Uno scambio di domande e risposte con Giangiorgio Pasqualotto sull'Oriente e il Buddhismo tratto da gianfrancobertagni.it
"..La lentezza non vuol dire abbandono all'ozio
totale. Vuol dire attenzione al momento. Allora ciascun momento diventa
immenso, dal punto di vista psicologico, e tu lo puoi vivere assolutamente,
pienamente, senza più confrontarlo con quello che vivevi prima (per vedere se
era più cattivo o più buono) e senza vederlo in rapporto ad un futuro..."
PASQUALOTTO: Buongiorno, sono Giangiorgio
Pasqualotto, insegno Storia della Filosofia all'Università di Padova e mi
interesso da molti anni di buddhismo, di taoismo in particolare, e penso che
voi, giovani, sappiate già qualcosa di questi argomenti.
STUDENTE: L'esperienza raggiunta da molti
occidentali delle filosofie e della cultura orientale, grazie ad una sempre
maggiore diffusione della conoscenza del mondo orientale, è il diretto effetto
dei sempre più fitti scambi che sono stati intrattenuti tra il nostro mondo e
quello orientale. Penso che una differenza sostanziale tra l'occidente e l'oriente
sia evidente nel modo di vivere il tempo e lo spazio.
Infatti il nostro tempo e il nostro spazio sono comunque più delimitati
rispetto a quello orientale, mentre la loro vita è come se fosse un eterno
fluire del tempo in cui si materializzano i mutevoli fenomeni della realtà. E
da ciò risulta che la nostra vita è più schematizzata, mentre la loro è più
legata ai riti, alle tradizioni, che evidenziano un'armonia dell'uomo con la
natura. Alla luce di tutto questo vorrei leggere una citazione di Schopenhauer,
tratta da Il mondo come volontà e rappresentazione: "In India non potranno
mai mettere radici le nostre religioni. La sapienza originaria dell'uman
genere, non sarà soppiantata dagli accidenti successi in Galilea. Viceversa
torna l'indiana sapienza a fluire verso l'Europa e produrrà una fondamentale
mutazione nel nostro sapere e pensare". Quindi, alla base delle precedenti
considerazioni, possiamo dire che Schopenhauer aveva ragione oppure che la
situazione si è invertita?
PASQUALOTTO: Schopenauer ha ragione ma ha anche
torto. Effettivamente l'Oriente - in particolare la civiltà tradizionale
indiana e quella buddhista - hanno conosciuto, recentemente, delle enormi
"espansioni" in Occidente. Però è altrettanto vero che le civiltà
tradizionali orientali, direi soprattutto l'India, ma ormai anche la Cina, in
maniera massiccia, stanno subendo una forte influenza da parte dell'Occidente.
Quindi il fenomeno ha una portata reciproca. Schopenhauer sognava
sostanzialmente un'orientalizzazione dell'Occidente, proprio quando, invece,
stava proprio cominciando una occidentalizzazione dell'Oriente. Detto questo è
assolutamente necessario fare alcune precisazioni di fondo. Il concetto di
tempo, e soprattutto lo stile di vita, il modo di vivere il tempo, in Oriente,
tradizionalmente è sempre stato qualcosa di completamente opposto, radicalmente
diverso da quello nostro. Vorrei dire rapidamente due o tre caratteri di questo
modo di vivere il tempo. Allora, innanzi tutto, il tempo orientale è sempre
stato, (e questo lo vediamo persino nella Grecia classica, sino, praticamente,
a Platone), di carattere ciclico, con una forma ciclica, perché il modello
fondamentale a cui fa riferimento l'Oriente è la Natura. Penso, in particolare,
al taoismo. Quindi, come la Natura ha i propri cicli, sempre regolari (le
stagioni si susseguono, il giorno segue la notte) nello stesso modo la vita
umana dovrebbe regolarsi, seguendo un ritmo ciclico. Qui bisognerebbe fare
subito un'altra precisazione, perché noi occidentali, quando pensiamo alla
ciclicità, pensiamo subito all’immobilità, e quindi alla stasi. Non è affatto
vero, come non è affatto vero che, poiché la Natura, nell'anno solare procede
per stagioni, le stagioni siano sempre le stesse. Avvengono dei mutamenti, ma
all'interno di un ritmo che è sempre uguale. Quindi nessuna primavera è uguale
all'altra, ma ci sono sempre delle primavere. Quindi la forma della ciclicità
per gli orientali garantisce la stabilità, ma anche l'innovazione. Anche nei
momenti più forti della storia cinese, anche di rottura rivoluzionaria della
storia, noi troviamo questa compresenza di stabilità e di mutamento. Questa è
la prima cosa da chiarire. La seconda cosa è che spazio e tempo, nella
tradizione cinese, hanno sempre rappresentato un binomio molto stretto, e non
sono mai state viste come due cose in opposizione. Per cui un oggetto, una
cosa, una persona, un evento non sono mai classificabili solo geometricamente o
spazialmente o solo cronologicamente, ossia soltanto sulla base del tempo
tecnicamente misurato. Ma una cosa, nella loro visione della realtà, è vista
come un evento, come, possiamo dire, un'attività. Faccio un esempio: quelli che
noi nella tradizione occidentale chiamiamo "elementi classici":
acqua, aria, fuoco, terra, per i Cinesi sono non quattro elementi, ma quattro agenti,
ossia quattro attività, perché queste quattro cose sono in quanto agiscono.
Queste sono i due concetti principali, poi ve ne sono anche altri che vertono
sulla vita quotidiana, ma su questo forse sarebbe meglio introdurre un contributo
filmato, che ci mostra esattamente che cosa vuol dire questo modo di intendere
il tempo nella vita quotidiana secondo le culture orientali.
MAESTRO ZEN:
Ci sono due estremi con i quali dobbiamo confrontarci in continuazione. Il
Buddha - il Buddha storico - ha insegnato la via di mezzo, che è appunto un
equilibrio tra l'estremismo della lentezza e quello della velocità. Nello Zen,
la nostra Scuola, si insegna ad essere capaci di adattarsi a tutte le
situazioni, perché questo è possibile soltanto nel momento in cui noi essendo
costantemente attenti, presenti, a noi stessi, sviluppiamo la retta presenza
mentale. In quel momento, quando noi siamo presenti, siamo attenti, siamo
capaci di essere veloci, se vogliamo esserlo e se la situazione lo richiede, e
di essere lenti, addirittura immobili, se, appunto, decidiamo di fermarci a
pensare o a meditare. Possiamo accedere, attraverso la pratica ascetica, ad un
tempo che possiamo definire infinito. Noi viviamo tutti i giorni nel tempo
finito, quello misurabile, dagli orologi, dai calendari, dalla nostra forza,
dalla nostra età, dalla quantità di denaro che abbiamo e da tante altre unità
di misura. E' importante che esistano questi metri che misurano, però, nello
stesso tempo, dobbiamo riuscire ad entrare nell'infinito, perché se noi non
assaporiamo mai l'infinito, non siamo capaci neanche di vivere nel finito.
Quando sono entrato nel Monastero giapponese, ovviamente, avevo un'idea cristiana
del Monastero, e quindi di una persona che entra in un luogo di culto e ci
rimane per tutta la vita. Immediatamente mi sono accorto che il Monastero
giapponese prepara alla vita, come una palestra, dove noi andiamo a scoprire le
nostre capacità. Tutte le azioni che si compiono durante la giornata si rifanno
ancora al detto di un maestro cinese dell'Ottocento: "Un giorno senza
lavoro è un giorno senza mangiare". Il monaco sa che, dopo un certo
periodo di anni, dovrà ritornare nella società, e quindi è capace di vivere,
una volta rientrato nel mondo sociale, nella vita alla velocità delle stagioni,
alla velocità che la società richiede e, naturalmente, adattandosi, perché
conosce, ormai, perfettamente se stesso.
STUDENTE: Il linguaggio
esprime sempre le basi di una civiltà. Secondo Lei si può dire che il nostro
linguaggio risulti più statico rispetto a quello degli orientali, visto che il
linguaggio orientale esprime già di per sé una visione della vita più
movimentata, più veloce?
PASQUALOTTO: Per quanto riguarda il linguaggio verbale,
non ci sono dubbi, perché il linguaggio verbale è scansione di parole nel tempo
e quindi sia le parole delle lingue occidentali che di quelle orientali si
consumano. La questione si fa più interessante per quanto riguarda il
linguaggio scritto. Questo per vari motivi. Innanzi tutto, i caratteri cinesi,
come voi sapete, non sono dei segni in sequenza lineare. Sono dei segni, dei
disegni, che danno compattamente, simultaneamente, l'idea di una cosa. Quindi
il tempo, psicologico necessario per passare da una parola che deve essere
letta all'idea, al significato mentale, di questa parola, al contenuto di
questa parola, è completamente diverso dal tempo che si impiega nelle lingue
occidentali. Perché, ad esempio, nella parola "cane", nelle lingue
orientali, è necessario seguire la scansione delle lettere che compongono
quella parola, poi effettuare un riferimento acustico che poi diviene mentale.
Nel cinese, come nel giapponese, questa idea si disloca immediatamente nella
mente, senza la mediazione acustica,. Molte volte è suggerita, addirittura, da
alcuni segni di questo carattere. Quindi, in queste lingue orientali, i tempi
di lettura e quelli percettivi sono completamente diversi rispetto ai nostri.
Questo è il primo fatto fondamentale. Poi, in particolare, nella lingua cinese,
è prevalente il riferimento all'agire, all'azione, all'attività. Come dicevo
prima, qualsiasi cosa che per noi è inerte, (si pensi al legno o al metallo,
che sono solo alcuni tra i cinque agenti) nell'ontologia orientale ha
un'attività nei confronti di qualcosa e una passività nei confronti di un altro
elemento. Comunque non c'è nulla al mondo che sia puramente statico. Né i
cinque elementi, né tutti quegli elementi che risultano composti di quelli
basilari, perché tutto è attività.
STUDENTE: Considerando la vita come un attimo dell'eternità
non c'è il rischio che l'uomo perda la sua importanza come individuo?
PASQUALOTTO: È proprio questo uno degli scopi
fondamentali sia del buddhismo che del taoismo. Tutti i mali, per così dire, o
tutta la sofferenza degli uomini deriva dal fatto che l'uomo si è sempre
concentrato sul proprio io, fino a farne una specie di centro, e questo io è
diventato ipertrofico ed è cresciuto talmente, ed ha assunto dimensioni
narcisistiche tali, da sostituirsi al mondo steso, diventando il centro del
mondo. Ora questa non è una cosa puramente teorica. In particolare il buddhismo
sostiene che tutte le sofferenze sono fondate su questo accentramento all'io,
su questo "ego-centrismo" per così dire. Ora questo con il tempo che
cosa ha a che fare? Vi voglio offrire alcuni elementi emblematici molto
concreti. Quando si sta attenti alle cose, a ciò che si fa, non si sta mai
attenti a sé stessi, ma si sta attenti all'azione che viene compiuta. Questo è
il primo punto fondamentale, che è, come dire, presente nella meditazione. È un
concetto decisivo anche nel "tai-chi". Pensate a quei movimenti
lentissimi che vengono compiuti in quegli esercizi. Il "tai-chi" è
una delle attività migliori che ci siano per depurare la mente dal ritmo
frenetico della vita quotidiana, ma, nello stesso tempo, come diceva il
maestro, è uno dei migliori esercizi esistenti per non abbandonare sé stessi
alla lentezza di chi non fa assolutamente niente, di chi vive come una specie
di ameba invertebrata, di chi è bloccato nel non fare nulla. Esso consiste
nell'allentare i movimenti, in modo che di quei movimenti si sia perfettamente
consapevoli, stando attenti a tutto quello che si fa. Tutta la cerimonia del tè
è una cerimonia di autoaddestramento psichico per rallentare i tempi e
intensificare la qualità dell'attenzione.
STUDENTE: Che cosa l'affascina
del mondo orientale?
PASQUALOTTO: In genere proprio tutte quelle cose che
io detesto del mondo occidentale e che, purtroppo, vedo che si stanno
allargando anche al mondo orientale. E una di queste è proprio la concezione
del tempo. Secondo me noi siamo letteralmente strappati via dalla vita con
questa visione del tempo che ci siamo imposti, e per vari motivi: storici,
politici, economici, e credo che in questo tipo di civiltà tradizionali si
possa ritrovare un concetto di tempo, in una parola, qualitativo, ritrovando
l'intensità della qualità dei momenti che si vivono. Facciamo un esempio. A
nessun orientale, tradizionalmente, veniva in mente che un lavoro deve essere
fatto in un tempo stabilito astrattamente, in due o tre ore. Ogni lavoro ha il
proprio compimento in base al tempo interno di quel lavoro. Ossia quando una
cosa ha bisogno di dieci ore per essere compiuta perfettamente, ci si mette
dieci ore. Non c'è una imposizione dall'esterno. Ecco, questo è un esempio. Un
altro esempio sono le rappresentazioni teatrali nell'antica Cina e nell'antico
Giappone, che duravano tutta la giornata. Questo cosa vuol dire? Che non
esistevano gli orari degli spettacoli, ma ognuno entrava e usciva come se si
trattasse di una festa popolare, indipendentemente dall'inizio e dalla fine,
perché l'importante è partecipare con le emozioni, con i sentimenti, ad un
avvenimento. Se solo pensate a che cosa sia la televisione, vedete a cosa
stiamo andando incontro. Il problema fondamentale di tutti i mezzi televisivi
ad alta tecnologia è quello dei tempi.
Questo può essere visto come una fuga verso il
passato, ma certamente può servire da antidoto per non diventare vittime di
questi tempi imposti, di queste temporalità assolutamente frenetiche.
STUDENTE: Cosa simboleggiano quegli oggetti
che si trovano sullo sgabello?
PASQUALOTTO: Una è una semplice campana. La campana
in tutte le scuole buddhiste, sta a indicare anjincha (mujo in giapponese),
che significa "impermanenza", ed è una cosa abbastanza semplice da
capire, perché il suono nasce, si sviluppa e poi muore. E questo è il simbolo
di qualsiasi cosa, perché nel Dhamapada, in un famoso brano che può riassumere
benissimo questa concezione del tempo del buddhismo, si dice: "Tutte le
realtà sono anjincha", ovvero:"Tutte le realtà sono impermanenti".
Questa affermazione può sembrare una banalità, ma se voi l'applicate a tutte le
realtà, non solo materiali, ma anche psichiche, sentimentali e ideali, allora
capite che viene ad essere sconvolto completamente tutto il nostro orizzonte di
pensiero. Perché noi soffriamo, perché siamo travolti dalla morte, dalla
malattia, dalla vecchiaia, da tutte le forme dell'impermanenza. Perché? Perché
pensiamo che esista qualcosa in qualche posto che sia permanente, che sia Dio,
una verità laica o qualcosa di fondato, e che, viceversa, noi si sia condannati
a questo deserto della transitorietà. Nel buddhismo (e anche nel taoismo)
questa concezione non esiste. Esiste il tentativo di far fronte a questa
realtà, che è una realtà di impermanenza. Non c'è nulla che non sia
impermanente. Quindi la campana non è, come dire, il simbolo un po' decadente
di qualcosa che se ne va, e noi non dovremmo essere malinconici, per questo
qualcosa che se ne va, pensando a qualcosa, che di contro, non se ne va, perché
tutto se ne va, tutto passa. E, quindi, voi potete capire che tutto questo
comporta una visione completamente diversa della morte, della malattia, della
vecchiaia, di tutto! L'altro simbolo è il simbolo del "tai-chi", il
tai-chi-tou. È costituito da due cosiddetti pesci. In realtà la colorazione di
questi esemplari di tai-chi-tou, spesso, non è perfetta, perché il colore
dell'occhio di uno dei due pesci, dovrebbe essere del colore dell'altro occhio.
In questo caso, l'occhio del pesce verde dovrebbe essere blu, e l'occhio del
pesce blu dovrebbe essere verde. Anche i colori sono diversi, perché di solito
c'è il rosso e il blu o il nero e il bianco. Cosa vuol dire questo? Vuol dire
che tutto l'universo, sia interiore, sia esteriore, è condizionato da due
principi: "yin" e "yang". Sono due principi complementari
che si danno l'alternanza. La cosa principale qual è? È che nessun principio
può mai vincere completamente sull'altro, proprio perché nell'altro principio
c'è un elemento di quello opposto.
STUDENTESSA: Volevo chiederLe se tutte le religioni
orientali, di cui Lei sta parlando, credono nella reincarnazione.
PASQUALOTTO: Dunque, questo è un problema abbastanza
complicato. Vorrei fare una distinzione di questo tipo: come anche nelle
religioni occidentali esistono due livelli: un livello popolare o naturale e un
livello più profondo, mistico, teologico e dogmatico. Nelle religioni
orientali, a livello di convinzione popolare, si crede nella reincarnazione perché
è un sistema molto rassicurante, molto più di altri sistemi, per poter pensare
che noi esseri umani siamo immortali. In realtà, se noi andiamo a consultare i
testi, sia del buddhismo che del taoismo, di reincarnazione non se parla
affatto. Anzi, il problema fondamentale del buddhismo è proprio quello di
superare e di distruggere la paura della morte e quindi di non avere più
bisogno di nessun sistema escatologico, né della reincarnazione né
dell'immortalità dell'anima, né di nient'altro, per potersi consolare che di
fatto noi moriamo. Quando il buddhismo parla di nirvana, esso introduce un
concetto che vuol dire "estinzione", non nel senso di, scomparsa di
tutto ciò che esiste, ma estinzione del nostro desiderio di sopravvivere,
quindi estinzione della nostra mania, per così dire, di essere legati al Dio.
Perché, se ci pensiamo attentamente, la reincarnazione non è altro che una
proiezione interiore per poter sopravvivere, finalizzata a garantire a chiunque
il futuro, nel miglior modo possibile.
STUDENTE: Che legame c'è fra le arti marziali e le
religioni orientali.
PASQUALOTTO: Tutti i legami pensabili, fuorché
quelli che sono stati tramandati in Occidente. Mi spiego: qui voi avete visto
il "tai-chi", che è praticamente il prototipo di tutte le arti marziali
che sono venute dopo. Il "tai-chi", in realtà, che cos'era? Era,
chiamiamola così, una ginnastica, un esercizio fisico, che aveva due scopi: lo
scopo di mettere in armonia le singole parti del corpo con la respirazione,
(perché la difficoltà di chi pratica il "tai-chi" sta proprio nel
dover stare attento a tutti i movimenti degli arti e nel doverli mettere in
sintonia con il respiro; per questo motivo i movimenti sono rallentati). Questa
è la prima cosa. La seconda cosa è che il "tai-chi" mima i movimenti
delle foglie del vento, o delle fronde di alberi o i movimenti degli animali:
la scimmia, l'orso, la tigre. Questo era un altro movente per mettere in
rapporto l'armonia individuale raggiunta, o in via di raggiungimento, con
l'armonia della natura, che, per i taoisti è il modello generale dell'universo
interiore. Dopo di che è successo di tutto, perché qualcuno ha sempre bisogno
di "dare legnate" ad un altro. Allora alcune scuole successive hanno
assunto come importante questa capacità di "stare attenti", di essere
sempre presenti alla situazione, e l'hanno, diciamo così, articolata in una
serie di arti cosiddette marziali. State attenti però che questo nome
"arti marziali" è totalmente occidentale. In Oriente, sia in Cina e
poi in Giappone, è do, cioè via. È una via di realizzazione completa,
spirituale, fisica e spirituale.
STUDENTESSA: Volevo chiederLe se con la meditazione
si può arrivare all'Illuminazione.
PASQUALOTTO: Provalo da solo. Questa è una domanda a
cui nessun maestro dà risposta, perché il processo di Illuminazione è un
processo che ciascuno deve provare da solo, autonomamente. È un'esperienza
assolutamente individuale. È come se un mistico cristiano fosse investito da
questa domanda: "Chi è Dio?". Un mistico non te lo direbbe mai. È
un'esperienza che si può fare solo in prima persona. Ovviamente detto questo,
non vuol dire che non si possa dire nulla su questo. Si può parlare delle tappe
che conducono all'Illuminazione. E allora ci sono vari sistemi, ci sono varie
scuole, quella tibetana come quella Zen, ma del culmine, dell'esito finale,
dovrai parlarne tu o chiunque si cimenti con esso.
STUDENTESSA: Ma la meditazione può essere una via
per arrivare all'Illuminazione.
PASQUALOTTO: Non posso darti la definizione di che
cosa sia Illuminazione. Posso dirti che la meditazione è sicuramente la via
maestra, lo strumento principale per arrivarci. Anche qui, per esempio, per
ritornare al discorso relativo al tempo degli altri, il problema della
meditazione è chiarissimo per noi occidentali, perché fa scoppiare
letteralmente i tempi normali, perché per meditare bisogna rallentare il
respiro. Rallentando il respiro, bisogna rallentare l'attività. Bisogna, in
parole povere, stare seduti e stare perfettamente attenti all'andamento del
respiro, dentro e fuori. E quanto più è lento, meglio è. Allora capisci che la
meditazione in questo senso è proprio una specie di antitesi.
STUDENTE:Senta, professore, io volevo farLe una domanda: Lei
ci ha detto che le arti marziali sono un'armonizzazione fra il corpo e lo
spirito e, l'accezione "arte marziale" è un termine di origine
occidentale. Però è vero che esse sono nate come un sistema di difesa dei
monaci dagli attacchi ai monasteri, sempre come coordinazione fra il corpo e lo
spirito, o, comunque come un sistema di difesa. C'è stata o non c'è stata una
fusione fra la figura del monaco e quella del guerriero?
PASQUALOTTO: Sì. Effettivamente le arti marziali
sono nate in questo modo, e poi, date le contingenze storiche, (come delle
grosse lotte tra i diversi monasteri) questa originaria manifestazione di
armonizzazione dello spirito è arrivata ad avere anche uno scopo pratico, ossia
quello di difendere i monasteri da altri monaci, che li attaccavano. Devo dire
che queste lotte rappresentano un periodo molto breve della storia del
Giappone. Diciamo che, in generale, io non voglio negare che il
"tai-chi" non si sia evoluto, poi, in arti marziali, ma devo
sottolineare che qualsiasi maestro voi troviate, di origine giapponese, a meno
che non sia letteralmente pagato miliardi per dire il contrario, nella sua più
profonda convinzione sa perfettamente che essa è una via di realizzazione. Non
ha scopi di difesa o di offesa. Di offesa assolutamente no. Caso mai, se
proprio deve essere un'arte marziale, di difesa.
STUDENTESSA: Gli orientali, secondo Lei,
spiritualmente, sono più elevati rispetto a noi occidentali, anche per il fatto
che noi siamo sempre sotto stress, facciamo sempre tutto con
molta velocità, e quindi questo fa sì che noi non si possa mai arrivare al loro
livello?
PASQUALOTTO: Anche qui bisogna distinguere
accuratamente tra coloro che si dedicano a queste cose in un modo o in un
altro, perché oggi, ripeto, l'Oriente è sempre più invaso dall'Occidente.
Quindi queste distinzioni vanno fatte. Detto questo, certamente una
caratteristica antropologica e psicologica tipica, in genere, dell'orientale,
dall'India, voglio dire, al Tibet, al Giappone, è una tendenza
all'introspezione. Mentre noi siamo più superficiali, più portati alla
estroversione. Però, detto questo, noi abbiamo all'interno della nostra
tradizione ebraica o cristiana, o islamica degli altissimi esempi di
introspezione. Pensate a Sant'Agostino, a Meister Eckhart, ai mistici islamici,
ai mistici del monte Athos. Cioè, non è che abbiamo il monopolio
dell'estroversione e gli orientali hanno quello dell'introversione. Certamente
il buddhismo, in particolare, ha accentuato moltissimo questa tendenza
all'autoanalisi di carattere psicologico.
STUDENTESSA: Secondo Lei, chi è che, in realtà, si
gode veramente la vita? Noi, che siamo molto più attaccati (forse) alle cose
materiali, o gli orientali, che vivono tutto in base ad un futuro, che non si
sa, poi, cosa sarà in realtà.
PASQUALOTTO: Attenzione! In base a quello che noi
leggiamo nei testi buddhisti il futuro non esiste, nel senso che il futuro
esiste solo nel presente come aspettativa. Il passato non esiste perché è nel
presente solo come ricordo. Se andate a leggere le Confessioni di Sant'Agostino
anche in quell'opera Agostino svolge un ragionamento molto simile a questo.
Neanche il presente esiste, perché nel momento in cui tu lo vuoi afferrare
scorre via, ci scivola dalle mani, passa. Quindi in realtà il tempo non esiste.
Non esiste anche per un fatto molto semplice, che per il buddhismo e anche per
il taoismo non c'è un inizio e una fine. Mentre, di contro, noi siamo
all'interno di una prospettiva lineare, complicata quanto vogliamo, ma lineare.
Qualcuno ha creato il mondo, qualcuno lo distruggerà.
STUDENTE: Perché in Oriente, esistevano le lotte fra
i monasteri?
PASQUALOTTO: Ma più che altro per questioni come
l'onore o, all'opposto, come il denaro. I monasteri dovevano sopravvivere, e
allora era necessario che il signorotto, il feudatario locale, desse loro delle
concessioni. Anche per questioni d'onore, nel senso che esistendo questa
rappresentazione del maestro come figura eminente, di spicco,. Allora potevano
scoppiare delle vere e proprie battaglie tra i vari maestri. Queste battaglie,
certe volte, consistevano in scontri puramente verbali, ma altre volte
(pochissime al dire il vero ci sono stati tre casi in tutta la storia del
Giappone) se le davano di santa ragione. Ma se andiamo a leggere nei testi
buddhisti, anche nei testi Zen, tutto questo non è ammesso. Anzi è ciò che
bisogna evitare, perché, se ci pensi, uno dei temi principali, proposti dal
buddhismo, è quello del non attaccamento. Non attaccamento vuol dire: non
attaccamento all'io, ma anche ai beni materiali e quindi, anche al monastero,
all'onore, al potere, che uno dovrebbe mettere in discussione.
STUDENTE: Volevo riprendere l'argomento del
confronto tra la società occidentale e quella orientale. Non pensa che questa
dinamizzazione della società occidentale non sia altro che un processo di
adattamento alle necessità mondiali? Le faccio un esempio: nelle società
antiche, per produrre una spada si impiegavano dei giorni, ma non credo che ci
fossero tante persone in un solo villaggio ad avere bisogno di una spada al
giorno. Oggi la produzione si è dovuta accelerare, anche grazie alla necessità
mondiale. Faccio un altro esempio banale: la produzione di tetrapak di latte.
Quante persone, ogni giorno, hanno bisogno di tetrapak di latte nel mondo?
Tantissime. Siamo circa sei miliardi di esseri umani nel mondo. Quindi non
pensa che sia, intanto, un processo di adattamento la necessità mondiale?
PASQUALOTTO: Si potrebbe dire esattamente il
contrario ossia: un certo modo di impostare lo sviluppo economico ha adattato
il mondo a sé. Capisci? Non è che sia stata una realtà oggettiva ad imporre
delle reali esigenze al nostro stile di produzione. Ci sono stati alcuni uomini
che hanno avuto alcune esigenze, come quella di produrre di più, di consumare
di più, per guadagnare di più, e tutto questo, ad un certo punto (lo vedrete
voi stessi molto meglio di noi, nei prossimi cinquanta, cento anni, in quello
che diventerà l'economia mondiale) ha contribuito a creare questo rapporto
esistente tra tempo di produzione e realtà quotidiana. Ciò che noi vediamo qui,
in Occidente, sarà quello che verrà esportato nella Cina, nel Sud-Est asiatico.
Già ci sono tutti i presupposti per questa espansione. Ma non è che il mondo
reale volesse questo. Il mondo non è un soggetto metafisico, che esige questo.
Se in un certo momento gli uomini sospendessero questo tipo di attività
produttiva e dicessero: "Non vogliamo più consumare dieci paia di calzoni
l'anno, venti paia di scarpe all'anno, non vogliamo più questo tipo di consumo,
non vogliamo più i frigoriferi", il mondo cambierebbe. Se ci pensate bene
questa enorme accelerazione del consumismo occidentale da quanto tempo dura?
Cento anni? Non di più. Per migliaia, milioni di anni il mondo ha fatto a meno
del frigorifero, delle Timberland, delle t-shirt.
STUDENTE: Come è possibile che dei divi del cinema o
dello spettacolo, che, comunque, bene o male conducono dei ritmi di vita
abbastanza frenetica riescano, comunque, a conciliare i loro ritmi con delle
scelte esistenziali come il buddhismo?
PASQUALOTTO: Anch'io penso che siano degli stili di
vita difficilmente conciliabili. Il buddhismo è una scelta semplice, perché non
ha particolari dogmi, ma, al tempo stesso, è anche difficile, perché comporta
una trasformazione della vita quotidiana. Non vorrei che fosse usato come un
equivalente di un'ora di tennis o di un'ora di bowling. Come avvenne anni fa,
con la meditazione trascendentale. Il supermanager o, in questo caso, l'attore
stressato da ritmi pazzeschi, si ritaglia un'ora per ricaricare le sue famose
"batterie" e quindi per ricominciare poi ancora più velocemente con
il ritmo della sua vita. Questo certamente non fa male, però non c'entra
proprio niente con la meditazione, vista come via per l'Illuminazione, di cui
parlavamo prima. Non c'entra niente.
STUDENTE: Dal momento che il buddhismo e le
filosofie orientali in genere, tendono ad annullare il tempo relativo, come il
presente o il passato o il futuro, non c'è il rischio che magari queste
concezioni portino, ad un annullamento del concetto di attimo
e quindi al condurre una vita fatta d'attesa?
PASQUALOTTO: No, semmai il contrario. Una vita
d'attesa sicuramente no, perché nel buddhismo viene abbandonato il concetto di
speranza. Non essendoci "futuro" non c'è "speranza". La
vita d'attesa è solo quella perfetta, secondo la tradizione giudaica. Nel
buddhismo è esattamente il contrario anche per un secondo motivo, perché
l'attimo può diventare immenso, eterno. Anche quel discorso che faceva il
maestro, della lentezza. La lentezza non vuol dire abbandono all'ozio totale.
Vuol dire attenzione al momento. Allora ciascun momento diventa immenso, con un
ragionamento, se vuoi, molto semplice, dal punto di vista psicologico. Tu pensa
che questo momento, che stiamo vivendo ora, oppure qualsiasi momento della tua
vita, sia l'ultimo. Questo pensiero si intensifica enormemente, fino a
diventare la migliore possibilità immaginabile, e tu lo puoi vivere assolutamente,
pienamente, ovvero in maniera assolutamente piena, senza più confrontarlo con
quello che vivevi prima, per vedere se era più cattivo o più buono e senza
vederlo in rapporto ad un futuro. Se tu, per esempio, in questo momento stessi
pensando di fare una ricchissima colazione o di giocare una partita a calcio,
cosa accadrebbe, che ti rovinassi questo momento? Te lo rovineresti, perché giungeresti
a confrontarlo con qualcosa che speri sia migliore.
STUDENTE: A quale età, in genere, può capitare di
scegliere questa religione, ossia il Buddhismo?
PASQUALOTTO: In nessuna in particolare e in tutte.
In queste religioni non c'è un'iniziazione, non c'è una forma di battesimo.
Esiste una forma di inizio, che però non ha un rito proprio, che viene detta
"Prendo rifugio". È la presa di rifugio nei tre gioielli. I tre
gioielli sono appunto il sanga, la comunità, il Buddha e il dharma. Il dharma
sono gli insegnamenti del Buddha. Prendere rifugio nel Buddha non vuol dire:
"Credo in", nel senso cristiano del termine, perché il Buddha non è
Dio, e non è neppure un profeta. "Prendo rifugio nel Buddha" vuol
dire: "Ho fiducia che quella strada che lui ha trovato sia una buona
strada". Tutto qui. Fiducia nel sanga significa avere fiducia nella
comunità, ossia nella comunità intesa non solo in senso monastico, bensì nel
fatto che questa strada la puoi percorrere insieme ad altri individui che
l'hanno già scelta, come se fosse una gita. E allora si può dire: "Ho
fiducia che questa compagnia arrivi al rifugio". L'iniziazione buddhista è
sostanzialmente questa. E non c'è nessuna età specifica o più indicata di
altre. Uno può entrare a cinque anni come a novanta. Poi una cosa
caratteristica del monachesimo buddhista è che uno può uscire da esso quando
vuole, ossia l'inesistenza , in esso, di voti perenni. L'unico voto che si fa
nel buddhismo e che viene recitato proprio all'inizio della giornata è il voto
con il quale si promette di salvare tutti gli esseri vivventi.
STUDENTE: Professore, mi scusi, vorrei sapere se il
buddhismo professa di vivere la giornata
o alla giornata.
PASQUALOTTO: Interessante questa domanda. Direi la
giornata. Perché? Perché vivere alla giornata sembrerebbe un lasciarsi vivere.
O no? Vivo alla giornata, mi lascio condizionare dagli avvenimenti, mi lascio
trascinare, trasportare. Io invece direi che quello buddhista è un vivere la
giornata, proprio perché questa formula indica quella attenzione a tutti i
momenti, anche i minimi momenti, della giornata. Quindi esso corrisponde al
vivere la giornata il più intensamente possibile. E questo ci fa ritornare al
discorso sulla diversità dei tempi, quando, facevo riferimento ad una diversa
qualità del tempo, una qualità che non sia scandita dall'orologio, bensì
scandita dalla cosa che dobbiamo fare. Se dobbiamo zappare, lo
"zappare" ha quel tempo. È inutile dire che dobbiamo dirlo o farlo in
un'ora. Se dobbiamo pigiare l'uva, dobbiamo farlo. Ma anche se dobbiamo fare
delle cose artigianali. Capite? Per esempio, qui, prima, avevo visto questa
bellissima capanna, che in Giappone è il simbolo dell'impermanenza. Ecco, per
fare un oggetto del genere, ci vuole molta attenzione, ci vuole tempo. Se Lei
chiedesse ad un artigiano di fartelo in due ore, lui Le potrebbe rispondere :
"Vada da un altro". E giustamente! Almeno i vecchi artigiani facevano
così. Ecco, pensate al semplice fatto che queste cose, in Giappone, sono state
talmente radicate, per centinaia e centinaia di anni, che, addirittura, nella
grande industria tecnologica (questa è una apparente assurdità) ciascun operaio
produce il proprio pezzo ancora con questa mentalità, nonostante ci siano i
tempi di lavoro, ci siano i cottimi, ci siano tutte queste condizioni. Ma,
psicologicamente, il concetto è questo: il bullone della moto Honda deve essere
calibrato nella maniera più perfetta.
STUDENTE: In Occidente abbiamo un ritmo di vita
molto più frenetico rispetto all'Oriente, anche se adesso l'Oriente si sta adattando
ad esso, proprio a causa di questa occidentalizzazione. Però noi viviamo
continuamente pensando al futuro, anche quando stiamo vivendo quello che
avevamo progettato, anche quando stiamo progettando altre cose, che si
realizzeranno in un altro tempo. Mentre in Oriente si vive attimo per attimo,
ponderando di più qualsiasi piccolo particolare che sta per essere affrontato.
Quindi la cultura orientale permette di vivere molto meglio di quella
occidentale, poiché considera molto di più la vita e la gode molto di più. È
del mio stesso avviso?
PASQUALOTTO: Guardi, queste sono domande difficili,
perché io dovrei conoscere personalmente un miliardo e mezzo di cinesi, 125
milioni di giapponesi, 750 milioni di indiani, e poi fare una statistica su
tutto questo. Non lo so. Io penso che si viva sia bene che male, sia in Oriente
che in Occidente. Ma vedo pure che le cose più vicine a me, ossia questo
incremento frenetico della vita quotidiana provoca sofferenza. E, quindi,
questo diverso modo di affrontare il tempo, che ci viene offerto dalla
tradizione orientale, può servire da antidoto, non credo per rivolgere
completamente al meglio la nostra storia, che è tutta fatta di progetti, di
futuro, di programmazione, di tempi ristretti. Non penso che la possa sconvolgere,
ma per lo meno potrà fare da antidoto ad un suo peggioramento.
STUDENTE: Lei prima ha detto che gli orientali
vivono ogni momento come un eterno presente. E che quindi non vi è la presenza
di un futuro e di un passato nella loro scansione della vita. Questa
caratteristica non può contribuire al generare un annullamento, delle speranze,
dei sogni, delle attese, che potrebbero offrire un beneficio nei momenti di
tristezza, nei momenti di depressione dell'uomo?
PASQUALOTTO: Sì, però tu potresti fare, provocatoriamente,
anche un ragionamento completamente opposto, affermando che l'attesa sia qualcosa
di doloroso. Se tu stai male ma nello stesso tempo pensi che "potresti
stare meglio", ebbene, non è che questo pensare di stare meglio ti faccia
automaticamente stare meglio. Il problema consiste nel trovare un sistema per
stare completamente meglio, ma, dal punto di vista psicologico, questa continua
tensione alla speranza di stare meglio provoca continua sofferenza, mentre una
scelta migliore è assumere, invece, questo atteggiamento, che può si leggere
nei testi buddhisti: il dolore (come anche in Epicuro) passa come passa il
piacere, ossia è impermanente e quindi non si deve dare troppa importanza ad
esso, cercando di farlo passare più velocemente. E' chiaro? Perché questo
tentativo di farlo passare più velocemente provoca ancora più dolore, più
tensione, se non, addirittura, maggior dolore fisico, e più tensione nervosa.
STUDENTE: Quindi, secondo Lei, questi momenti negativi che occorrono nella vita di ognuno di noi
occorre accettarli così come si presentano?
PASQUALOTTO: Certamente! Questa è la cosa più
difficile a farsi, perché noi abbiamo in noi stessi due poli opposti e
complementari. Il polo mentale del progetto oppure, di contro, quello
dell'accettazione fatalistica, la quale consiste nel dire: "mi capiti
quello che mi capiti". È il discorso che faceva prima il maestro Zen sulla
fretta e sulla lentezza. La via di mezzo è quella di avere una capacità per essere
presente in qualsiasi situazione. C'è un dolore fisico in questo momento? Ho un
dolore alla mano. Né bene né male. Lo osservo e osservo il suo andamento.
Naturalmente dal punto di vista farmacologico, posso anche assumere dei rimedi,
ma è dal punto di vista psicologico che deve esserci il mutamento, perché se
io, invece, cominciassi a irrigidirmi continuamente, dicendo: "Devo
eliminare questo dolore, devo eliminarlo"! È, questo, il caso classico
delle emicranie, di cui non io, bensì i medici occidentali, dicono esattamente
la stessa cosa. L'emicrania è uno di quei casi in cui, quanto più uno è attento
alla propria emicrania, tanto più essa aumenta.
STUDENTE: Professore, scusi, ma in questo non c'è
una contraddizione? Per esempio, prendiamo il Giappone. I giapponesi hanno una
mentalità che è sicuramente orientale, però hanno anche, nel loro sistema
economico e nel loro modello di lavoro, delle produzioni industriali molto
accelerate.
PASQUALOTTO: Il Giappone, come società, è tutta una
contraddizione, però è anche un paese, un popolo, che è riuscito ad affrontare,
in modo coraggioso, tutte queste contraddizioni. Voi sapete come i ritmi
produttivi industriali siano frenetici, mentre dall'altro canto, i ritmi del
proseguimento per una via spirituale siano l'esatto opposto. Eppure in qualche
modo, in qualche forma, essi riescono a conciliarli, anche nella forma, secondo
me terribile, di cui parlavo prima, consistente nel dire: "facciamo un'ora
di meditazione, tra due ore di produzione". Ma anche questo è un modo per
affrontare una diversa forma di temporalità nel mondo contemporaneo.
© Tora Kan Dōjō
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