma è ‘tendere verso’, è tenere l’arco per far scoccare la freccia. È come il Maestro di Kyudo che tende l’arco con una forma precisa; se voi non rispettate quella forma non riuscirete mai a tendere quell’arco.

Nel libro ‘Lo zen e il tiro con l’arco’ quando Herrigel torna dal suo maestro e gli fa vedere tutto fiero di sé che era arrivato a padroneggiare quel gesto e che riusciva finalmente dopo mesi o forse anni in cui aveva fatto fatica anche solo a tenderlo, il Maestro va lì e senza dire una parola, fa fare un giro al perno che tende ancora di più la corda e gli dice: “Adesso che hai raggiunto questa forma, vai oltre”. Lui rimase sconfortato da questo, perché noi ci attacchiamo ai nostri risultati e vittorie, ma spesso son quelle che ci costringono a rinchiuderci in noi stessi, a ristagnare, a non crescere.

Il maestro di Kyudō tende l’arco con un gesto apparentemente privo di senso pratico, alzando le braccia sopra la sua testa, il che vuol dire non avere più nessun muscolo, di quelli più forti, coinvolto nel tendere l’arco, e così è costretto ad usare solo il respiro. Le braccia connesse al respiro e ad un certo stato del cuore permettono di tendere un arco che neanche un muscoloso pesista riuscirebbe a tendere. Una volta teso l’arco dimentica anche il bersaglio e a quel punto la freccia parte da sola: questo è lo Zazen, questa è la forma nello Zazen. Se voi mi dite: ma io potrei tendere l’arco con una carrucola! Certo, fatelo. La freccia potrà anche attraversare il bersaglio, ma non partirà la freccia dello spirito. L’aver centrato il bersaglio allora, sarà solo un ottenimento transitorio e insignificante come in ogni altra nostra azione in cui lo spirito ed il cuore non guidano la mano. 

(registrazione e trascrizione a cura di Monica Tainin De Marchi)

© Tora Kan Dōjō


















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mercoledì 15 novembre 2023

La natura non ordinaria dell'essere umano


Il monaco ha le caratteristiche del monaco. Il professore ha quelle del professore. Il soldato ha le caratteristiche del soldato. I poveri hanno le caratteristiche dei poveri. I ricchi hanno le caratteristiche dei ricchi. Ognuno ha le sue caratteristiche. Il Cammino inizia quando tutte le tue caratteristiche vengono abbandonate. Il mondo fenomenico ha origine in cause e circostanze. Se i fenomeni hanno una causa di origine, non hanno una propria natura. È quando accetti e riconosci questa assenza che raggiungerai la Terra Pura. La nostra vita quotidiana è una vita di trasmigrazione e di vagabondaggio nel mondo dei nostri sogni e fantasie. Questo è chiamato il viaggio nella lunga notte dell'ignoranza. Cosa fanno gli uomini con tale implacabilità? Trasmigrano... Preferiscono giocare a nascondino e correre rumorosamente dietro ai loro desideri. Cercano di scappare da ciò che non gli piace, ma c'è un posto da cui fuggire? No. C'è un posto che possiamo raggiungere? No. Se desideri fortuna, salute o satori, sei solo un mendicante. Ma se dimentichi questa natura ordinaria dell'essere umano, non ci sarà nulla di te stesso che sarà separato dal cielo e dalla terra. Quando fai zazen, sei nella tua bara. Quando sei nella tua bara, puoi capire che nulla ti appartiene. Tutte le cose che hai accumulato, conoscenza, denaro, ninnoli, sono solo prestiti temporanei. Praticando zazen, puoi sederti in modo stabile e irremovibile nella tua vita.

Quando dimentichi ogni guadagno personale, il Buddha-dharma appare all'istante.

Qualunque cosa facciate di buono, se non è altro che per il vostro ego, è solo una storiella come tante.

Gli uomini accumulano conoscenze, ma penso che il punto finale sia essere in grado di ascoltare il suono della valle e guardare il colore della montagna. Insomma, non guardare agli uomini, ma guardare la luna, guardare gli alberi e ascoltare il sermone di tutto l'universo.

Quindi crea il presente del tuo vero ego! Questo presente che sgorga incessantemente, libero e senza ostacoli. Si chiama senza pensiero. Hishiryo. Se tutti gli uomini di questa terra desiderassero la Via, non ci sarebbero più guerre, carestie, esistenze inutili che trovano la loro giustificazione solo nella competizione. Questa terra sarebbe diventata un paradiso. Ma gli uomini preferiscono agitarsi con il loro ego personale.

Sconsiderato, senza desideri, ma hishiryo non significa essere un idiota. Non è rallegrarsi quando appare il Buddha e disgustati quando appare il demone.

Nel regno della Via, l'ego scompare. L'ego si dissolve in tutto il mondo.

Quando facciamo zazen, non c'è più alcun peccato. Zazen è il precetto unico trasmesso dai Buddha e dai patriarchi. E radicarsi nello zazen significa fermare tutte le fabbricazioni dell'ego, e praticare ciò che praticavano i Buddha e i patriarchi.

Shikantaza è lo stesso zazen di Bodhidharma e Shakyamuni. Ma se è uno zazen in cui si cerca qualcosa, per quanto alte possano essere le dottrine, non vale nulla ed è solo una pratica vuota. Solo questo zazen praticato con questo corpo di carne è Buddha. Io, il mio zazen non è guadagnare soldi, né diventare famoso né raggiungere una posizione. Per tutta la vita ho mangiato solo per zazen, mi sono preso cura di me solo per zazen, ho vissuto solo per zazen, tutta la forza della mia vita era solo per zazen.

È allora che Buddha o Dio appare in questo corpo e crea quello che viene chiamato il Buddha vivente.

Kôdô Sawaki Roshi 

dalla pagina facebook del Dojo Zen Chushin


© Tora Kan Dōjō















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venerdì 3 novembre 2023

Gasshō è la Via della Pace

 


Perché gli uomini hanno paura? Perché dipendono solo dalla propria individualità.
Quando, durante la guerra, ero in Cina, le mie mani ovunque andassi erano in gasshô.
Quando uno fa gasshô, colui che lo incontra fa automaticamente gasshō.
Se avessi agitato un pugno o impugnato una pistola, non sarebbe mai successo.
Assumere gasshō è smettere di sparare.
Le notizie del nostro mondo di oggi sono trasmesse per immagini.
Queste immagini frenetiche sono quelle dell'azione dei nostro bonnō (attaccamenti/illusioni) e delle nostre complicazioni. E sono queste complicazioni che chiamiamo civiltà, sviluppo e progresso.
Ma dal punto di vista del Buddha, questo non è progresso ma piuttosto degenerazione.
Sebbene gridiamo "civiltà, civiltà", in realtà incontriamo solo troppi fenomeni accecanti.
Lasciare la radio accesa, addormentarsi con la bocca aperta... svegliarsi, ascoltare un po'... alla cieca. Per le strade, i semafori rossi e quelli verdi non ci lasciano tregua.
Senza questa 'civiltà', possiamo entrare in intimità con la nostra naturale propensione alla liberazione.

 Kōdō Sawaki Rōshi

 

Tratto da ‘Conferences de Maitre Kodo Sawaki’
traduzione del Dojo Zen Chushin 


© Tora Kan Dōjō















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