Offriamo la trascrizione della lezione sull'Etica del Bushido del Prof. Mario
Polia, (storico, antropologo, etnografo, e archeologo, specialista in
antropologia religiosa e storia delle
religioni) che si è tenuta presso il Tora Kan Dojo nel Marzo 2017 nell'ambito del 42° Gasshuku di
Formazione e Aggiornamento Insegnanti IOGKF Italia.
Sensei Paolo Taigō Spongia:
Do il benvenuto al professor
Polia, sono veramente tanti anni che desideravo incontrarlo.
Oggi grazie all’intercessione del
Maestro Paolo Bottoni, che ci ha messo in contatto con il Professore, siamo
riusciti finalmente ad organizzare questo incontro. Questo è per me quindi un
giorno di grande gioia e soddisfazione.
L’opera del professor Polia mi
accompagna da tanti anni. Ho scoperto il suo libro, [l’Etica del Bushidō il
Cerchio iniziative editoriali n.d.c.],
quasi una ventina d’anni fa, quando una buona parte del mio percorso,
della mia avventura, era già compiuta, e sono rimasto da subito folgorato. Ho
una grande considerazione di questo testo. In questi giorni in qualche modo ho
preparato l’incontro, ho dato ai miei allievi un po’ di informazioni, quindi
non farò una lunga presentazione del professor Polia. Chiederei piuttosto a
lui, nel presentarsi, di sottolineare quegli aspetti della sua ricerca, della
sua vita che ritiene più rilevanti.
Quello che posso dire è che il
libro del professor Polia, l’Etica del Bushidō, è stato davvero una grande
rivelazione. Sapete che lo consiglio da tempo a tutti, fa parte dei testi
consigliati per lo studio dei nostri Insegnanti. Lo ritengo davvero una pietra
miliare, forse l’unica opera che riguardi il background filosofico, religioso,
morale o comunque lo vogliamo definire,
di una pratica del Budō degna di tale nome. Perché per il resto troviamo opere
che guardano soprattutto alla tecnica, magari buttando lì qualche elemento
filosofico e spirituale, ma con molta approssimazione. Questo invece è un
lavoro approfondito, serio che nasce dal cuore di chi è davvero dentro la
materia.
Questa è la cosa che più mi ha
colpito. Non si tratta di un lavoro freddamente nozionistico o accademico, si
sente che c’è il cuore dell’autore che pulsa tra le righe.
Una cosa che mi aveva stupito
nelle biografie che avevo letto del prof. Polia era la mancanza di riferimenti
ad una pratica marziale, cosa che non mi dava conto della sua competenza. Ed
invece mi ha confidato, più tardi ve lo dirà lui stesso, di aver avuto
un’esperienza importante a riguardo. L’avevo ben percepita da come scriveva.
Queste cose non possono essere comunicate con questa profondità da un
“accademico”, questo libro lo deve aver scritto un praticante, oltre che
accademico. Una perfetta summa.
Vorrei leggervi solo un passaggio
dall’introduzione all’ Etica del Bushidō:
“A chi è diretto questo libro,
che forse sarebbe più giusto chiamare “quaderno d’appunti sul Bushidō”? forse è
meglio chiarire a chi non è diretto: ai cultori delle “arti marziali” vissute
come culturismo esotico o nella sola prospettiva dell’ autodifesa; ai
ricercatori di illuminazione a buon mercato; ai patiti dell’esoterismo di
questa fin de siécle; ai nostalgici del bel tempo che fu incapaci di sognare
come potrebbe essere il tempo a venire; a quanti confondono Bushidō con
l’affermazione dell’ Io e con la legge del più forte. Tutti costoro
resterebbero delusi perché il Bushidō insegna che per entrare nella via,
occorre scavalcare da vivi il proprio cadavere. Senza paura e senza rimpianti.
Per rinascere da se stessi ed oltre se stessi. E la morte interiore è
certamente più dura e sofferta di quella fisica. Questo libro non è neppure
dedicato agli specialisti di Yamatologia [studio della lingua e della civiltà
giapponesi n.d.c.] perché chi scrive non è specialista in questo campo e si
scusa con loro di esser sceso dalle Ande per occuparsi di una Filosofia e di
una Cultura apparentemente così estranea al dominio dei suoi studi.
Perché ho pensato di scrivere
queste pagine? Perché conoscere il Bushidō - la visione del mondo e lo stile di
vita che esso propone - significa conoscere gran parte della storia della
cultura del Giappone tradizionale e, in parte, significativi aspetti della sua
anima contemporanea assieme alle dimensioni del conflitto in atto tra modernità
e tradizione.
Ho scritto perché ho voluto
creare un’opera agile e pur ricca di dati. Ho scritto, inoltre, perché credo
che molti di quei valori etici come la lealtà, la sincerità del cuore, il
dominio di sé, il rispetto per la parola data, l’atteggiamento benevolo verso i
deboli non sono appannaggio di una determinata cultura, ma valori fondanti
dell’essere umano, che sono o possono essere ancora attuali.”
Mi fermo sottolineando questo
aspetto. Il Maestro Omori Sōgen (Maestro di Spada e Monaco Zen) una volta
disse: “la Pratica marziale senza un fondamento spirituale, un fondamento
morale, è una pratica brutale, bestiale”. Questo fondamento è l’aspetto che mi
ha trascinato, coinvolto in questa avventura che dura praticamente da tutta la
mia vita adulta. Quando avevo più o meno 15/16 anni mi capitò su una bancarella
di incontrare l’Hagakure, quello della versione commentata da Mishima e ne fui
folgorato. Avevo iniziato a praticare Karate a 13 anni, mi domandavo
continuamente quale fosse la direzione corretta nel seguire la mia pratica.
Questo testo mi colpì moltissimo e mi orientò; cosa che in seguito fece anche
il testo del professor Polia. Avevo già raggiunto una certa maturità per cui lo
lessi con un altro spirito e un’altra attenzione, mi riportò a quella
esperienza e mi diede delle conferme, molte conferme.
Ritengo grave che oggi nella
nostra società, in particolare nell’educazione scolastica, manchino quegli
elementi mitico-simbolici che sono invece potentissimi nel nutrire lo spirito
dell’uomo, di un ragazzo in crescita, nel nutrire la sua formazione. Per me,
per la mia maturazione come uomo, fu fondamentale l’incontro con la cultura
guerriera, che non ho mai interpretato come la cultura di un conquistatore
sanguinario, ma piuttosto come quella di colui che è in grado di combattere per
la conquista di sé stesso.
Come recita la Bhagavad Gita
“guerriero è colui che mette ordine al caos” e per me divenire un guerriero fu
proprio questo, mettere ordine in me attraverso un’esperienza che unisse corpo
e mente. Con simbologie e linguaggi guerrieri, mettere ordine al caos che era
dentro di me, quindi mettere ordine tra le contraddizioni della natura umana,
conciliare le paure, le insicurezze, le illusioni e i pregiudizi. E questo io
ritengo che sia l’aspetto centrale, che ci fa sentire vicina la ricerca del
professore Polia, che chiarisce e distilla questi elementi.
Ed è quello che cerchiamo di fare
in luoghi come questo, cioè offrire ai giovani, ma anche ai meno giovani,
quegli elementi mitici, simbolici, quei modelli che permettono di plasmare la
propria vita verso un orizzonte che è assai distante da quelle che ormai sono
le normative della nostra società e gli indirizzi comuni.
Interrompo qui la mia
introduzione, non volendo rubare altro tempo, e lascio la parola al professor
Polia
Grazie.
Professor Mario Polia :
Bene, userò lo sgabello visto che
anche i generali lo usavano in combattimento.
Di me si potrebbe dire che sono
uno che tutta la vita, come diceva un filosofo greco, ha cercato l’Uomo, ha
cercato di capire che significava “essere umano”. Per far questo ho dovuto
cercare innanzitutto in una dimensione interiore. Per riuscire a capire chi ero
io e quali fossero i valori importanti della mia vita, quelli da seguire fino
in fondo. Per far questo ho avuto degli strumenti ottimi, l’educazione familiare,
un nonno guerriero, una madre donna autentica, un padre, autentico padre, che
sempre mi hanno inculcato che la vita è un’occasione preziosa che non può
essere persa nelle piccole battaglie di tutti i giorni, che è un’occasione
irripetibile e che va vissuta in un certo modo.
Poco più che adolescente la
montagna è diventata la mia grande Madre. Tante montagne abbiamo fatto, anche
con il nostro comune amico Maestro Paolo Bottoni. Montagna intesa come
superamento di noi stessi. Andavamo in montagna quando c’era la neve, quando
c’era la tormenta, perché non c’è nessuna montagna da salire fuori di noi.
Qualunque montagna noi salissimo fuori di noi, non farebbe altro che,
nonostante lo sforzo immane posto per arrivare sulla cima, rafforzare il nostro orgoglio, rafforzare quella parte di noi che invece
deve morire se vogliamo arrivare alla Liberazione. Liberazione, Satori, Risveglio, sinonimi.
A questo punto occorreva una
tecnica. La montagna era una delle tecniche importanti, le altre tecniche
venivano dall’Oriente. Non perché l’Occidente ne fosse sprovvisto, ma perché le
aveva abbondantemente dimenticate nel corso dei secoli. E le fonti dell’Oriente
alle quali attingere erano soprattutto, per la mia impostazione programmatica,
la mia vita e il mio carattere, ognuno forgia la vita in base al proprio
carattere, bè se c’hai il coraggio per farlo, soprattutto lo Zen. Ho praticato
Kendo diversi anni della mia vita fino a quando il mio maestro fece seppuku [
forma di suicidio rituale n.d.c.], e dal quel momento mi sono ritirato, lo
stesso anno, in montagna. Ormai sono passati parecchi anni, dal 1982, in una
zona isolata delle montagne dove conduco una vita in cui posso dire di aver
seguito, per quanto possibile, quella stella che nella mia fanciullezza
aveva brillato nella mia anima. E quindi il silenzio, la solitudine, il
contatto con la Natura.
Nei miei eremitaggi di montagna è
nato questo libro, in un inverno radioso, freddo ma senza neve. A me piace scriverli a mano i libri, uso matite molto tenere in modo di poter cancellare il
tratto, non mi piace il tratto che rimane per sempre. Nessuno di noi può
scrivere qualcosa di imperituro sulla pietra.
Solo i grandi Maestri. Ma noi
siamo discepoli. Tutti siamo discepoli, anche i Maestri sono discepoli. Ma c’è
una gerarchia nell’essere discepoli, a noi conviene scrivere con matita leggera
e una gomma. Nel mio eremitaggio di montagna è nato questo libro. E ho avuto un
segno meraviglioso. Il giorno in cui finii di scriverlo andai fuori portando i
fogli con me. Era il giorno dell’equinozio di primavera c’era sole e c’era
vento. Andai fuori, poggiai i fogli su una pietra, e quando mi girai il vento
me li aveva sparpagliati, abbondantemente su tutto il campo ricordandomi la
presunzione di voler trattare certi argomenti, ma anche la necessità di farlo,
perché molte volte sono trattati male. Ma ricordandomi soprattutto la fragile
leggerezza del sapere. Quei fogli sparsi dal vento per me furono un’autentica
esperienza di risveglio. Li raccattai, ridendo, non erano stati neanche
numerati. Ci misi un pomeriggio per rimetterli tutti insieme tanti erano i
fogli, ma ringraziai quel vento.
Arti Marziali. Arti va bene,
perché arte è una disciplina che forgia la materia. Quale materia? Dalla più
compatta alla più sottile. Il poeta è un artista che forgia la materia più
tenue che conosciamo, che è il soffio, l’aria. Gli artisti forgiano la materia
a diversi gradi d’intensità. Noi dobbiamo forgiare la-nostra-materia. Perché
siamo fatti di materia greve. Non dobbiamo vergognarci di essere fatti di
materia greve, è la sfida che è posta ad ogni creatura che nasce nella
condizione d’essere umano, maschio o femmina che sia. La sfida è identica,
superare la materia greve, far nascere da questa materia, la fiamma imperitura
che è dentro di noi. Il fuoco.
Quando state davanti a un camino, prima di
metterlo sul fuoco soppesate il pezzo di legno, ne vedete la pesantezza, la
rugosità, la freddezza, a volte anche l’umidità, l’inerzia, l’opacità. Poi,
messo sul fuoco, quel pezzo di legno diventa altro da se. Vero era come ci
appariva. Vero è come ci appare dopo. Che è successo a quel pezzo di legno? E’
stata tirata fuori la sua vera natura. Ecco perché gli antichi greci quando
parlavano di natura umana dicevano ξύλο [ xylo n.d.c.] che significa legno, gli
antichi romani dicevano materia, in spagnolo matera. Noi siamo come legno in
cui è nascosto un fuoco. Hi
火
fuoco, Hito
人 uomo. Che differenza c’è tra questi
due ideogrammi? Il primo è un fuoco attivo, ci
sono evidenziati i turbini. Il fuoco che divampa. Hito è l’ideogramma di base
del fuoco, senza i turbini . Il fuoco è nascosto nelle viscere della nostra
natura. Siamo un fuoco nascosto. Le Arti Marziali servono ad alimentare questo
fuoco, a farlo divampare. E quando il fuoco divampa, brucia l’umidità
superflua, le pesantezze superflue. Ci insegna una vita nuova. Una vita in cui
noi siamo esseri liberi. Perché mentre il legno non si muove, la fiamma che
scaturisce dal legno, la luce, il calore raggiungono distanze infinite. Questo
siamo noi. Le Arti Marziali sono una sfida. Il termine Marziale, per come viene
inteso comunemente, è un termine riduttivo. Perché anche da noi, sicuramente
anche nella nostra antichità occidentale, c’erano le Arti Marziali. C’era un
modo d’affrontare, di concepire il combattimento, come una prova con se stesso.
Altrimenti quei 300 ragazzi alle Termopili non sarebbero stati capaci di morire
davanti ad un milione di nemici. Di rimanere sorridenti. Ce le avevamo le Arti
Marziali. Le abbiamo perse lungo il corso del tempo. “Marziali”
va bene, però, non deve riferirsi all’aspetto
guerriero della nostra pratica. È un Arte Marziale, è un arte di combattimento
ma non può essere, questo aspetto, riferito solamente alla pratica dell’arte marziale,
del combattere.
Oggi la mia non vuole essere una
conferenza, ho portato qui giù il silenzio dei miei monti, il rumore della neve
che sta gocciolando ormai dai tetti. E’ quasi primavera, il profumo di queste
notti in cui si sente ancora la terra bagnata! Quello che vi dirò oggi non l’ho
preparato. Un guerriero non ripassa il manuale del combattimento la sera prima.
Usa le tecniche giuste, al momento giusto. Quindi non sarà una conferenza la
mia, ma meditazione, una serie di meditazioni.
Bushido – Bu Shi 武士
La prima meditazione: (mi
dispiace per i nostri fratelli fogli di carta, che cosi si sprecano [disegna su dei fogli n.d.c.]) la radice Bu 武 indica il combattere, il
lottare, l’ideogramma si compone dal segno della naginata, o alabarda. Ricordate
che cosa sono? C’è la naginata e la iari.
Questa è la naginata. Dal segno della naginata aggiungendo un altro
piccolo ideogramma, che è questo, si forma: Bu. Già, ma che significa?
L’alabarda, siamo d’accordo, quella è Marte, e questo piccolo gruppo, questo
ideogramma a parte, come si legge questo qui? Tomaru , dalla radice del verbo
domare. Domare, controllare, tomaru. Quindi, quando io dico in Giapponese Bu,
sto dicendo che l’Alabarda non è al servizio di se stessa, ma è al servizio di
un qualche cosa che nell’ideogramma è inserito vicino
alla naginata. Cos’è questo qualche cosa? Beh, in prospettiva sociale è il
popolo, sono i sudditi del Daimyo che il Samurai deve proteggere con la sua
forza, ma è solo questo? C’è solo da domare un popolo, lasciarlo tranquillo
sotto la lama scintillante della naginata? O c’è qualche altra cosa che
dobbiamo domare? Ecco. L’ideogramma a differenza della scrittura alfabetica
lascia tanta libertà, non a voli di fantasia, ma a capacità di penetrare il
succo , il senso, il fuoco, nascosto nell’ideogramma. Quindi l’Arte del
guerriero è l’Arte di combattere per domare. Chi? Il nemico? Ma è scontato!
Controllare la nazione? E’ scontato, qualunque soldato fa questo. Che cosa fa
di diverso il bushi? Il bushi di diverso
fa una cosa molto semplice: non tratta, non cerca, non si propone di domare
nulla fuori di Sé se prima non ha domato se stesso.
Ecco dunque, il Bu è
l’Arte, l’Arte di domare se stessi. E
che significa? Ridurre tutte quelle correnti convulse che agitano la mente e il
Cuore, parola che in Giappone si esprime con Shin 心o
Kokoro, parola equivalente. Mente / Cuore, tutte e due le cose mente / cuore,
domare la Mente e il Cuore controllare tutte quelle passioni che non fanno
parte della purezza del combattimento . Se hai paura del nemico verrai
sconfitto. Se ti senti superiore al nemico verrai sconfitto. Se hai paura di
morire verrai sconfitto. Solamente se non hai paura di morire e non odi il
nemico vincerai . Come? A volte riporterai a casa la katana insanguinata e una
vittoria sarà stata conquistata sulla terra per il nostro popolo, per il nostro
daimyo, per l’imperatore. E se muori? Il samurai non fa differenza . Se con lo
spirito giusto entri in combattimento, anche se muori, tu hai vinto, questo è.
Quindi domare noi stessi.
Spigolando negli scritti della
cavalleria occidentale, c’è uno scritto importante a firma di San Bernardo di
Chiaravalle diretto al Maestro dell’ordine del tempio, nel quale diceva a
questo ordine che si stava formando dei Monaci guerrieri, molto simili agli
Yamabushi del Giappone ( 山伏, 山臥 colui che si nasconde
fra le montagne ,gli Yamabushi erano dei monaci eremiti considerati anche guerrieri invincibili n.d.c.), diceva: “Invano cercherete di
conquistare un nemico fuori di voi se prima non avrete domato il nemico che è
in voi.” Se questo nemico non l’hai domato, la tua forza la metti al servizio
di chi? Al servizio tuo. Di chi? Dei tuoi interessi. Anche se ti fregi di
combattere per il mikado o per lo shogun, o per il daimyo, quello che stai
facendo, una splendida azione di guerra, ha nascosto il tuo tornaconto. Un
samurai non ha tornaconto. Il segreto dell’arte marziale è espresso da questa
parola giapponese: Shinigurui. Shinu
significa morire, gurui significa pazzo: morire pazzamente, morire inutilmente,
morire da folli. Ci torneremo sopra. L’arte del combattimento deve portare la
persona allo Shinigurui, al morire follemente, al morire senza un perché, al
morire senza una ragione, cioè senza un tornaconto.
L’alabarda che protegge è la
forza messa al servizio del nostro patrimonio interiore, di quel fuoco segreto
che abbiamo visto nel primo ideogramma, di quel fuoco compresso nelle nostre
viscere.
Seconda parola: shi (Bu-shi-do).
Do non lo scriviamo perché tutti sanno come si scrive e che cos’è. E’ un’altra
parola per dire uomo, per scrivere uomo. In questo caso si scrive in questo
modo, 士. Ma che cos’è quest’ideogramma? Attenti! L’ideogramma
dell’uno ( 一 ),
l’ideogramma del numero dieci +. Perché? Gautama Siddhartha, Buddha, diceva “ in questo corpo d’uomo alto
7 palmi, c’è il segreto della nascita dell’universo”, la composizione
dell’universo, il segreto della terra e del cielo. Uno, dieci: la serie dei
numeri. L’uomo racchiude in sé tutte queste potenzialità. Nell’antica Grecia,
Pitagora scriveva su una lavagna: 1+2+3+4=10. I suoi allievi rimanevano circa
cinque anni in meditazione davanti a questa semplice equazione banale, che la
impariamo in prima elementare. Abbiamo visto la prima forma per scrivere uomo,
adesso ne vediamo un’altra forma. Un mistero! La serie infinita delle
possibilità comprese tra uno e dieci. E questa serie infinita di possibilità ci
mette davanti ad una grossa responsabilità: quali delle nostre potenze latenti
noi svegliamo e portiamo a compimento mediante l’ arte marziale? Quali? L’egoismo?
L’Altruismo? Quali? Ogni civiltà che ha fatto della guerra uno strumento giusto
di difesa, ha dovuto sempre insegnare al guerriero a domare il drago che è
nascosto dentro di lui. Nella nostra cavalleria occidentale c’è la figura di un
santo, San Giorgio, il quale vince il drago. Ma come lo vince? Usa l’arco e la
freccia? No. Non usa neanche la spada. Sta su di un cavallo e usa una lunga
lancia, ad indicare la forza diretta a compimento del dovere. Il cavallo, nella
nostra simbologia, è la nostra natura terrena; il cavaliere sul cavallo è
l’uomo sul cavallo, è l’uomo che dirige la potenza del cavallo, che porta il
cavallo alla vittoria. Non è il centauro greco che è spinto dal cavallo; perché
è uomo di sopra e bestia di sotto e non si può scindere. Se si scinde, un
centauro, non è più un centauro, è mezzo uomo e mezzo cavallo. L’uomo “sul”
cavallo. Anche in Giappone si trova un elemento del genere, simbolico. Prima
dell’era Tokugawa il bushido si chiamava kyuba no michi, la Via dell’arco e del
cavallo. Il cavaliere è un elemento importante della vittoria, un elemento
importante della formazione di un militare ma qui il cavallo ha anche un altro
valore simbolico.
Quindi quali delle energie che
sono in noi, noi portiamo a compimento?
Il drago o la principessa? Infatti nel
mito occidentale San Giorgio affronta il drago per liberare un’innocente
principessa vergine, legata ad una roccia. Questa principessa legata ad una
roccia è la nostra anima, la nostra mente, la nostra natura interiore, legata
alla roccia della nostra terrestrità. E allora l’opera di San Giorgio che vince
il drago e libera la principessa è l’opera che competerà a tutti i cavalieri,
che abbiano o meno gli occhi a mandorla.
Scopo finale delle arti marziali
è insegnarci a combattere la nostra giusta battaglia, quella dentro di noi.
Come si arriva a questo? Come è possibile questo? E’ possibile levando di mezzo
due cose importanti: il pensiero discorsivo e la mente logica, dalle quali
discende il fatto che noi ci sentiamo tanto diversi dagli altri, ci sentiamo
tanto superiori agli altri, ci sentiamo al centro dell’universo. Mentre noi non
dovremmo essere al centro dell’universo, dovremmo essere al centro del nostro
piccolo universo, ma come signori, come padroni.
無 (mu)
non. Nello Zen è una particella molto importante. Un monaco chiese al Maestro:
“Anche il cane ha la natura del Buddha?” E Maestro rispose: "Mu".
Apparentemente significa no.
Vedete mu è un cancello, è un
cancello nel quale ci sono le sbarre. Questo cancello ti sta dicendo che il
cammino è bloccato.
Mu - shin: non mente. Mu - nen:
non pensiero. Mu - ga: non io. Questa è l’essenza dell’arte marziale. Si
definisce attraverso una negazione: non mente, non pensare. Vi è stato ripetuto
sul tatami migliaia di volte. Quando hai un avversario davanti, se pensi alla
tecnica da usare in quel momento, anche se per una sola frazione di secondo, se
pensi a quella tecnica sarai sconfitto, sarai ucciso.
Che cosa bisogna fare? Bisogna
allora distruggere la mente? E come potremmo distruggere la mente se la mente
ci è stata data, fa parte del nostro patrimonio, culturale, psicologico, umano?
La mente fa parte di noi. Che cos’è che dobbiamo distruggere? Non dobbiamo
distruggere la mente, dobbiamo distruggere l’arroganza che il nostro mondo,
negli ultimi tre-quattro secoli, ha dato alla mente, affidandole il potere di
spiegare tutto quello che c’è intorno a noi: le leggi dell’universo, i
sentimenti dell’uomo. Ma la mente è cieca.
"Il lume s’è spento. Mi
corico. La luna nella finestra." Questo è un haiku del grande maestro
Matsuo Basho. Il lume s’è spento; quand’è che si spegne un lume? quando la
lampada non ha più olio da bruciare.
Ed essendosi spento il lume, cosa
fa questo Maestro nel suo ritiro d’inverno, nel fuyu gomori, nel ritiro
invernale? Si sdraia sul tatami; dice ‘beh, visto che si è spento il lume,
dormiamo’. Ma in quel momento dalla finestra appare la grande luna, immagine
della contemplazione, immagine del risveglio. Quando le luci delle nostre
piccole certezze, delle nostre lampadine, più o meno tascabili, dei nostri
lumini, coi quali cerchiamo di capire quello che ci circonda si coricano,
appare la luna. Mi vengono alla mente le frotte dei turisti, purtroppo
giapponesi, i quali in queste grandi notti stellate tirano fuori la loro macchinetta
e sparano col flash verso il cielo; certo non quelli più istruiti, ma la gran
parte tirano flash verso il cielo, pensando che quella lucina arrivi lassù.
Così siamo noi.
Il lume s’è spento. Mi corico.
Che significa mi corico? Me ne sto tranquillo, ho provato tutto, non ho più
nessun tipo di soluzione da dare al problema. La vita è un koan, è un problema
Zen, è un paradosso da risolvere, da penetrare. Il lume s’è spento.
Mi corico e finalmente sto
tranquillo E proprio in quel momento la luna splende nella finestra. La
finestra è immagine della nostra mente. Ma Matsuo Basho non aveva ucciso la
mente, era ancora capace di scrivere ideogrammi, li scriveva, ma aveva fatto sì
che la mente riflettesse la luce dello spirito, aveva fatto sì semplicemente
che la mente, che è luna, si comportasse da luna, brillasse della luce del
sole, questo sole che è nascosto. E’ nascosto, è oltre noi, è dentro di noi ma
è così nascosto, così lontano. E fu così che lo stesso maestro nei suoi ritiri
d’inverno scrisse:
chiaro e puro
lo specchio
tra i fiori di neve
Lo specchio era la sua mente che
diventa chiara e pura tra i fiori di neve. fra i cristalli di ghiaccio. Quale
era lo specchio? Aveva lasciato lo specchio, se lo era dimenticato fuori dalla
capanna? No, lo specchio era la sua anima, la sua anima era diventata pura,
l’anima del combattente deve essere pura, scevra. Voi siete nella condizione
ideale, non dovete neanche più combattere per un Daimyo, ne per l’imperatore.
Dovete combattere per l’ imperatore che è dentro di voi, siete tenuti a questo
giuramento di fedeltà. Non c’è più un Mikado
da noi, non c’è un Mikado e neanche qualche Shogun al quale valga la
pena di regalare la vita. Tutti siamo Ronin, tutti siamo uomini onda, tutti siamo
combattenti che combattono per la disciplina, per l’ onore e per la bellezza
dell’arte del combattimento. Ro nin, liberi. Da una sola cosa non siamo liberi
e non saremo mai liberi: da noi stessi, se non ci liberiamo. Ecco quindi l’arte
del combattimento intesa come assenza di niente, assenza di pensiero, assenza
di io, mu ga non io. Pensate che i templari andavano in Grecia,
andavano in lotta, in battaglia, precedendo il combattimento con queste parole
“Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam” “Non a noi, o Signore,
non a noi, ma al tuo nome da’ gloria”. Ecco: non io, non noi. Ma allora per chi
combattiamo? Per il nostro dojo? E’ bello combattere per il nostro dojo perché
qui siamo nati, qui ci fortifichiamo, qui impariamo, ma c’è un grande dojo che
ci aspetta fuori da queste porte, il dojo in cui dobbiamo dimostrare la bontà
dell’insegnamento ricevuto e la bontà di quanto abbiamo appreso da quello che i
nostri maestri ci hanno insegnato. La vita è un dojo, tutta la vita è un dojo,
è un dojo nel lavoro, è un dojo nei sentimenti, è un dojo nelle prove. Le
prove, il nostro mondo ha tentato di tenerle fuori dalla finestra, lontane,
esorcizzandole con il chiasso della musica, con la magia degli antibiotici, col
rumore, ma questo non può essere fatto, la sofferenza va virilmente accettata.
Nell’Hagakure, scritto da Yamamoto Tsunetomo, samurai e poi monaco nelle
solitudini immortali, si ripete spesso
questo pensiero. Affrontare la sofferenza come un dono degli Dei. Quando gli
Dei ti vogliono bene ti mandano la sofferenza, le difficoltà, apparentemente
insormontabili, perché vogliono che tu ti tempri. La via del guerriero è
simile, se non identica, al modo con cui viene forgiata una buona spada. La
spada giapponese viene forgiata da una sabbia ferrosa. Quindi da un infinità di
piccoli individui che contengono il ferro che sono i grani di questa sabbia, ma
non sono la spada. Questi grani vanno fusi insieme. Vanno fusi insieme per
ottenere un tutto omogeneo ma ancora impuro, che va martellato, scaldato,
martellato, scaldato fino a tirar fuori ogni impurezza, e l’operazione è un
operazione rituale, per cui il fabbro veste di bianco, ha benedetto la forgia,
ha benedetto l’incudine, si attiene ad un regime alimentare, per non sporcare
con le sue essudazioni spirituali, con gli effluvi psichici, il metallo che sta
forgiando.
E come è fatta una buona spada? Se potessimo tirar fuori da un
diamante una spada o anche una semplice wakizashi o ancora un piccolo tanto,
noi potremmo tirare fuori dal diamante la spada più affilata del mondo.. ma servirebbe
a qualcosa? A tagliare forse si, ma a combattere no, perché l’estrema durezza
porta alla massima fragilità. Il maestro Lao Tzu diceva in Cina, rigido e duro
è il modo della morte, flessibile il modo della vita. Ecco allora che il fabbro
accoppia, accoppia saggiamente uno strato di ferro dolce, a uno strato di
acciaio, battuto, temprato, carbonato. Fatto assimilare il carbone, accoppia
questi due strati uno è maschio e uno è femmina, li piega, li salda, li
riaccoppia, li ripiega ancora fino a ottenere decine, centinaia forse migliaia
di strati dove il forte e il debole, lo yang e lo yin si armonizzano. Una sola
cosa deve essere rigida nella spada, il taglio che opponiamo al nostro nemico.
Che significa questa flessibilità interna della spada? Il credo dei samurai
dice: non ho principio, l’adattabilità alle circostanze è il mio principio,
adattarsi alle circostanze, non scappare, adattarsi alle circostanze, temperare
le circostanze con la nostra forza interiore. Fu-do-shin. Mu, o Fu, l’
ideogramma che avete sopra, Shin ce l’avete lì (indica i fogli n.d.c.) e Do è
la via. Fu do shin, la mente senza cammino, cioè la mente che non si muove, la
mente fissa, immobile, questa è l’arte del samurai. Non ho castello, fu do shin
è il mio castello, cuore e mente immobili, fu do senza via, che non si muovono,
non perché non c’è via, ma perché la via è stata percorsa, non c’è più nessuna
via da seguire, siamo la via. Questo è il mio
castello, Fu Do Shin, la mente immobile. Immobile nei confronti di chi? Eh…
Della troppa gioia, del troppo dolore, dell’orgoglio, della semplice gioia,
delle piccole sofferenze, dell’ammirazione degli altri, dei nostri spaventi,
delle nostre angosce. La nostra mente è turbata, Fu Do Shin è la mente che,
attenti, non ha smesso di soffrire, non ha smesso di lottare, ma ha trovato
l’equilibrio, la luce e la fermezza in ogni occasione della vita, ecco perché i
due testi che ho citato sono complementari: non ho principi, l’adattabilità è
il mio principio; non ho castello, la mente immobile è il mio castello. Come si
arriva alla mente immobile? Quando togliamo di mezzo noi stessi. Un buon allievo dovrebbe offrire, quando compie un buon
combattimento, il meglio di questo combattimento non a se stesso, ma al
Maestro che lo ha portato ad apprendere quell’arte. E’ chiaro che il merito è
anche suo, ma per umiltà dovremmo riferire le nostre bravure a quelli che ci
hanno insegnato come camminare, come seguire il Do, la via. Scomparire, non cercare
interesse, l’orgoglio uccide. Quando io lasciai i tatami del Kendo, erano
apparse le katane elettroniche, quelle col fischietto che quando tocchi
l’avversario s’accendono le luci. Così il Kendo è morto, è finito, non c’è più,
è plastica. Un poeta giapponese moderno scrisse un Haiku apparentemente
blasfemo, nel senso che sembrerebbe andare contro la bellezza del Giappone,
rosa autentica dura un giorno, rosa di plastica dura una vita, ecco la
differenza. Il nostro mondo ci ha congegnato una vita che è fatta di plastica,
che offre l’apparenza di una vera vita, ma solamente l’apparenza, nulla a che
fare con la verità. Ecco a che cosa serve l’ arte marziale: sincerità. Ecco l’
altra grande spada che il samurai deve coltivare continuamente, la sincerità.
L’uomo è quello che è perché sa dare una parola, ed essere fedele alla parola
data.
Questa è la bocca dalla quale
emergono parole… (Indica i fogli, n.d.c.)
Ci mettiamo vicino l’uomo, e
abbiamo Makoto.
Makoto significa Sincerità, Purezza di Cuore, Lealtà totale.
Ma guardiamo da che cosa è
formato l’ideogramma:
da un uomo che sta davanti alla
sua bocca dalla quale escono le parole. Cioè un uomo che è tenuto a dar conto
della parola che ha dato, perché questa bocca (Kuchi) è aperta e parla.
Kotoba è parola. Kuchi è Bocca:
questo è kotoba parola detta, parola pronunciata, parola che gli altri hanno
sentito.
Ma c’è un uomo davanti alla
parola. Questo è un uomo davanti alla parola data, questo è: Makoto.
Che significa Makoto? Sincerità.
Sincerità nei confronti di chi?
Nei confronti della Via che stiamo seguendo. Nei confronti del Maestro che ci
insegna a seguire questa Via. Ma prima ancora, sincerità nei nostri confronti.
Capacità di ammettere i propri errori, capacità di un continuo perfezionamento,
accompagnato dalla radiosa certezza che non diverremo mai perfetti perché
solamente gli Dei, i Kami sono perfetti.
Una vita intera spesa a cercare che cosa? L’eccellenza. Eccellere, sollevarsi
al di sopra. Di chi? Attenti! Non degli altri, ma di noi stessi. Eccellenza è cercare di essere migliori ogni giorno, ogni mese, ogni
anno, attraverso il patrimonio spirituale, e psichico e fisico, che ci dona
l’arte marziale che stiamo seguendo. A questo serve l’arte marziale. Makoto è
sincerità. Sincerità nei nostri confronti, sincerità nei confronti degli altri,
delle persone che abbiamo vicino, sincerità nei confronti della natura. Makoto
nei confronti della natura si palesa, si manifesta come un amore, una
sensibilità verso ogni essere senziente, e questo è uno dei grandi capisaldi
del Buddismo. La capacità di vedere nell’essere senziente, qualunque esso sia,
dal cristallo all’animale più evoluto, la
nostra stessa natura. Noi siamo diversi da loro, ma non per perfezione, siamo
diversi da loro per responsabilità, che a noi è stata data anche nei loro
confronti. Quindi, questo Bu, questa guerra, la dobbiamo combattere anche per i
deboli, per gli indifesi. Che oggi non sono più gli sfruttati, non sono più
solamente gli sfruttati, è tutto il sistema che ci circonda. L’ecosistema è
diventato bisognoso d’aiuto. Ma come possiamo far del bene all’ecosistema se
non moderiamo i nostri appetiti, se sprechiamo benzina quando è inutile
sprecarla, se buttiamo da mangiare, se mangiamo troppo, se ci vestiamo con cose
costose, se viviamo con un tenore di vita dispendioso? Ce lo possiamo
permettere perché abbiamo i soldi? Doppia condanna! I tuoi soldi li hai spesi
male… hai perso un’opportunità... Quindi come riusciamo noi ad essere sinceri verso
noi stessi? Ce lo insegna lo Zen con una frase che a me fu detta quand’ero poco
più di un ragazzo, e che tutti i giorni ancora oggi medito: ‘Quando hai fame
mangia, quando hai sete bevi, quando hai sonno dormi.’ E’ cosi semplice. Prova
a farlo…
Provate ad essere sinceri con voi
stessi e sapete se quel momento è il momento in cui veramente devi dormire, o
veramente devi mangiare, o veramente devi bere… che cosa devi mangiare, che
cosa devi bere, quanto devi dormire, come devi dormire...
L’uomo davanti alla parola data.
Quell’ideogramma, quei due ideogrammi, ci portano in un contesto che è sociale,
perché la parola la diamo perché altri l’ascoltano; se c’è una bocca che parla
c’è un orecchio che ascolta. E allora noi siamo testimoni della parola che abbiamo dato agli altri. Giuramenti fatti,
promesse fatte. Noi siamo responsabili dell’esito di quella parola, dell’esito
della parola che abbiamo dato. Nel Buddhismo guerriero del Giappone, agli eroi
che muoiono sul campo di battaglia viene concesso di reincarnarsi per sette
volte consecutive per aiutare il loro padrone, il loro daimyo, ad ottenere la
vittoria sul campo.
Fedeltà per sette generazioni.
Perché una sola Vita non è sufficiente. Il Bodhisattva, il monaco Zen che
pronuncia i suoi voti, fa il voto di non diventare Buddha, cioè di non
raggiungere l’illuminazione fino a che anche l’ultimo filo d’erba non sia
diventato Buddha. Una vita spesa nella disciplina, shugyo, nella meditazione,
per fare che? Per ottenere il Nirvana… Ma il buon monaco non fa il monaco per
ottenere il Nirvana, eppure c’è l’ha nelle mani.
Il buon praticante di arti
marziali non fa arti marziali per imparare a picchiare gli altri o a essere più
forte degli altri, eppure potrebbe farlo... Il monaco ha il Nirvana nelle mani.
Una vita di disciplina, il Nirvana pronto come un frutto maturo.
“Shu-jo
mu-hen sei-gan do Gli esseri sono
innumerevoli, voto di aiutare tutti
Bon-no mu-jin sei-gan dan Le brame sono inesauribili, voto di
estirparle tutte;
Ho-mon mu-ryo sei-gan gaku Gli insegnamenti sono infiniti, voto di
apprenderli;
Butsu-do mu-jo sei-gan jo” La Via del Buddha è suprema, voto di
realizzarla”
(traduzione da Wikipedia i quattro
voti del Bodhisattva n.d.c.)
Faccio voto di non diventare
Buddha fino a che l’ultimo essere senziente non sia diventato lui il Buddha. Il
che significa, attraverso catene infinite di reincarnazione, dal filo d’erba
all’essere evoluto, al Bodhisattva.
Benevolenza, gentilezza d’animo,
sincerità.
Una storia del Buddha nepalese
racconta che Gautama Siddharta nella vita precedente era un Bodhisattva, un
monaco, che faceva astinenza e digiuno in una foresta dove c’erano le tigri…
(Ho visto che il vostro Dojo si chiama ‘Tora’/Tigre …)
Faceva astinenza in un
bosco dove c’erano delle tigri e ad un certo punto ha sentito uno scricchiolio
d’ossa. Una vecchia tigre, oramai incapace di cacciare qualcosa di più forte
dell’uomo, gli girava attorno. Lo scritto riferisce al Buddha queste parole,
“Avrei potuto alzare la mano destra nel Mudra della difesa e la belva sarebbe
caduta in adorazione ai miei piedi… ma ebbi compassione e lasciai che
affondasse le sue zanne nel mio corpo, e perché la mia offerta fosse completa
non scollegai la mia mente dal corpo. Qualunque fachiro sa non sentire dolore
ma lasciai che il mio corpo sentisse dolore fino alla morte.” Questo gesto
compiuto nei confronti di un essere che normalmente viene reputato, per quanto
ammirato, inferiore a noi, una bestia, ha fatto si che questo anonimo monaco
delle foreste bengalesi si reincarnasse per l’ultima volta in un corpo mortale
e diventasse ‘Lo svegliato’ il Buddha.
Queste sono le arti marziali.
Makoto si scrive in due modi: si può scrivere così ma si può scrivere anche in
un altro modo usando, (indica sempre gli ideogrammi disegnati sui fogli
n.d.c.), Kuchi, la bocca, la parola
Kotoba, ci aggiungiamo un’altra volta
l’alabarda, che si legge Naru che è la radice verbale del verbo essere. Naru
significa in giapponese ‘essere’ e anche ‘diventare’. E’ chiaro? C’è bisogno di
andare avanti nella spiegazione?
Io, davanti alla parola che ho
dato, sono tenuto ad essere la parola che ho dato. E se non sono ancora la
parola che ho dato sono tenuto a diventare la parola che ho dato. La mia vita
deve essere la sostanza della parola che ho dato. Il mio comportamento deve
dimostrare la Verità della parola che ho dato. Anche questo secondo gruppo di
ideogrammi si legge Makoto, si può scrivere in due modi. Nella riga di sopra,
nella riga di sotto, entrambi i modi sono validi.
Sincerità… Non mentire!
Un buon guerriero dovrebbe fare
ogni sera un minimo di esame di coscienza.
A che serve l’esame di coscienza?
Serve per sapere cosa abbiamo fatto di buono nella giornata, cosa abbiamo fatto
di cattivo, e quanto di quello che abbiamo fatto di buono si poteva fare
meglio.. questo è l’esame di coscienza, questo è Makoto.
Ed ecco ancora, quindi, dal credo dei Samurai: Non ho potere divino,
non sono un Maestro di magia, non conosco le vie della magia… la Lealtà è il
mio potere divino, la Lealtà è la mia magia.
Lealtà = Chū 忠
Due ideogrammi. Quello sotto
abbiamo imparato a riconoscerlo, Shin / Mente. Quello di sopra è un ideogramma
che si legge Naka che significa, ‘Centro’ al centro.
Quindi Fedeltà, Chuu significa essere al centro del proprio cuore,
al centro della propria mente, al centro della propria anima. Non deviare.
Chuu.
Chuugi 忠義 è il dovere di fedeltà, è il dovere
di fedeltà che il samurai esprime nei confronti dell’Imperatore, attraverso la
persona del Daimyo, e il dovere di fedeltà anche per il proprio popolo, che si
impegna a difendere con la sua Naginata, con la sua alabarda, con la sua
katana. “Chuu”, fedeltà, si compone di due ideogrammi: essere centrati nel
nostro cuore, non andare fuori dal nostro cuore, non andare fuori dai confini
che noi abbiamo tracciato, la parola data ci obbliga. La parola ci obbliga.
I contadini dell’Appennino, dove
vivo, hanno un proverbio che dice:
“Parola
data, vita persa”.
[Legge n.d.c.] “La perfetta
sincerità di cuore, Makoto誠, è il principio supremo dello
“Shintō”,- sapete che in Giappone ci
sono due spiritualità no? “Shintō (神道) o Kami nagara惟神”, la via degli dei, “Shintō o Kami nagara”, e il Buddhismo
nella sua forma Zen. Va bene? “ Ma anche nello Zen, makoto è più di una virtù
morale, è la dignità della persona umana, makoto è un modo sincero di
intraprendere la via, con tutto il cuore. L’atteggiamento a cui nulla sfugge è
il risultato dell’acquisizione della coscienza del divino, e reazione umile e
sacra, al contempo, che avviene in noi quando entriamo in contatto direttamente
o indirettamente con l’azione dei Kami, del divino, degli dei. Quando sappiamo
che esistono, quando ci sentiamo rassicurati dalla loro prossimità, dalla loro
presenza dentro di noi, e dalle cose che ci compongono. Allora, mentre una
parte di noi prova un senso acuto della nostra pochezza, e imperfezione, in
presenza degli dei, un’altra è immersa in una gioia ineffabile, in
un’ineffabile gratitudine, per il privilegio di vivere nell’armonia della
natura.”
In questo modo si spiegano i
grandi momenti della liturgia annuale, in cui il giapponese venera la sacralità
della natura. “Yuki-mi” la meditazione sulla neve.
Nei lunghi giorni d’inverno,
quando la neve copre tutto, si indossa un kimono speciale e si va da soli, a
meditare seduti nella neve al freddo, a fare lo “Yuki mi”, “Mi”
見
significa guardare, l’ideogramma dell’occhio, guardare, guardare la neve. Ma
guardare la neve significa guardare oltre la neve. Poi il giapponese fa lo
“Tsuki
月-mi”, a settembre, nelle grandi lune del principio
d’Autunno, questa grande Luna, “Mangetsu” [plenilunio n.d.c.], questa Luna
splendente, questa Luna pura, di nuovo in atteggiamento liturgico, di offerta,
con kimono pulito, con un kimono speciale, si va di notte in luoghi appartati,
a fare “Tsuki-mi”, a guardare la Luna, a far sì che quella Luna entri dentro di
noi, a far sì che quella Luce entri dentro di noi, risvegli le potenze latenti,
della nostra anima.
Un monaco Zen, che stava
cucinando nella notte le patate per il giorno successivo, quindi impegnato in
un’azione umile, in una cucina buia, fumosa, immaginate questo paiolo con le
patate che bollono, senza luce, un raggio di luce entra dalla finestrella della
cucina e cade nel paiolo. E lì il Monaco ottiene il Satori, e scrive un haiku,
che dice:
“Anche
nelle patate che bollono
la Luna piena”
Anche, nelle patate che bollono,
la Luna piena. Cioè anche nelle cose più umili della vita, cercare la Luna, che
abbiamo visto essere in Giappone l’allegoria del risveglio, della mente aperta,
della mente ormai libera.
Ecco allora questo entrare in
contatto con i kami non significa fare meditazioni trascendentali, significa
semplicemente andare, sedere nella natura e respirare, assaporare, sentire i
profumi, ascoltare il canto degli uccelli, guardare, bagnarsi con la pioggia,
asciugarsi col sole. Per il giapponese questi sono momenti importanti della
vita, questo è il makoto, la sincerità. Vivere, nella pienezza della nostra
vita, insieme alla natura che ci circonda. Non è naturismo, non è stare bene
perché ci fa bene all’anima, è quello che ogni essere
umano dovrebbe fare, per non sentirsi isolato dalla grande Madre che ci
circonda e che ci abbraccia. Della quale siamo incapaci ormai di cogliere gli
effluvi terapeutici , le energie che curano, che alimentano l’anima.
Sincerità. Il monaco Ungo di
Matsushima, mentre viaggiava di notte attraverso le montagne, incontrò dei
briganti e disse loro: “Sono un povero monaco che abita in queste vicinanze,
non sono un pellegrino, non porto soldi con me. Se volete vi do i miei vestiti,
ma risparmiatemi la vita”. I briganti risposero “Va bene, le nostre fatiche
sono state inutili, non abbiamo bisogno di vestiti” e se ne andarono via. Fatta
un po’di strada, Ungo tornò indietro e chiamò i briganti dicendo loro: “questo
povero monaco ha infranto il precetto buddhista di non dire bugie, nella
confusione ho dimenticato di avere in tasca una piccola moneta d’argento, e vi
ho detto di non avere del denaro, non arrabbiatevi, vi do questa moneta che vi
prego di ricevere”. I briganti, commossi, tirarono fuori le loro katane, si
tagliarono i capelli sull’istante, e divennero discepoli, del monaco.
Questo è un risultato del makoto.
La purezza che vince. La purezza,
la sincerità, la lealtà che vince il male altrui. Vince il male altrui. Il
monaco ha mentito, anzi non solo ha mentito, aveva anche paura di morire,
perché “per favore risparmiatemi la vita” significa “ho paura di morire”. Si
pente, è sincero nei confronti di sé stesso, torna dai briganti e loro, colpiti
da questa sincerità del cuore, si tagliano i capelli e diventano bonzi, cioè lo
seguono, nel cammino del Buddha.
Sincerità.
Non sporchiamo un altro foglio di
carta, basta quello. Abbiamo visto che uomo, hito, si può scrivere così, o se
si usa la radice dell’ideogramma, si può anche scrivere così e si legge uguale.
Questo sappiamo che significa uomo.
Benevolenza. Jin, :仁
“uomo” e due trattini. Questo è l’ideogramma di Ni il numero due. Ichi, Ni,
due. Uomo, davanti agli altri. Noi davanti agli altri, non sono più solo, siamo
almeno in due, io di fronte all’altro. Questo è Jin, la benevolenza. Tener
conto che la mia vita esiste, in armonia con la vita degli altri. Chi sono gli
altri? Piante, animali, esseri umani, e anche gli dei, invisibili, che sono
intorno a noi, e che spesso offendiamo, col nostro atteggiamento. Jin,
benevolenza, la coscienza di non essere solo nel mondo, ma di essere in un
complesso sinergico, nel quale quello che faccio ridonda, nel bene o nel male,
sugli altri, su quelli che mi stanno intorno.
Credo del samurai: “non ho
armatura, la benevolenza, (Jin), e il dovere (gi), sono la mia armatura".
Quando scrivevo questo libro, la
neve mi dettò queste parole: “la grandezza d’animo consiste nel rimanere
impassibile dinanzi ai più forti e nel sapersi commuovere, dinanzi ai più deboli,
agli indifesi, e ai vinti. Questa magnanimità unita a un’intima delicatezza e
sensibilità era detta “Bushi-no-nasake,” sensibilità del guerriero,
raffinatezza d’anima, nobiltà dell’anima del guerriero. La sensibilità verso il
dolore altrui, scriveva Meng-tzu [Mencio, saggio, filosofo cinese, aderente al
confucianesimo 372 / 289 a.C. n.d.c. ], è
la radice della benevolenza, la benevolenza vince con la propria potenza ogni
cosa che le si opponga, come l’acqua prevale sul fuoco. Solo coloro che tentano
di spegnere una catasta di legna in fiamme con una piccola tazza d’acqua,
dubitano di poter aver ragione del fuoco, con l’acqua, ma l’elemento “yin”
l’acqua è più forte del fuoco.” Questa è la benevolenza, fa parte della via del
guerriero, è quella parte tenera della spada, quella lamina di ferro dolce.
Quelle innumerevoli lamine di ferro dolce che fanno parte delle innumerevoli
occasioni della tua vita, in cui devi saper essere dolce, senza dimenticare le
altre innumerevoli occasioni in cui devi essere acciaio forte.
La spada è l’anima del guerriero.
Questa è la sensibilità. E lo “shino-gurui”? Lo abbiamo lasciato per ultimo.
Questo “pazzo-morire”: “shino” = morire, “kurui” = pazzo. Morire senza un
perché. Le arti marziali insegnano questo, a gettar via la propria vita, no?
Morire senza un perché, morire pazzamente, significa morire senza speranza di
tornaconto. Morire, la possibilità di morire, senza aver ricevuto nient’altro
se non la gioia di aver affrontato una bellissima battaglia. La gioia di aver
combattuto con onore. Non cercare la ricompensa. Fin dall’antichità, in Europa
noi dicevamo cose diverse ma pur uguali. In quella parte del grande poema epico
dell’India che è il Mahābhārata, nella Bhagavad gītā, “il canto del Signore
splendente”, il Dio dice al guerriero, Krishna:
“Sorgi risoluto alla battaglia, vinto conquisterai i cieli, vincitore
conquisterai la terra. Vai e combatti”.
Ed è molto interessante
riprendere l’immagine della Bhagavad gītā. Vedete però? Distanze abissali: di
tempi, di spazi. Eppure, all’interno, al centro di tutto questo c’è l’uomo. Per
questo all’inizio vi dissi “Sono uno che ha cercato l’uomo, che ha cercato il
senso dell’Essere Umano”. C’è l’Uomo, c’è la creatura, c’è la complessità del
suo essere Uomo.
Nella Bhagavad gītā il guerriero si chiama Arjuna, e il dio si
chiama Krishna; vengono rappresentati in piedi su un carro, legato a dei
cavalli. L’auriga del carro, quello che porta il carro, chi è? Arjuna o
Krishna? È Krishna. È il dio che conduce il carro. E il guerriero che cosa fa?
Combatte. Uscite fuori dal mito, dal simbolo: il carro è il nostro corpo; i
cavalli sono le nostre energie; l’auriga è quella mente superiore, quella mente
dominante, quella mente di testa che dovrebbe far sì che noi, come combattenti,
possiamo seguire ogni giorno l’arte del buon combattimento; che poi sarà il
carro e un dio, il cui nome, il significato del nome, significa Oscuro. Ma
perché, è un genio del male? No: perché non lo vedi. Perché è nascosto. È
nascosto nell’intimità delle cose, è nascosto nella nostra natura. E il
guerriero come si chiama? Arjuna. Latino argentum: argento; greco argos,
bianco; aristos: nobile. L’uomo e il dio sono due persone nella stessa natura,
due nature nello stesso carro, due entità nello stesso carro: quel carro siamo
noi. Dobbiamo far sì che non esista più differenza tra chi combatte e chi porta
il carro. Tanti secoli dopo, IV secolo a.C. , anche Platone evocava l’immagine
del carro, al quale erano legati due cavalli: uno bianco e uno nero. Quello
bianco vuole sempre salire, quello nero vuole sempre scendere, e noi portiamo
le redini del carro, dobbiamo imparare.
Non possiamo uccidere il cavallo nero,
ecco il problema. Non dobbiamo, non possiamo uccidere il cavallo nero, dobbiamo
domarlo. Ecco allora che la nostra forza, la nostra energia, va domata.
Il nemico principale del
guerriero è espresso da questo ideogramma (scrive un ideogramma alla lavagna,
n.d.c.): KA, forza, nemico e risorsa. Imparando a usare la forza, fai del
combattimento una via di liberazione, per te e per quelli che sono vicino a te.
Ma, direte, non siamo in guerra! Eh sì, non siamo in guerra. Ma sicuramente
avrete un fidanzato o una fidanzata, delle famiglie, o li avrete, dei figli:
ecco la nostra guerra; ecco la nostra guerra! Quello che noi facciamo, lo
portiamo fuori di noi. L’usignolo canta perché è usignolo, la rosa profuma
perché è rosa. E la persona che ha liberato sé stessa è un fiore raro, di cui
questo mondo ha bisogno. Ma non c’è benevolenza se non c’è sensibilità, e non
c’è sensibilità se non c’è allenamento! Bun-bu ryo-do: la doppia via, delle
armi e della cultura. Quando dico “cultura” rabbrividisco: oggi ce n’è troppa
di cultura. La uso nel senso latino di colere, coltivare. Pensate, una lingua
così pratica, come quella dei nostri antenati latini: dicevano “coltivare la
terra” e “cultura” con lo stesso verbo,
perché noi siamo la terra da coltivare! E perché una pianta nasca, ci
vuole il seme: per questo ci sono i maestri. Piantato un seme, il seme va
coltivato, va innaffiato, va difeso. Cultura è la coltivazione della nostra
terra. Cultura è far nascere da noi la nostra natura interiore: quell’usignolo
che non sappiamo dov’è, quella rosa che non sappiamo dove fiorirà. Ma ci sono,
in noi. Ecco allora che il guerriero giapponese coltiva la bellezza. La
bellezza intesa non come bellezza estetica, perché questa è un demone che
ottunde la mente. Troppa musica, troppi colori, ottundono la mente. La bellezza
intesa come culto dell’armonia, e anche culto delle cose belle. Un giorno
trovarono un guerriero sul campo di battaglia, morto. Nell’obi, nella fascia,
sotto la cintura della katana, c’era un foglio di carta di riso. E’ diventato
immortale, perché quella poesia è arrivata fino a noi. Stava per andare sul
campo di battaglia, da un albero ha sentito un usignolo cantare, e ha scritto,
tirando fuori il pennello, “Il forte guerriero vestito di ferro, sosta sotto
l’albero, ad ascoltare il canto dell’uguisu -
dell’usignolo - dolce gorgheggio
che scende dai rami.”.
Cioè quest’uomo, prima di entrare in battaglia, ha avuto
il modo, l’onore, il valore, di togliersi il kabuto, di togliersi l’elmo, per
poter ascoltare liberamente questa piccola creatura che è il simbolo del
Giappone. L’usignolo e il fiore di ciliegio sono simboli del Giappone. E
perché? Solo perché l’usignolo è bravo a cantare e perché i fiori di ciliegio
sono tanto belli? I fiori di pesco sono ancora più belli. Le orchidee sono
ancora più belle. Ma il Giappone ha voluto prendere l’usignolo, uguisu, e il fiore di sakura: perché? Quanto tempo lo udite cantare
l’usignolo? Una finestra della mia casa sta davanti a un bosco, e quando
l’usignolo canta, canta per poco più di un mese: non c’è più modo di sentirlo
poi. Non c’è più modo. È effimero il canto dell’usignolo, ed è talmente bello
che di notte non riesci a dormire: ti sembra un crimine! E il fiore di
ciliegio? Quanto dura un fiore di ciliegio? Nulla. Il tempo di una notte, di un
mattino, e poi il vento radioso se lo porta via. Dove? O Sora, nel cielo, in
questo grande vuoto infinito che nessuno conosce, dal quale tutte le forme
provengono, nel quale tutte le forme si spiegano, nel quale tutte le forme
ritornano, e al quale tutte le forme ti riportano se tu mediti nel modo giusto.
L’essenza delle cose non è la cosa, è il vuoto che sta nelle cose, vuoto è il
Mu. Mu - dovrei girare mille fogli - mu mu no no (indica la lavagna a fogli
presente al suo fianco, n.d.c.). Quando parliamo dell’essere supremo, non
facciamo le parole crociate, “Dio è così e così e così”, non arriveremo mai a
capirlo! Nell’antica India si diceva “Nedi, nedi”, non è questo, non è questo,
non è questo, non è questo! Lo Zen che dice? È uguale: no, no, Mu, Mu, Mu, Mu.
Fino a che abbandoni l’idea di poter dare un corpo al Sacro, al Dio. Ecco
dunque: coltivazione della bellezza, e anche del senso dell’impermanenza, di
questo senso dell’impermanenza, dell’effimera vita: il fiore di ciliegio dura
poco. Hanami, contemplazione dei fiori, a maggio, quando tutti quanti i ciliegi
del monte Yoshino fioriscono su varie altezze, diecimila ciliegi fioriti: una
gloria! Eppure sappiamo che dopo due giorni saranno fiori marciti ai piedi
degli alberi: ma questa è la vita! Bisogna accettarla così, è la vita! Ed ecco allora che Bun-bu ryo-do, la via della
doppia via, della cultura e della spada, del combattimento, fa sì che il bushi,
per usare una metafora, è colui che usa due inchiostri e due fogli:
l’inchiostro rosso, il suo sangue, e il foglio, il campo di battaglia; e la
china e il foglio, il foglio di carta di riso, sul quale con mano sicura, col
pennello che si impugna esattamente come la spada, con lo stesso cuore, kokoro,
con cui si maneggia la spada, ude, il pennello, si segnano, si segnano, si
segnano: il pensiero diventa parola, diventa segno. E a distanza di tanti anni,
di tanti secoli, quando leggiamo gli haiku, quando leggiamo le poesie di questi
monaci – la gran parte di loro sono stati samurai e poi sono diventati monaci,
erranti come Matsuo Basho e altri– bene: quando noi leggiamo queste poesie, ci
rendiamo conto che noi diventiamo la carta di riso; noi siamo il foglio sul
quale loro a distanza di secoli tracciano, con la stessa sicurezza, la loro
poesia, dentro di noi. A patto che questo foglio sia libero, sia pulito, sia
netto: mu-shin non pensiero; mu-nen non mente, non pensiero; mu ga non io. La
totale passività, davanti alla bellezza della natura. La totale passività
davanti alla bellezza dei fiori. Leggere, leggere, leggere, che cosa?
Eh…l’espressione di questo grande popolo. Perché questo è un popolo che ha
saputo tradurre in poesia l’arte del combattimento.
Io per anni ho lavorato la notte.
Dovete sapere che ho fatto un voto di castità televisiva, per cui a casa mia la
televisione, né piccola, né grande, non c’è mai entrata. E allora la sera ho
tanto tempo, dopo i lavori del giorno, la sera ho tanto tempo. Mi metto una
camicia bianca, qualcosa di pulito, prendo la penna, anzi la matita, e scrivo.
E ho tradotto durante gli anni, questi antichi poemi, questi versi in
giapponese. Li ho tradotti tutti nell’ambiente esatto, i poemi d’inverno
durante l’inverno, quando la neve gelata scricchiola sotto i tuoi passi; i
poemi di primavera quando l’acqua cola dalle gronde, quando comincia a cantare
Kukuru [il Cucù n.d.c.]. L’autunno quando cantano i grilli. Kirigirisu, non c’è nome più
onomatopeico di questo per dire grilli, in nessuna lingua del mondo.
D’inverno, quando i corvi neri si
poggiano sulla neve bianca. Ma per far questo bisogna stare nella natura, far
parte della natura, stare dentro la natura.
E come via del guerriero, una
volta lasciato il Kendo che ho fatto? Tanti chilometri, perché ho lavorato
tanto tempo, tanti anni sulle Ande come antropologo, come archeologo. A un
certo punto ho sostituito (lo so che è irriverente, ma se è lo spirito che la
muove va bene pure quella) la katana con la motosega, e con
l’ascia a due mani, per scaldarmi, chiedendo scusa. Ogni volta che un albero
scricchiola e sta per cadere, io chiedo scusa e sento il mio cuore che si
stringe. E sento tutta la mia inferiorità, per non essere stato capace di
generare quel calore spirituale che mi permetterebbe d’inverno di non tagliare
l’albero. Ma so che questo sarebbe, anche se fosse possibile, potrebbe essere
possibile, un atto d’orgoglio. E allora taglio l’albero con la coscienza del
sacrificio. Coscienza del sacrificio. Chiedendo scusa agli alberi d’essere
stato costretto a tagliarli. Chiedendo scusa al riso. Da un piatto di riso
quante piante potrebbero venire fuori... un appezzamento di riso! Noi lo
mangiamo. Non è necessario chiedere scusa, ma dentro di noi avere questa
coscienza del sacrificio. Questo è Jin, questa è benevolenza. E se facciamo
questo, non uccideremo mai nessun animale invano, non mangeremo mai oltre
misura. Benevolenza! Pesiamo. Sull’ossatura di questo mondo, noi pesiamo. E
dobbiamo pesare, perché stiamo in un corpo fatto di materia, ma almeno
cerchiamo di pesare il meno possibile, imparando a ridurre i nostri appetiti.
Semplicità. Chiarezza. Fedeltà. Lealtà. E allora lavorare sul tatami può
significare anche portare al mondo un nuovo fiore di sakura, un nuovo canto di
usignolo. Un qualcosa di bello, di cui questo nostro mondo, che ha fatto della
felicità una cosa difficilissima da raggiungere, perché ha scelto la via
sbagliata e la felicità uccide l’anima, ha bisogno. Bene allora porteremo a
questo mondo, nella nostra persona, senza neanche voglia di far propaganda a
quello che noi siamo, uno spirito, una folata di vento di primavera, una folata
di vento di bellezza e verità. Questo è il bushido, questa è la via del
guerriero, fatta d’acciaio… e di fiori.
Grazie.”
Taigō: “io lascerei un po’ di
spazio a qualche domanda, se avete delle domande per il Professore,
approfittatene…”
Daniele: “ posso…”
Professor Polia: “Professore
lasciatelo nell’università, qui ci sta solamente solo Mario. Mario-san, se
volete.”
Daniele: “Mario, lei ha parlato
di adattamento, una grossa capacità dell’essere umano. E allo stesso tempo ha
parlato di principi che sono un tutt’uno nel rapporto con la natura. Ha parlato
della sua storia, una storia che a un certo punto l’ha portata a ritirarsi
nella natura, per riuscire a praticare e a coltivare certe cose che riguardano
l’uomo, che lei ha ricercato e che probabilmente sono le stesse che cerchiamo
di trovare anche noi. La domanda che mi veniva è: noi possiamo salvarci in un
ambiente come il nostro, cittadino, in questa società. Che ne pensa?”
Professor Polia: “Voi avete
scelto un campo di battaglia più complicato del mio. E probabilmente molto più
onorevole. Perché state proprio a contatto con l’immondizia. Abbiate la
certezza che dallo sterco nascono i fiori. E non disprezzate lo sterco. Questo
è il nostro mondo malato. La gran parte di questa gente non è neanche
responsabile della malattia che l’opprime, che è stata creata ad arte, come un
virus, diffuso ad arte. Noi che cosa possiamo fare? Portare un pizzico di
bellezza, come uomini, come donne, praticanti di arti marziali. La vita è la
nostra arte marziale.
Io, è vero, ho deciso di vivere
in mezzo ai monti, perché la mia anima me l’ha chiesto. Ho pagato questo, con altre rinunce. Però ecco, adesso sono qui tra
voi. Un altro giorno sarò da un’altra parte. Una volta l’anno, faccio quattro
mesi di lavoro nell’università, oh ovviamente non nell’università La Sapienza.
E dico alla gente, a quelli che mi ascoltano, le cose che dico a voi, con la
gioia non solo di dire queste cose, ma di poterle far riemergere dal profondo.
Di sapere che oggi è ancora possibile parlare di queste cose. La gioia che voi
avete dato a me, è molto più grande di quella che io ho dato voi. Io vi ho dato
spunti di riflessione, ma voi mi avete dato la gioia. Siete stati la carta di
riso sulla quale io ho tracciato, rapidamente, qualche ideogramma che riguarda
l’arte marziale. Non esiste differenza di via, non esistono vie più nobili o
meno nobili. È il tuo genio, la tua natura, che ti porta a stare nel posto
giusto nel momento giusto. Andare via dalla città non è più bello, più eroico
che rimanerci dentro, assolutamente no. Io quando prendo la metro per andare
all’università, applico tutto il Jin, la mia benevolenza, per non giudicare,
per non sentirmi offeso dagli atteggiamenti degli altri. Non verso la mia
persona, ma dagli atteggiamenti degli altri verso… verso gli altri. So quanto è
difficile stare in città, ma questo è un vanto per voi, non c’è una via
diversa, non c’è una via più bella o meno bella. La via del padre, della madre,
del monaco, del farmacista, del soldato, del medico… sono tutte vie legittime.
Noi abbiamo perso questa capacità. Il Giappone trasforma tutto in do, c’è la
via del tè, c’è la via dei fiori, tutto diventa do. Perché
ogni cosa diventa via, intesa come via verso la liberazione
spirituale, nel momento in cui ti applichi alle cose con il cuore giusto.
Allora che questo tatami sia la vostra esperienza di un’arte marziale
tradizionale rettamente insegnata, rettamente eseguita. Con l’idea che il vostro
tatami si estende ogni giorno fuori della porta del dojo. Ed è fatto d’asfalto,
di momenti non belli, di persone non gradite, di situazioni ripugnanti. Questa
è la battaglia. Non siamo nati invano. Non ce lo ricordiamo, ma abbiamo scelto
il momento di nascere.
Daniele: “Grazie”.
Domanda: “Lei prima ha parlato
del ronin e ne ha dato un’accezione molto positiva, mentre invece ci è stata
trasmessa, del ronin, un’accezione negativa. Invece lei ha detto il ronin è
libero, è finalmente libero. Siamo tutti ronin. E quindi, mi domando allora, il
nostro essere, aspirare a essere samurai è… come dire, un ritorno?”
Professor Polia: “Ho capito la
tua domanda. Ho detto prima che il ronin è l’uomo onda, l’uomo libero, è l’uomo
che… l’uomo che ormai è libero, dall’asservimento fisico, anche se fatto con il
cuore, in piena fedeltà, ad un punto di riferimento materiale, il suo maestro,
il sensei, lo shogun, il daimyo. È un uomo libero, a questo punto il suo
signore è dentro di lui, il suo imperatore è dentro di lui. Noi abbiamo del
ronin una visione negativa perché ci è stata tramandata soprattutto da certe
pellicole, da certi film che non hanno capito il Giappone. Il ronin è quello
che ormai, avendo imparato ad usare bene la spada, la usa per i propri fini,
senza dover rendere conto a nessuno, no? L’ufficiale porta dentro di sé il
manuale del combattimento, è diventato spirito e sangue, non ha più bisogno di
leggerlo. Capite quello che voglio dire? Il vero monaco buddhista conosce a
memoria le opere del buddha e le recita continuamente a memoria. E quando sta
agli inizi deve leggere, deve leggere deve leggere. Allora, che significa
ronin? Significa che, nella nostra situazione, oltre al maestro al quale siamo
legati per l’apprendimento dell’arte marziale, noi non abbiamo altri punti di
riferimento per i quali combattere, punti fisici, ma noi abbiamo punti
importanti, che anche se non si incarnano in una persona stanno davanti a noi…
i bambini… la natura… il nostro mondo… ronin significa che non siamo legati
materialmente a una figura, ma che siamo legati eticamente. La nostra fedeltà
non è più nei confronti di una persona fisica, ma nei confronti di un mondo.
Verso il quale noi dobbiamo agire, perché i frutti che troviamo sul dojo e che
coltiviamo nel dojo dobbiamo portarli fuori da qui. Altrimenti è un discorso
intimistico, che non serve a niente. Anche i poteri spirituali non servono a
nulla. Si narra che un giorno Buddha seduto in meditazione aveva alla sua
destra Shariputra, uno dei suoi più grandi, più amati discepoli, un po’ il
Giovanni Evangelista del Vangelo. E mentre meditavano Shariputra si alleggerì,
e cominciò a galleggiare nell’aria, e il Buddha senza aprire gli occhi gli
disse “Scendi giù, prostituta” e lo fece cadere pesantemente sul terreno. Oggi
la gente cerca i poteri, c’è un discorso del Buddha ai suoi monaci che dice:
mediante la retta concentrazione del pensiero, il retto nutrimento, la retta
disciplina, il retto regime del sonno, riuscirete a leggere nelle menti altrui,
a passare attraverso i muri, a non bruciarvi nel fuoco, a galleggiare
nell’aria; ma come sarà chiamato tutto questo se non tumore ed escrescenza, se
paragonato alla vera Via. Tumore ed escrescenza. C’è gente che fa meditazione
per imparare a sollevarsi, a levitare. Sprecare la vita, i soldi, per una cosa
del genere è da stupidi. Qual è il tumore e l’escrescenza che potremmo noi
rischiare di considerare facendo le arti marziali? Ecco. Facendole per sentirsi
meglio, più forti, più invincibili. Ecco, questo è il nostro tumore ed
escrescenza. E i vostri maestri combatteranno fino all’ultimo giorno per stare
con voi, lo so, perché il bravo maestro questo fa; per insegnarvi che l’arte
marziale è un gioco che tu combatti con te stesso per te
stesso. Un gioco in cui devi essere veramente fedele e aperto. Non uscite da
qui perché siete capaci di fare a botte, dovete aver fatto a botte con voi stessi. Ci siamo? Quando vi
parlo di cultura, e io rabbrividisco quando parlo di cultura, è per questo.
Perché la cultura vi riempie, come una vescica che si è riempita d’aria; e poi?
E poi?
Ricordatevi il detto “non
attaccatevi mai a nulla, se non alla vostra fedeltà, al vostro coraggio, alla
vostra disciplina. Non attaccatevi mai a nessun valore che sia fondato solamente
sulla vostra persona, perché questi valori sono caduchi . Sono effimeri.”
Perché il Giappone equipara il
combattente al fiore di ciliegio? Solo per l’impermanenza? No, per la bellezza.
Perché non c’è niente di più bello sulla scena del mondo di una persona che
vive in questo mondo, che è fatta di un corpo di carne e che ad un certo
momento è capace di andare oltre i confini segnati dal corpo di carne e dalle
esigenze di un corpo di carne; e da una mente legata al corpo di carne, la
quale chiede godimento, godimento, godimento, godimento, soddisfazioni.
Soddisfazioni che poi ti lasciano vuoto, ma non di quel vuoto radioso, ozora,
nome del cielo e del vuoto in Giappone, ma piuttosto di quel vuoto esangue,
livido, che sta dentro la persona che non ha realizzato nulla di questo luogo
interiore.
Hana wa sakura gi, hito wa bushi
Fra i fiori il ciliegio, fra gli uomini il guerriero. Ricordatevelo sempre. Fra
i fiori, il fiore del ciliegio, è il più nobile. Fra gli uomini, il guerriero.
E qui ci sono persone che fanno arti marziali, ma ci sono anche persone che non
le fanno le arti marziali. E quelli che non fanno arti marziali come possono
essere guerrieri? Lavorando nel modo giusto. Essendo padri e madri nel modo
giusto. Questa è la grande, vera, nobile Via del guerriero. La quale può
addirittura prescindere dalle arti marziali. Ma certamente l’arte marziale
offre un metodo efficace, rodato attraverso millenni, utile, sperimentato; per
far si che in voi nasca il ramo del ciliegio. Di cui questo mondo ha
disperatamente bisogno. Uno scrittore russo, Dostoevskij, sosteneva che il
mondo non ha bisogno d’altro che di un urgente, rapido ritrovamento della
bellezza.
Guardate la veste composta di un
praticante di arte marziale. O il kimono composto che tradizionalmente viene
portato in Giappone nelle diverse occasioni quando si sta in casa o quando si
sta in società. Alcune persone vestono ancora il kimono, uomini e donne.
Guardate quanta bellezza. Guardate quanta bellezza, che non è estetica, è
l’espressione di un’anima, è l’espressione di un ordine, di una pulizia, di
un’armonia interna. Quando l’estate esco fuori e vedo sti pantaloni enormi che
arrivano al ginocchio, quelle gambette scheletriche… brutti! I jeans comprati
sfigurati con la lametta per far vedere cosa? Ma che hai lavorato con le
macchine? Hai lavorato nei campi? Te li hanno stracciati gli spini? Che vuoi
dimostrare con questo? Di essere povero? Non sei povero. Se puoi rompere un
paio di jeans appena comprato non sei povero. D’essere che cosa? D’essere un
uomo d’azione? Non mi sembra. Dal colore bianco della pelle non mi sembra. Eh?
Coltivate nei confronti di chi ha
studiato troppo, un’espressione che viene proprio dalla scuola dei samurai.
Quando vedevano una persona che sapeva troppo sapete che gli dicevano? Noi
diciamo “quella è una persona istruita, quella è una persona colta”. Loro
dicevano “è uno stupido che puzza di libri”, perché i libri puzzano no? Perché,
perché l’inchiostro, la polvere, eh. “È uno stupido che puzza di libri”, cioè
che sa di carta. Il libro va mangiato. Il libro va… come fate, la cellulosa la
digerite? No. Dovete farla diventare sangue, respiro. Quindi le cose che
leggete vanno mangiate, diventano nutrimento dell’anima. Per questo vi ho detto
Bun Bu Ryo Do, la doppia via del guerriero. Coltivazione della bellezza anche attraverso
la lettura. La contemplazione della natura e lo studio e la pratica delle arti
marziali. Che significa samurai? In giapponese samuraru è un verbo che
significa servire. Il samurai è l’esperto del servizio. Ci siamo? Uno può anche
servire da mercenario. Serve, mette a disposizione la sua forza, la sua natura,
la sua destrezza nelle armi per arricchire se stesso. Un mercenario. Ma
samuraru è servire gli altri. Non servire se stessi.
Attraverso questi pochi
ideogrammi, che poi sono quelli che trovate in questo libro, e devo ancora
ringraziare… sono passati anni, non l’ho mai più rivista, una persona
straordinaria, la maestra Ikuyo Toba Chiba, maestra giapponese di calligrafia
che conobbi a Roma. Suo marito era un esperto di ceramica, ceramica giapponese.
E lei calligrafa. Era anche un'insegnante di calligrafia conosciuta. E quando
le chiesi di poter illustrare con i kanji questo mio lavoro, volle che io le
lasciassi il lavoro scritto a macchina, c’erano ancora le vecchie lettere 22.
Le portai quindi il lavoro scritto a macchina, volle il mio numero di telefono
e mi disse: « Ritelefonerò io ».
Passò del tempo, un mese circa,
mi chiamò: «Tale giorno, tale ora venga a prendere il suo libro». Io ci andai
un po’ come uno scolaretto, in punta di piedi e mi ritrovai un fascio di fogli
di carta di riso, con i kanji già scritti, mi guardò negli occhi, me li diede e
mi disse: « Pennello come spada e il cuore che muove la spada è il pennello ».
Feci l’inchino, io rimasi sulla porta con questo fascio di fogli di carta di
riso, feci l’inchino e da allora quest’esperienza è un punto di luce nella mia
vita, capito? L’umiltà, la delicatezza, l’umiltà, la delicatezza. Lei ha
ritenuto degno questo libro di poter essere illustrato con degli ideogrammi per
i quali non ha preteso nulla… non ha preteso nulla, se non la gioia, dopo tanti
anni, di potervi ancora dire quando sono nati
questi ideogrammi, vedete? Jin è la benevolenza. La benevolenza nei
confronti di un occidentale, che non è giapponese; che si, ha studiato, ha
studiato, ha cercato di praticare. Ma tu sei maestra di calligrafia e io vengo
a casa tua a chiederti un favore… un favore grosso. E lei mi disse, appunto «
la spada e il pennello sono la stessa
cosa, è il cuore che li muove entrambi».
Bun bu, la doppia via.
Qualche altra domanda,
chiarimenti? Ma i chiarimenti li dovete fare spellandovi i piedi sul tatami eh,
il vostro Maestro lo sa bene, dovete praticare, praticare e praticare.
Taigō – Diciamo che questa nostra
riunione per parlare del bushido è un po’ un’eresia nel karate di Okinawa, come
viene comunemente inteso in Italia. Nel senso che molti affermano che il karate
di Okinawa ha poco a che vedere con il bushido, e anche con lo zen. Ho
frequentato Okinawa e frequento Okinawa; il mio Maestro è lì e ho vissuto da
dentro l’esperienza zen anche ad Okinawa. Ho vissuto da dentro incontri con
maestri che hanno fatto riferimento ad alcuni dei principi del bushido. In
maniera diretta, non indiretta, facevano direttamente riferimento all’etica
samurai. Faccio spesso quest’obiezione e dico che sì, senz’altro l’arte marziale di
Okinawa ha preso le sue mosse dalla Cina, dal sud della Cina. A parte che anche
in Cina c’è stato il grandissimo influsso del Buddismo,
pensiamo solo a Shaolin; e quello che si è trasmesso ad Okinawa sotto l’aspetto
tecnico è praticamente il kung fu cinese, del sud della Cina.
Ma poi questo fu
in qualche modo nutrito. Okinawa è stata dominata per trecento anni dal clan
Satsuma, quindi presumo che una contaminazione ci sia stata, è impossibile che
una dominazione di trecento anni non lasci un segno. Sicuramente ha influito
anche sullo spirito, non solo sull’arte marziale, tant’è che per esempio Sōkon
Matsumura, un grande maestro leggendario dello Shorin Ryu, studiava anche spada
e quindi ha inserito nella propria disciplina marziale a mani nude l’esperienza
della spada. Al di là di questo, Chojun Miyagi Sensei, il fondatore del Goju
Ryu di Okinawa, parlava spesso ai propri allievi dei principi del bushido.
Quindi questo influsso a volte viene frainteso secondo me perché si pensa che
chi è sotto una dominazione vede come un nemico il dominatore e la cultura che
porta con se. Invece ritengo che la contaminazione sia, anche in maniera
involontaria, necessariamente avvenuta e quindi la vedo come un’evoluzione
perché il karate di Okinawa era molto rozzo per certi versi. E questi elementi
lo hanno senz’altro arricchito, soprattutto sotto il profilo educativo, tant’è che Jigoro Kano Sensei che è stato un
grandissimo educatore un propugnatore
dei principi del bushido applicati all’educazione e alla vita quotidiana è
stato anche un grande amico e interlocutore
di Chojun Myiagi Sensei. Quindi l’obiezione che il karate di Okinawa è
lontano dallo spirito del bushido non è affatto vera. Secondo me c’è stata una
contaminazione talmente potente che oggi lo ha reso per certi versi più
evoluto, ha creato una sorta di distillazione di quella che era l’esperienza
originaria, attraverso il filtro, l’esperienza del Giappone continentale. Lei
professore ha degli elementi riguardo a questo, nella sua ricerca ha trovato
qualcosa di simile? Forse non si è occupato direttamente di Okinawa, ma sarebbe
interessante vedere come per esempio la dominazione Satsuma abbia potuto
influire sui costumi di Okinawa. Io vedo che è mantenuta viva nel dojo un
etichetta di origine giapponese.
Che poi anche in Giappone se vogliamo, c’è
stata una contaminazione, perché il karate quando vi è arrivato è entrato nelle
università nel periodo prebellico e quindi ha subito delle trasformazioni
dovute alla necessità di propaganda bellica, cosa che non è avvenuta ad
Okinawa. Quindi Okinawa stessa in questo caso per certi versi ha fatto un po’
da filtro perché ha mantenuto quella purezza del karate originale, assorbendo i
principi del bushido, ma senza quella connotazione guerrafondaia che invece ha
assunto il karate che si è trasferito in quegli anni in Giappone.
Professor Polia: La cultura di
per se non è mai un unico, la cultura esprime l’anima, lo shin, il cuore di un
popolo, la cultura quindi è qualcosa di fluido, prende in prestito alcune cose,
però nessuna cultura suicida se stessa, cioè una cultura prende in prestito da
un’altra cultura, anche da una cultura espressione di un popolo che occupa
militarmente, prende alcune cose se queste cose le sono congeniali. Faccio un
esempio più vicino a noi: durante la dominazione inglese dell’India non è che
gli indiani si siano inglesizzati in massa, è successo piuttosto che hanno
preso dall’Inghilterra alcune cose superficiali, la lingua e altre cose come la
tecnologia, e sono rimasti profondamente indiani. Così una dominazione
contraria radicalmente alla loro natura ha rafforzato la loro natura. Quando
due culture si incontrano succede sempre qualcosa di molto importante, se una
cultura è forte assume, assimila, dalla cultura con cui viene in contatto dei
nutrimenti, degli elementi che la trasformano ma non la rendono diversa o
contraria a se stessa. Piuttosto l’arricchiscono, la completano. E’ quello che
suppongo sia successo in chiave macrosopica quando 5
secoli circa dopo Cristo dalla Cina, quella che poi diventa la scuola Chan, la
scuola dello Zen arriva direttamente in Giappone dove trova già uno
sciamanesimo di stato, perché praticamente lo shinto è uno sciamanesimo di
stato, allora ci si potrebbe chiedere come fanno a convivere queste due
spiritualità così diverse? Attraverso un’alchimia che è fatta di studio
reciproco, di simpatie reciproche. Lo vedete quando leggete una poesia
giapponese, si sente la matrice shinto e la matrice buddista ma il buddista
giapponese non è mai il buddista nudo e puro come potrebbe essere il buddista
dell’India, il buddista dell’India non cerca gli dei delle cose che lo
circondano non dice con Matsuo Basho ancora vorrei vedere fra i fiori dell’alba
vagare il volto del Dio, questo è tipicamente giapponese vedere nei fiori
dell’alba vagare il volto del dio, vedere le cose trasformarsi nella loro
sostanza divina, intravedere questa sostanza divina nella cose questo è Giappone, frutto della speculazione
monastica ascetica Zen la quale evidentemente trova un terreno già coltivato
già dissodato, che era il terreno dello shinto. Sapete che il Buddha da molta
poca importanza agli dei, ai kami, a quello che è il mondo diciamo così non
materiale, non da importanza neanche alla divinità suprema in quanto tale. Però
in Giappone il buddismo si tinge di quel colore, di quel sapore, di
quell'afflato particolare che è appunto il buddismo giapponese ed è bene che
sia così.
In Tibet si è tinto dello sciamanesimo tibetano, i berretti gialli
[l'ordine riformato dei Gelugpa, in Tibetano i seguaci della Virtù, è
conosciuto con il nome popolare di Zaser berretti gialli (oro) per il colore
degli ornamenti che li distinguono nelle cerimonie dai seguaci non riformati
n.d.c.] sono a tutti gli effetti buddisti, ma anche sciamani, maghi, quindi il
seme dà un prodotto ma dipende anche dalle qualità della terra (in cui è
seminato). Io credo che quello che è successo ad Okinawa si possa spiegare come
un fenomeno antropologico, una cultura tenace soddisfatta di se stessa, perché
una cultura quando è cosciente di essere funzionale difficilmente cambia la
propria natura, può prendere delle cose che in questo caso l’hanno ingentilita.
Noi abbiamo passato la stessa cosa nel
periodo dell’alto medioevo Nel periodo dell’alto medioevo il cavaliere era
poco più che una macchina da guerra ci sono voluti secoli, e allora ecco che i
cavalieri che sul campo di battaglia erano prodi combattenti poi si levavano
l’armatura e scrivevano quelle bellissime poesie dell’amor cortese… Dante stesso
era un cavaliere, ma anche San Francesco d’Assisi era un cavaliere prima di
esser santo, un cavaliere combattente. Vedete, poi la vera natura riemerge sia
nella persona che nelle cose. Si tratta comunque di arricchimenti, la cultura
che da fuori influisce su di noi ci può arricchire come pure ci può porre dei
grossi problemi se siamo insicuri e ovviamente ci può far deviare dal cammino.
Sono dei fenomeni di tipo culturale. Quello che c’è in ogni arte tradizionale è
la parte profonda quel fuoco interiore che c’è in ogni essere umano. Il nostro
mondo ha fatto uno sbaglio grosso da 300 anni a questa parte invece di
concepire la persona l’essere umano come un insieme di corpo mente e spirito
l’ha ridotta a corpo e mente, lo spirito l’ha negato e avendo fatto questo ha
fatto un taglio. Un taglio di katana molto profondo che ha fatto dell’uomo
moderno uno spaesato, una persona alla quale mancano le radici. Per ricordarsi
di Dio quando abbiamo qualche problema o la domenica o se siamo islamici il
venerdì, ma questo non è Dio. Dio è nelle cose di tutti i giorni, ancora vorrei
vedere tra i fiori dell’alba vagare il volto del Dio (Nao mitashi hana ni akeyuku kami no kao n.d.c.). Kao è l’aspetto, il volto, tutto il mondo che
ci circonda è il volto, la natura è il volto di Dio, il volto del divino. Ecco:
il samurai Matsuo Bashu, poeta al vertice dei poeti giapponesi e samurai
d’onore, diventato ronin che cosa fa? Va
a ricercare il volto del Dio. Pochi usano la parola kami, è raro che qualche
poeta nomini espressamente kami, perché lo devi vedere tu il divino attraverso
i tre versi della poesia. I 3 versi sono la carta di riso dentro la quale si è
acceso il sole che filtra attraverso la carta di riso. Di questa semplicità, il
nostro mondo ha bisogno di questa lealtà intellettuale. Io scrivo libri non
perché faccio lo scrittore di professione.
Perché succede un po’ come succede all’usignolo. Quando sei pieno di
canto ti va di cantare, magari scrivi un libro perché pensi che qualcuno possa
leggere il tuo libro e gli possa pure piacere. Io non potevo proprio pensare
che sarei stato un giorno invitato, che avrei avuto la gioia di vedere tanta
gente che ha letto il mio libro. Non mi era mai successo, io il bushido non lo
avevo manco mai presentato, l’ho scritto e poi i libri seguono vie misteriose.
Crescono. Il buon arciere non deve tirare la freccia al centro, deve tirare la
freccia dove va il suo cuore. La freccia arriva dove deve arrivare. Vedervi
oggi qui seduti per terra nella vostra posizione marziale, e così numerosi,
vedermi arrivato a voi per quelle strane vie che succedono, perché le vie dello
spirito sono strane e vanno al di la della mente… Grazie ad un amico di vecchia
data, il Maestro Paolo Bottoni, col quale facevamo montagna insieme quando
eravamo ragazzini, avevamo più o meno 16 anni, sono passati tanti anni e ecco
ci siamo ritrovati e l’ho ritrovato come l’avevo lasciato. Qualche capello in
meno ma un cuore più grande, e allora quando ci ritroviamo ritorniamo a quei
tempi della nostra adolescenza con la gioia di avere vissuto diversamente nella
modalità, eppure di essere così simili,
nelle cose che ci univano, che ci uniscono, che amiamo. Questa ricerca
profonda della bellezza che è nascosta in noi e nelle cose che ci circondano,
che sia questo il nostro obiettivo. E’ vero, un’arte marziale non va mai
seguita per arrivare a qualche cosa, ma se la seguite è lei a guidare, è un
gioco con dei risultati chiari.
Taigō: Professore, vuole
presentarci la sua ultima opera?
Polia: Allora io mi sento un
po’come quello che va in giro a vendere le olive al mercato.. Come ultimo lavoro, questo lavoro è nato in questo modo qui. Anzi guarda l’avevo scritto qui
mi sembra che sta proprio scritto qui, l’avevo letto stamattina fatemelo
ritrovare…
Dicevo che ho dedicato le sere, a
seconda della stagione a tradurre haiku di quella stagione, che praticamente ha
significato farsi arrivare dal Giappone il vocabolario giapponese, imparare la
lingua, perché io in Giappone non ci sono mai stato… lo dico davanti a voi,
vigliaccamente, che me l’hanno detto tante volte di andare in Giappone ma mi
sono sempre tirato indietro.
E’ un po’ come l’amore attraverso
internet, t’immagini che la ragazza che ti linka, non so se si dice così, che
dall’altra parte c’è qualcosa di straordinario e poi magari ti ritrovi davanti
una delusione. Allora il Giappone so che è diverso da quello che io amo, eppure
so che lì in quel Giappone c’è ancora perfettamente racchiuso il nocciolo del
seme di ciliegio capisci?
Non ci sono mai voluto
andare, mi sono fatto arrivare gli
strumenti necessari, le raccolte di poesie, e l’arte per l’arte, senza scopo,
le sono andate traducendo nelle sere nelle varie stagioni. E c’ho messo anni,
non per la difficoltà ma piuttosto perché tu scrivi una cosa, poi la rileggi,
poi la riscrivi, poi la rileggi poi di notte ti svegli e ti viene quella parola
che traduce esattamente la parola giapponese, grammaticalmente già era tradotta
si, ma mancava l’anima, allora trovi la parola esatta con la quale renderla al
meglio.
Li avevo affidati al quaderno,
questi quaderni poi sono diventati un’opera in 5 volumi. Perché 5 volumi?
perché in Giappone gli haiku sono divisi in
stagioni. E perché 5? perché ci sono 4 stagioni che sono come le nostre,
ma all’inizio dell’anno c’è shinnen, e’ parte della primavera ma è una stagione
a parte, di soli 15 giorni.
E allora io questi haiku li ho
ritradotti.. ecco qua ve lo leggo eh questo guardate questa ristampa
[dell'Etica del Bushido il Cerchio
iniziative editoriali n.d.c.] è del
2008:
“Da
alcuni anni ci siamo dedicati a questo scopo - e cioè un esauriente antologia
di componimenti poetici giapponesi opportunamente riscritti e tradotti dalla
lingua originale per percepire l’essenza del
cuore dello Yamatonogokoro che è il cuore pulsante dell’etica guerriera
- Da alcuni anni ci siamo dedicati a questo scopo e stiamo dando gli ultimi
ritocchi a quella che fino a oggi è la più vasta antologia di haiku del nostro
paese - più di 600 haiku. La ricerca è iniziata ad uso interno come una nostra
meditazione ma un giorno forse vedrà la luce da qualche parte. Se il clima
spirituale del nostro paese permetterà una nuova primavera per i fiori di sakura.”
E dopo tanti anni, quest’estate
un editore coraggioso, un giovane editore di Terni, ha stampato questo libretto
in 5 volumi.
Taigō: Bene. La ringrazio
professore.
Polia: No io ringrazio voi. Il compenso più grande
siete voi, sapere che state facendo un lavoro che anche io ho fatto e che voi
farete, vi auguro ogni bene veramente e di ritrovarvi in qualche altro momento
Taigō: Beh io mi auguro che
questo possa essere il primo di una serie di incontri
Polia: Io sto in montagna, con
tre ore sto qua. Dirigo un museo, ho messo su un museo della cultura contadina,
quindi attrezzi, cose… bello. Noi abbiamo un prato di un convento del 1200, che
in convento non ci stanno più frati, è
un centro culturale, c’è un chiostro bellissimo con dell’erba tagliata a zero…
voi potreste fare una dimostrazione. D’estate magari riuniamo un po’di
gente per dare questa bellissima opportunità di vedere qualcosa di serio,
perché quel museo ha sempre cercato di far fare cose che servono alla gente, non cantanti, non stupidaggini,
magari due parole dette da un maestro qualche esibizione di arte marziale fatta
bene lascerà pure un segno nelle persone che d’estate vengono a trovarci.
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