sabato 28 maggio 2011

Stolto è colui che....





Stolto è colui che si tormenta l’esistenza nell’assillante ricerca di fama e ricchezze, senza concedersi un attimo di tregua. […]
Alcuni sembrano credere che il proprio nome, poiché non viene seppellito col corpo, possa durare a lungo dopo la morte. Ma si può mai dire che un uomo è stato eccellente solo perché in vita ha raggiunto un rango elevato o una grande distinzione? Anche lo stolto o l’ignorante, se proviene da famiglia altolocata o se ha fortuna nella vita, può pervenire ad alte cariche e condurre una vita lussuosa. Il saggio e l’uomo illuminato sono paghi della loro umile condizione, e molti altri devono lottare contro le avversità sino alla fine dei loro giorni. Chi non fa che sognar cariche e onori è vicino alla stoltezza.

Se posso ora aggiungere qualcosa per coloro che accanitamente ricercano il sapere e la saggezza, dirò che nel mondo l’inganno sorse col sapere, e che l’abilità ha acuito le passioni umane. Il sapere a cui si è pervenuti attraverso lo studio e l’insegnamento di altri non fornisce la vera saggezza. Che cos’è mai, allora, la saggezza? Veridico e fallace non sono forse anche inestricabilmente compenetrati? E cos’è mai quel che noi definiamo “buono”?
Il “vero uomo” è al di sopra della saggezza, della virtù, dell’abilità, della reputazione. Chi sa di lui? E chi ne riferisce agli altri? E ciò non perché egli nasconda le sue virtù fingendosi uno sciocco, ma piuttosto perché è al di là di saggezza e stoltezza, di ricchezza e povertà.
Tale è la bramosia di fama e di guadagno che alberga negli animi pervertiti. Non queste sole, ma tutte le cose, del resto, sono irreali, e non mette conto né di parlarne né di desiderarne.

tratto da"Ore d'ozio" di Yoshida Kenko, monaco zen (1300)








venerdì 6 maggio 2011

'Qui giace colui il cui nome è scritto nell'acqua'



Emilio risponde alle riflessioni di Sensei Taigō pubblicate nel post:
Lo pubblichiamo come post e non come commento per dare il giusto rilievo alle sue interessanti riflessioni.
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Grazie alle moderne tecnologie ho letto la tua risposta in pausa pranzo, seduto su una panchina del cimitero acattolico della Piramide. Ognuno ha le pause pranzo che si merita…
Le tue parole si accordano perfettamente con le considerazioni che quel posto aveva fatto nascere dentro di me. Sai quando cominci a ragionare sull’essenziale e sull’inessenziale, spinto da piccoli frammenti contrapposti come l’arrampicata di una lumaca su una lapide liscia, i micioni sonnolenti, le rose tra le tombe, epitaffi umili e altri bellissimi (qui giace colui il cui nome è scritto nell’acqua..) ma non solo e non per primo il poeta, uno sconosciuto padre amato, o una moglie amatissima, Gramsci, solo nome e cognome, il bussolotto per le offerte per la colonia felina.
Poi confronti queste iscrizioni con altre che sembrano dei curriculum: medico, ambasciatore dal.. al.., professore, ecc. ma anche: marito fedele, come se invece un marito, o una moglie, infedeli non meritassero pietas… Un quasi re ha ammazzato un giovane e va fiero di aver ingannato i giudici, la tomba del ragazzo è qui a testimoniare, se ce ne fosse ancora bisogno, che la nobiltà non è un fatto di sangue.
Cosa conta nelle nostre vite, cosa è degno di essere ricordato? A me hanno fatto risuonare qualcosa quelle iscrizioni che davano il senso di una vita vissuta, di una persona amata, nell’unicità della loro esperienza: il bambino di 10 anni, la mamma i cui figli ricorderanno con amore per sempre. Non sappiamo nulla di quelle vite ma possiamo supporre che si siano tramutate in qualcosa di totalmente nuovo grazie a quanto hanno lasciato ai loro cari. Sulla tomba di Shelley le parole di Shakespeare, da La Tempesta: …Tutto ciò che di lui deve perire -Subisce una metamorfosi marina - In qualche cosa di ricco e di strano.
Ma la pietas che invocavo per le esistenze non perfette come quella del marito che proprio non ce l’aveva fatta ad essere fedele, del padre che non si è meritato l’amore sconfinato dei figli e neanche una lacrima del loro immenso dolore, deve per forza ricomprendere anche quelle vite espressione dell’imperfezione umana che tanto giudico perché esempi di vita inautentica o inessenziale. C’è una tomba enorme, pulita, fintamente umile, con il nome in caratteri romani, italica fiera, e vuota BULGARI come se il nome potesse tutto, immortalato per l’eternità…
Emerge la compassione, di cui divento oggetto io stesso, e tace il giudice. Con tutta la mia pretesa superiorità nei confronti dell’inautentico non riesco più a giudicare, un po’ rido dei limiti, riconoscendoli anche miei, e un po’ mi risveglio alla vita attratto dai gatti tra i rovi.
Ero immerso in questi pensieri mentre leggo le tue parole che mi sembra gettino un raggio di luce su sensazioni frammentate e disperse, come una soluzione, l’uscita da un labirinto:
“Coltiviamo l’entusiasmo, spendiamoci gratuitamente. Alla fine dei nostri giorni il cuore sarà scaldato solo dal ricordo delle azioni nate dal nostro impegno ingenuo e gratuito”.

Emilio

mercoledì 4 maggio 2011

Sull'antieconomicità dell'esercizio




Riflessioni di Sensei Taigō al post di Emilio:

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Grazie Emilio per il tuo articolo che, come già ho scritto, con tono leggero ha toccato argomenti di vitale importanza per la pratica e l’educazione in generale.

Sapessi quante volte anch’io mi son trovato di fronte alle domande di parenti e amici il cui senso finale era: ‘ma chi te lo fa fare?’

Domande che nascono dall’incapacità di cogliere il valore di un impegno che non sia strumentale ad altro che alla ricerca della propria pienezza.
Una ricerca che passa spesso per Vie inconsuete e, a volte, ‘scandalose’ per il pensiero comune.

Così come lo studio per lo studio, che non si insegna oggi a scuola, non finalizzato all’ottenere il famoso ‘pezzo di carta’ è considerato un’anomalia (e già la definizione di ‘pezzo di carta’ denota l’inconscio disprezzo anche da parte di chi ne fa il motivo primario del proprio sforzo).
Kodo Sawaki Roshi scuoteva gli studenti universitari affermando: ‘Se studiate per ottenere un diploma è come se mangiaste al fine di defecare’.

La loro comprensione veniva meno di fronte al mio sforzo disciplinato e quotidiano in un’azione che consideravano ‘improduttiva’ secondo i parametri di mercato a cui erano stati educati.

Per non parlare dell’incapacità di comprendere e accettare, con la quale anche tu ti stai confrontando, che si possa esprimere un'impegno fisico e mentale considerevole, in un’attività che comporta anche delle dosi di rischio.
E non si parla solo di ematomi e contusioni, che non mancano…
Anche il mettersi in gioco di fronte alla difficoltà e all’esperienza inedita, il mettere da parte la propria ‘rassicurante maschera’ per continuare a crescere e imparare, sono considerati dei rischi in una società che ha fatto di tutto, come hai ben osservato, per rimuovere ogni difficoltà, il confronto con la morte, il dolore, l’incertezza, anestetizzando la vita.

La nostra pratica è proprio quella di uscire da questa anestesia, di deprogrammarci, e ritornare ad assaporare la vita nella sua pienezza e questo richiede di accogliere l’incertezza, accettare il rischio…

Il pensiero dominante, il cosiddetto ‘buon senso comune’ si trova ad una impasse, arriva ad un corto circuito, quando incontra un’azione che pare non avere uno scopo ‘economico’.
Questa antieconomicità dell’azione è percepita non solo come incomprensibile ma anche come un pericolo dal pensiero mercantile e anestetizzato che permea ogni ambito della nostra società umana.
Pericolosa perché non controllabile secondo le leggi del commercio e dello scambio.

E, a ben vedere, quali sono le attività umane più squisitamente ‘improduttive’ e ‘gratuite’ ?
L’arte, la religione ed il gioco.
Proprio per questo loro carattere di libertà, che risponde alle leggi della natura e dell’ispirazione più che alle leggi umane, l’arte, la religione e il gioco sono, da sempre, state considerate dal potere costituito espressioni umane potenzialmente pericolose,  tanto da cercare costantemente di addomesticarle.

Allora, nel processo di addomesticazione, l’arte diviene tecnica e mercato, il potere religioso ricerca il consenso accordandosi ai desideri delle masse e il gioco viene trasformato in sport competitivo…

I veri artisti, così come i veri religiosi sono sempre stati degli uomini liberi, incontrollabili, invisi al potere che non tollera che l’uomo possa avere dei riferimenti che vadano oltre l’appagamento dei bisogni primari spesso utilizzati come strumento di ricatto.

La nostra Disciplina, il nostro tanto svilito e addomesticato Karate-Dō e più in generale la pratica del Budō, è nella sua espressione originale ed autentica, un’alta forma d’arte e, ad un certo livello di ricerca, sfocia inevitabilmente, nel percorso religioso.

E’ arte del corpo e dello spirito perché insegna e ricerca il gesto libero e creativo, passando attraverso la forma, per ripristinare la saggezza originaria del corpo-mente in armonia con le leggi della natura (quello che Deshimaru Roshi chiamava Ordine Cosmico).
Sfocia nella ricerca religiosa perché, come la religione, pone di fronte al problema della vita e della morte attraverso riti, simboli e miti e orienta la vita del praticante secondo principi morali.

“ La religione dal punto di vista fenomenologico è l’attività non razionale dell’uomo alla ricerca del significato ultimo dell’esistenza.
La religione non è riducibile a visioni del mondo intellettuali ed a funzioni utilitaristiche. né a bisogni dell’esistenza immediata e alla sopravvivenza.
Al suo livello più serio e creativo è il nostro sforzo di librarci verso una realtà simbolica, mediante visioni mitopoietiche e attività cultuali’.

(Hee-Jin Kim: Eihei Dogen Mystical realist, Wisdom publication).

Godiamo dunque dell’antieconomicità del nostro esercizio, coltiviamo l’entusiasmo, spendiamoci gratuitamente.
Alla fine dei nostri giorni il cuore sarà scaldato solo dal ricordo delle azioni nate dal nostro impegno ingenuo e gratuito.

Se qualcosa dovrà rimanere di noi, rimarrà l’entusiasmo, la libertà dello spirito che è forse l’unica cosa degna di essere trasmessa ai nostri figli e che sola li può condurre a trovare il cammino verso la loro propria pienezza senza essere piegati ed addomesticati dal ‘buon senso comune’.

Taigō