martedì 28 marzo 2023

Il Rumore della Vita

Vivere atto secondo. Ho sempre identificato questa propensione “filosofica” anche nel lavoro e nell’impegno di certi uomini straordinari come Nietzsche, Epicuro, Camus o Thoreau, tutti consapevoli che non si può distinguere l’esperienza di un corpo dalla dimensione spirituale e intellettuale. Di certo, se c’è stato per me un argine alla deriva della fascinazione psicanalitica, che mi ha “salvato” dall’avvitarmi in certi deliri ego referenziati, è stato un altro incontro e un altro viaggio. Quello nel pensiero del Buddha. Freud l’avrebbe con gioia e con una certa morbosità steso sul suo lettino. Nel mio caso, ho sempre preferito averlo sul sedile di fianco. Vittorino Andreoli, in una recente intervista a «Sette», si chiede: «Ora che facciamo l’analisi con Skype... se sparisce l’ascolto, cosa diventa l’altro?». Ho sempre amato ascoltare. Soprattutto le storie che mi raccontavano di mondi ed esperienze umane. Contadine. I ritmi della mietitura, le greggi su corridoi immaginari e antichi scolpiti nelle vallate brulle della Magna Grecia e nelle menti dei pastori. I racconti di mia nonna, mondina, nel dialetto del suo paese, quel misto di suoni germanici e cantilene galliche, oscuri a un orecchio non addestrato. L’antico. Gli echi che giungono da lontano. Le ore passate a immaginare Alcibiade che solcava lo Ionio verso la Sicilia per fondare città e seguire imprese eroiche e meravigliosamente velleitarie. Vite filosofiche governate da una potenza magica e concreta. Vite erranti che sognavo a occhi aperti. Andreoli, un uomo che ho sempre ammirato, sostiene che per lui la psichiatria significa sofferenza, anzi, interpretazione della sofferenza di esistere e che la relazione è la base di tutto. La mente non è un luogo ma una funzione del cervello. E su questa funzione si può, si deve lavorare per uscire dalla condizione del soffrire prodotta dal pensiero magico che ci aliena proprio questa funzione. In Freud la parola ha un ruolo terapeutico fondamentale. In essa risiede la potenza guaritrice e la minaccia della nevrosi e dell’alienazione. Quindi non ci sono elementi per affermare che la follia sia inscritta nel codice genetico, sostiene lo psichiatra. Ma entrano in gioco tre fattori fondamentali: la parte del cervello che definiamo “plastica” perché si struttura sulla base delle esperienze, la personalità, e poi l’ambiente. “La follia non è fatale!” è il suo mantra. Non siamo destinati a soffrire per sempre proprio perché non dobbiamo mai dimenticare che il piano sul quale osserviamo i fenomeni della mente è quello dell’esistenza. E l’esistenza è in continua mutazione. Impermanente. È proprio l’esperienza dei malati che ci insegna che anche l’individuo più folle può sviluppare forme considerevoli di creatività e che anche il più “normale” può commettere atti di follia. Il confine è sottile. Dipende da quanto il pensiero magico riesce a irretirci in un piano immaginario che ci allontana dalla magia della vita e della realtà. Magia che non è negata neppure a una mente “folle”, che riesce, comunque, a creare. La potenza dell’esistenza oltrepassa i confini della funzione della mente. Un’energia ci muove, ci entra nel corpo, modella il cervello e va ben oltre la mente stessa, anche quando questa dimentica i codici per interpretare la natura. Gli indiani d’America, invece che confinare i “matti” in luoghi dimenticati, li tenevano in grande considerazione. Consapevoli che nel loro delirio potevano apparire forme di saggezza. Persino lampi di vita filosofica. E dunque, alla fine, dire, come fa Andreoli, «io amo i matti» equivale ad affermare che si amano i propri simili e la loro inestirpabile, incomparabile singolarità. Nonostante i progressi delle neuroscienze, è sempre la necessità del legame umano, sancito alla parola, a riaffiorare a ogni snodo del discorso. Grazie a questo usciamo dal pensiero magico e guariamo. Ho sempre sentito, istintivamente, che il rumore di fondo della vita, un certo disagio, l’interrogarsi incessante e onnipresente dell’interiorità ha a che fare con qualcosa di più vasto che non sta dentro al confine di una personalità, per quanto contribuisca a definirla. Più che essere interessato alla dimensione dell’io in quanto me, cioè del “mio” sé, ero affascinato alla relazione di questo “me” con qualcosa di più grande, col mondo. Ho sempre pensato che lì fosse il nodo da affrontare, la vera condizione che ci realizza e ci consente di esprimere ciò che realmente siamo. Perciò la ricerca di una vita filosofica è stata e continua, in un certo senso, a essere l’unico “analista” cui mi sia mai rivolto. Questo approccio mi obbliga a relazionarmi con maggiore consapevolezza alla condizione esistenziale che ci accomuna tutti: la fragilità. Perciò mi interessano gli strumenti di cura individuati e messi in pratica dal Buddha, per la loro efficacia e praticità, così come mi affascina il lavoro di medici come Andreoli. Freud, che della psicanalisi è stato il fondatore, aveva il culto della ragione come strumento principe per conseguire il dominio sulle passioni irrazionali e sul potere dell’inconscio. Ma, contemporaneamente, il suo approccio nei confronti dell’essere umano è totalmente filosofico e “paradossalmente” spirituale: nella Introduzione allo studio della psicanalisi illustra i risultati che alcune pratiche mistiche possono produrre nel processo di trasformazione della personalità e più volte parla della terapia psicanalitica come la liberazione dell’essere umano dai suoi sintomi nevrotici, dalle inibizioni e anomalie caratteriali facendo riferimento al terapista come a un maestro. Di cosa? Un maestro di vita. E definisce la relazione tra paziente e analista come un rapporto che si basa sull’amore del vero e del riconoscimento della realtà che impedisce ogni sorta di simulazione e inganno. Non è un caso che anche Eric Fromm, un altro dei grandi padri della psicanalisi, la definisca come un’espressione caratteristica della crisi spirituale dell’uomo occidentale. Figlia del razionalismo e dell’umanesimo occidentali e dell’indagine introspettiva del romanticismo, ha due “padrini spirituali” in cui affonda le radici: la sapienza greca e l’etica ebraica, entrambe interessate al tema del raggiungimento della perfezione e della felicità.

 

Stefano Bettera

‘L’abbraccio del mondo’Coltivare l'eleganza dello spirito per costruire la mente ecologica - ed. Oscar Mondadori
















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mercoledì 22 marzo 2023

Un fiume pacifico

di Thich Nhat Hanh

New Hamlet, Plum Village 26 gennaio 2012

* A Peaceful River, trad. ingl. (dal vietnamita) di sister Chan Khong, «the Mindfulness Bell», Summer 2012 (numero speciale per il 30° anniversario di Plum Village). [N.d.T.]

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Caro sangha, oggi è il 26 gennaio 2012. Siamo nella Sala di Meditazione della Luna Piena di New Hamlet. La gatha di oggi dal sutra che stiamo studiando dice che tutti noi conteniamo una corrente e che non abbiamo un sé separato. La gatha è la seguente: 

Esseri viventi è il nome di una corrente continua e tutti i fenomeni in quanto oggetto di percezione sono soltanto segni; perciò non c’è alcuna reale trasformazione della nascita nella morte e della morte nella nascita e nessuna persona che realizzi il nirvana.(1) 


Ci sono due cose che questa gatha ci insegna. Primo, noi non abbiamo un io separato, un sé separato; e secondo, ogni cosa viene dalle nostre percezioni, ogni cosa è un oggetto della nostra percezione. Non c’è nessuno che raggiunga il nirvana, perché se non c’è alcun sé separato, allora chi lo farà? Dapprima noi pensiamo che dobbiamo scegliere: o siamo nell’oceano di morte e nascita, e allora soffriamo; o siamo nel nirvana, cosicché non abbiamo da soffrire. Ma dopo ciò dobbiamo andare oltre nella nostra comprensione. Dobbiamo vedere che nascita-e-morte è il nirvana. Se siamo profondamente in contatto con nascita e morte, allora siamo in contatto con il nirvana. Queste due cose non sono separate; per questo, non c’è nessuno nel flusso di nascita e morte e non c’è nessuno che vada verso il nirvana. Perciò non dobbiamo fare alcunché. Non dobbiamo nemmeno praticare. Ho scritto una poesia su un ruscello, un piccolo ruscello che comincia in cima a una montagna. Quando arriva la pioggia, esso diventa un fiume. Molti piccoli ruscelli si uniscono a formare il fiume, e il fiume scorre giù per la montagna. Stiamo descrivendo un fiume molto giovane. Noi siamo come questo giovane fiume. Quando siamo giovani, siamo eccitati e vogliamo andare molto velocemente. La gioventù è sempre così, vogliamo sempre raggiungere qualcosa rapidamente. Tutti attraversiamo quella fase; alcuni l’hanno già attraversata, altri lo stanno facendo proprio adesso. Vogliamo raggiungere qualcosa, vogliamo finire qualcosa, vogliamo andare da qualche parte. Ci sono alcuni giovani monaci che vogliono tanto diventare in fretta anziani venerabili, così si comportano in maniera molto serena, proprio come un vecchio venerabile; si comportano in modo più vecchio della loro età. E ci sono alcuni monaci anziani che vogliono proprio indossare l’abito monastico dei monaci novizi cosicché possano sembrare giovani. Dunque il giovane fiume stava danzando e cantando mentre correva rapidamente giù per la montagna. Era molto entusiasta e naturalmente sul cammino vedeva altri ruscelli, e tutti si mescolavano insieme. Possiamo vedere chiaramente che un ruscello, un fiume non rimane separato; si congiunge con molti diversi ruscelli mentre viaggia. E il nostro corso della vita è lo stesso: ogni giorno abbiamo così tanti input, che entrano in noi sempre. Se ciò che entra dentro di noi è nutriente, va bene; ma se ciò che entra non è fresco, può rendere il flusso della vita non molto buono. Ascoltare il discorso di Dharma questa mattina è un input nutriente e ci aiuta a crescere. Il discorso può contenere insight e compassione. Se riusciamo ad assorbire tutto di quei piccoli ruscelli dentro il discorso di Dharma, allora più tardi il nostro fiume sarà molto chiaro. Ma noi abbiamo anche output. Mentre il fiume scorre giù per la montagna, al tempo stesso raccoglie e distribuisce: per esempio, il fiume deve condividere dell’acqua con l’erba. Quando il fiume arriva nelle pianure, non c’è alcun pendio ripido, così il fiume rallenta. Questo ci succede quando invecchiamo: non siamo eccitati, abbiamo più pace. Abbiamo la capacità di vedere che cosa accade nel momento presente perché abbiamo rallentato. Quando il fiume scorre nel campo, diventa un fiume più pacifico ed è diventato più ampio, come il Fiume dei Profumi a Hue, il Fiume Rosso nel Vietnam del Nord, il Fiume Mekong, il Rio delle Amazzoni, il Mississippi, il Gange.



La nuvola è impermanente

Quando il fiume rallenta, ha tempo di riflettere molte nuvole piene di colori; le nuvole hanno molti, molti colori. Allora il fiume comincia ad affezionarsi alle nuvole: «Oh, quella nuvola è così bella! Ah, pure quella nuvola è bella!». E il fiume corre da una nuvola a un’altra nuvola. Anche noi siamo un fiume; siamo un corso d’acqua e diventiamo attratti da quella nuvola, quell’immagine. Ci affezioniamo a molte cose entusiasmanti, piene di colori e interessanti. Ma la natura di ogni cosa è impermanente, incluso la nuvola. Ora la nuvola è qui, ma nel pomeriggio passerà. Mentre le nuvole scompaiono, tu corri da una nuvola a un’altra nuvola, cercando di aggrapparti. Anche noi corriamo dietro a questo o a quel progetto, dietro a un’altra bella donna, a un altro bell’uomo. Sentiamo del vuoto nei nostri cuori e siamo come un fiume in corsa dietro a una nuvola. Ma la verità della nuvola è l’impermanenza; la sua natura è di scomparire. Perdiamo il nostro respiro rincorrendo questa nuvola, poi un’altra nuvola; e allora, poiché abbiamo quella sensazione di vuoto dentro, ci sentiamo soli. Poi, un giorno, il fiume è così triste, mancandogli le nuvole, e non ha nessun desiderio di vivere. Il cielo è vuoto, non c’è alcuna nuvola da rincorrere, niente per noi da inseguire. Perciò il fiume vuole morire. Vuole suicidarsi. Ma il fiume non può uccidersi: è impossibile. Una corrente deve continuare, non può smettere di scorrere. Ed è lo stesso per noi. Noi siamo un fiume di forma, sensazioni, percezioni, formazioni mentali e coscienza. Diciamo che possiamo ucciderci, che possiamo suicidarci; ma non possiamo mai farlo, perché appariremo semplicemente in un’altra forma. Quindi dobbiamo scorrere in modo che il fiume diventi sempre più ampio, sempre più limpido, sempre più bello, e andare nella direzione che rende la vita più bella. Il fiume era così vuoto e così perduto, ma è tornato al fiume, a sé stesso.


Già illuminato


Per la prima volta il fiume ascolta sé stesso. Quando si mette in ascolto in riva al fiume e sente un piccolo sciabordio delle onde, quello è come i singhiozzi del fiume. Ma guardando profondamente, all’improvviso vedrà che, oh, questa piccola onda sulla sponda del fiume è anche la nuvola. E io, il grande fiume, sono già una nuvola. Ho tutte le nuvole in me stesso. Ho tutti i miei progetti in me stesso, tutti i sogni in me stesso, tutti gli scopi in me stesso. La natura del fiume è una nuvola, la natura della nuvola è un fiume, perché sono tutti e due fatti di acqua. Tu sei già acqua; perché corri dietro all’acqua? Sei già ciò che stai rincorrendo. Questo è il primo insight del fiume. Nel Buddhismo abbiamo tre porte della liberazione(2). Una delle porte è l’assenza di scopo. Non hai bisogno di ambire a niente. Non hai bisogno di andare da nessuna parte. La terza porta della liberazione è l’assenza di scopo. La seconda porta è l’assenza di segno. La prima è la vacuità. Assenza di scopo significa che non hai bisogno di ambire a niente; tu sei ciò che stai cercando. Quando il fiume capisce che lui è acqua e che la nuvola è in lui perché anche lei è acqua, non ha alcuno scopo da inseguire, ed è in pace. Ed è lo stesso con noi: noi inseguiamo il Buddha, inseguiamo il satori, l’illuminazione. Non hai bisogno di inseguire l’illuminazione; sei già illuminato. Dove sei, stabilmente lì, tranquillo, chiaro nella tua mente, sei già ciò che stai cercando. Quando il fiume ha trovato quella visione profonda, scorre placidamente e arriva all’oceano, che è acqua anch’esso. Dovunque tu sia, sei già acqua. Quando le condizioni cambiano e c’è troppo caldo, diventi acqua sotto forma di vapore, sotto forma di una nuvola. Allora, mentre scorri placidamente come un fiume, ci sono molte nuvole. Ma il fiume non ha alcun desiderio di rincorrere le nuvole perché il fiume sa che tutte queste nuvole sono lui stesso. Non ha bisogno di rincorrere tutte queste bellezze, tutti questi attaccamenti. Il fiume capisce che lui è nuvola. E quella notte in cui il fiume capisce che è fiume, che è nuvola, non c’è alcuna discriminazione tra nuvola e vapore acqueo e acqua. Quella notte c’è una grande illuminazione di nuvola, luna, fiume, vapore, acqua; ed essi si uniscono per la meditazione camminata. Sono insieme; sono uno. Si manifestano in forme diverse, ma sono uno. Hanno già raggiunto la porta della liberazione, l’assenza di scopo. Non sono confusi dai segni delle loro forme e sperimentano il non-sé, l’interessere. Sono uno.


Il nirvana in te

Vediamo le meraviglie di ogni secondo, di ogni minuto. Il sole è così bello. Il sangha è così bello. Noi siamo un fiume; dobbiamo scorrere. Perché pensi che puoi ucciderti? Non puoi uccidere un fiume. Il fiume continua a cercare una via per continuare: quella è la tua pratica. Basta che tu pratichi così. Non hai bisogno di imparare migliaia di sutra. Semplicemente cammina sulla Terra, sii realmente con la Terra, sii con il sole. La Terra è una meraviglia, il sole è una meraviglia. Siete uno. La Terra è un grande bodhisattva, il sole è un grande bodhisattva. Noi non possiamo essere diversi, non possiamo trovare un bodhisattva migliore. Hai bisogno soltanto di praticare così; è sufficiente. Quando riesci a camminare in presenza mentale, profondamente, a essere uno con la Terra, a essere uno con il sole, a essere uno con l’universo, puoi vedere che ogni passo ti porta a quella grande realtà. Così tutto il tuo dubbio sarà rimosso. In realtà, non c’è niente di perduto, niente di aumentato. Perdere qui, aumentare lì: puoi vedere che niente dura. Perciò il nostro fratello è scomparso, ma appare qui, lì, e in te stesso, in molte altre persone. Non cercare di trovare il nirvana lontano. Puoi trovare il nirvana in te, nel momento presente. Niente nasce, niente muore. Ogni cosa è non-nascita, non-morte; nessun aumento, nessuna diminuzione. Vediamo il mondo della sofferenza e vediamo il mondo dell’illuminazione perché siamo dualistici nella nostra visione. Se puoi toccare il mondo della bellezza nel mondo della bruttezza, allora puoi toccare il mondo della sofferenza nel mondo dell’illuminazione. Il mondo dell’illuminazione è dentro il mondo della sofferenza. Non pensare che l’illuminazione sia diversa dall’ignoranza. Dall’ignoranza puoi ottenere l’illuminazione. Devi vedere che nella sofferenza ci sono parecchi elementi che ti aiutano a raggiungere l’illuminazione. Dobbiamo imparare a prenderci cura della nostra sofferenza per cambiare, trasformare, essere liberati. Allora quando abbiamo sofferenza, dobbiamo soffrire insieme. Non soffrire da solo. Quando soffri da solo non puoi trovare la via d’uscita. Ma se soffriamo come un sangha, insieme, troveremo una via d’uscita. Io sono molto felice che vi ho tutti insieme con me. Ho attraversato molte situazioni difficili, ma voi siete qui, e noi tutti lavoriamo insieme per trasformare il nostro dolore. Perciò, come il fiume, non cercare di inseguire le nuvole. Ciò che stai inseguendo è già qui in te. L’acqua è in te; anche la nuvola è acqua, non è una promessa del futuro. Il paradiso è qui e ora. Il Regno di Dio è ora o mai più. Puoi rimanere dove sei, non rincorrendo alcunché. Devi praticare «Sono arrivato, sono a casa». È la nostra ancora. Significa che dimoriamo pacificamente, felicemente, qui e ora. Faccio voto di portare il mio corpo, la mia mente, la mia azione e la mia parola a mettere fine a ogni conflitto, alle liti, e
portare comprensione e amore a ognuno. Ciò è il nostro compito. È la nostra missione. La nostra missione è portare comprensione nella vita, a noi stessi per primi e poi insieme l’un l’altro. Cerchiamo di portare comprensione agli amici intimi, ai nostri cari, vicini e lontani. Dimoriamo pacificamente, in presenza mentale, nel momento presente, per proteggere il nostro bel pianeta verde, e facciamo voto di vedere l’interessere di ogni cosa per trascendere i segni, l’apparenza. In questo modo tocchiamo la realtà. Devi essere consapevole che ogni parola influenza l’intero sangha. Ogni azione corporea influenza l’intero sangha. Quando pensi qualcosa, influenza l’intero sangha. Tu sei una cellula di un corpo. Devi pensare in un modo che porti felicità e purezza al sangha. Devi parlare in un modo che porti purezza e comprensione al sangha. Dobbiamo agire in un modo che porti comprensione e bellezza al sangha per creare la Terra Pura. Arrivare completamente, non essere portati via dalle apparenze, trascendere i segni. Tu mi ami: significa che tu ti ami. Tu ti ami: significa che tu mi ami. Il Buddhismo applicato è la via per toccare la realtà, per vedere che nascita e morte sono soltanto porte dalle quali entri ed esci. Sembra che tu nasca, sembra che tu muoia, ma in realtà nasci ogni secondo, muori ogni secondo. Perciò, amici, non pensate che questo corpo sia proprio voi, perché voi siete un fiume. Questo fiume continua a scorrere e scorrere. E se si ferma qui, apparirà dall’altra parte.

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 Note:

(1)Gatha 44 dallo Yogacarabhumishastra di Acarya Asanga.

(2)Le Tre Porte della Liberazione: 
I. Vacuità: interessere; la comprensione che siamo vuoti di un sé separato, indipendente. Quando pratichiamo la meditazione del cibo, vedendo il cosmo nel nostro cibo, questa è la pratica della vacuità. 
II. Assenza di segno: non farsi catturare nell’apparenza ovvero nell’oggetto della nostra percezione; non essere limitati dalla forma: cioè, vedere che la nuvola e il fiume sono in essenza lo stesso, tutti e due fatti di acqua. 
III. Assenza di scopo: la comprensione che abbiamo già la natura di Buddha, che tutti gli elementi per la felicità sono già dentro di noi. La pratica dell’assenza di scopo è la pratica della libertà.
















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mercoledì 15 marzo 2023

Dimorare in Hishiryo

Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento offerto da Taigô Kônin Sensei durante la Pratica Zen.


In Zazen, dimorando nella consapevolezza del respiro e della postura, osserviamo. Diventiamo testimoni di quello che si muove dentro di noi, in particolare abbiamo modo di osservare chiaramente quel che si muove nella nostra mente. Da questa osservazione comprendiamo e facciamo l'esperienza profonda del corpo e della mente; facciamo l’esperienza dell’esistenza di un fondamento aldilà del pensiero che è profondo ed immutabile, non condizionato dai movimenti della mente, definito 'Hishiryo'... Immaginate il vasto cielo che rimane sullo sfondo qualunque fenomeno appaia, passa una nuvola, il volo di un uccello, il vento... ma il cielo rimane sullo sfondo, profondo, non condizionato, non coinvolto ed imperturbato dai fenomeni che appaiono e trascorrono. Possiamo così divenire consapevoli che tutte le nostre emozioni, positive e negative, rabbia, gelosia, passione, sono solo voli di uccelli, dei fulmini improvvisi, una folata di vento che si manifestano sullo sfondo di un cielo profondo e quieto. Imparando a dimorare nel pensiero Hishiryo, ed essendo profondamente intimamente consapevoli della sua presenza costante, possiamo tornare in un momento a dimorare nella quiete e osservare i fenomeni transitori per quello che sono. Questo non significa che non avremo sentimenti d'irritazione, rabbia e qualsiasi altro naturale sentimento umano... ma quando siamo consapevoli di questo fondo che rimane aldilà dei nostri pensieri e delle nostre emozioni, spesso condizionati da condizioni esterne ed esperienze passate, allora riusciamo a non farci più coinvolgere e a non diventare schiavi di queste emozioni. In uno dei Mondô che avverranno durante Hossenshiki un monaco chiede: " Ma quelle risate di felicità e quelle lacrime di tristezza, non è quello che fanno tutti?" E lo Shusô risponde "Ahimé, felici si diventa schiavi della felicità, tristi si diventa schiavi della tristezza. Anche il giorno e la notte sono preda a questo attaccamento che li separa". L'attaccamento va inteso come diventare schiavi ed essere in balia di quello che è inconsistente e mutevole e lasciare che condizioni la nostra vita e le nostre scelte... Praticare Zazen, fare l'esperienza nel Dojo con gli altri, ci permette di scoprire che c'è un fondo di saggezza al quale possiamo tornare costantemente; come la tigre che torna nella montagna... Il Buddha diceva: "Siate un’isola a voi stessi", siate rifugio a voi stessi, intendeva proprio questo tornare a questa essenza fondamentale che ci appartiene e della quale non siamo consapevoli se non quando sediamo in Zazen. Impariamo a tornare a questo fondo e da lì attingere la nostra solidità e serenità in mezzo a qualsiasi condizione, anche nella peggiore delle tempeste possiamo trovare questo rifugio. 

Al mattino, al termine dello Zazen ci riuniamo al centro del Dojo e cantiamo i Sutra. I Sutra sono insegnamenti profondi del Buddha e dei Patriarchi, dei Maestri che si sono succeduti uno dopo l'altro nel trasmettere questa infinita saggezza... Non è tanto importante solo il significato delle parole e la comprensione intellettuale del testo quanto l'espressione di gratitudine che avviene attraverso il respiro comune nel canto. Esprimiamo tutta la nostra riconoscenza per avere avuto l'opportunità in questa vita di incontrare il Dharma; gratitudine e riconoscenza nei confronti di chi ci ha preceduto nella nostra vita: verso i nostri antenati, i nostri genitori, i nostri maestri, e così via all'infinito. Lo esprimiamo con i gesti, con il respiro, con il canto, con lo sguardo, con l'attitudine del corpo, prosternandoci... Uscendo da questo luogo dopo la Pratica del mattino siamo veramente capaci di affrontare la giornata con un altro sguardo, a partire da questa consapevolezza e da questo riconoscimento profondo della nostra gratitudine. Questo forse è uno dei più preziosi insegnamenti che lo Zazen ci offre. Tornate dunque a guardare le cose da quel fondo di quiete e profonda consapevolezza che è sempre presente. Se siete capaci di tornare a quel fondo, e da lì osservare la vostra vita, non può che sorgere spontaneamente un profondo sentimento di benevolenza e gratitudine. Possiamo allora sorridere delle nostre più detestabili abitudini, delle nostre emozioni più superficiali, siamo allora come un bambino disteso nell'erba che guarda la forma delle nuvole che si modificano col vento... anche se appare un drago o un mostro, il bambino non si spaventa ma può divertirsi ad osservarlo.

registrazione e trascrizione a cura di Monica Tainin De Marchi

© Tora Kan Dōjō

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domenica 5 marzo 2023

Si incede come la tigre

Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento offerto da Taigô Kônin Sensei durante la Pratica Zen.

Qualche giorno fa ho sentito una definizione che si attaglia molto bene allo Zazen. 
I termini, in inglese, rendono perfettamente l'idea: intense and relaxed. 
L'azione dello Zazen deve essere 'intense' and 'relaxed', ‘intensa e rilassata’. 
Chi usava questi termini diceva: "intense no tense"; intenso non significa teso, contratto, in tensione. Intenso significa profondo, denso, totalmente implicato, l’equivalente di 'Shikantaza'. 
Ed il termine Relaxed significa rilassato. 
"Relaxed but no lax" ovvero: rilassato ma non abbandonato, lasso. Capire bene cosa vuol dire intensità e rilassamento è la base fondamentale dello Zazen. 
Spesso si interpreta 'tensione' come contrattura e rilassamento come abbandono, dimenticanza, lassità. Sono i due estremi da evitare in Zazen: kontin e sanran, eccitazione e torpore. 
Bisogna, in ogni nostra azione ed in ogni gesto essere intensi e rilassati e non solo in Zazen, ripristinando costantemente l’equilibrio ogni volta che percepiamo che stiamo cadendo da un lato o dall’altro. 
Come per andare in bicicletta, diceva Sawaki Roshi, bisogna costantemente pedalare per mantenere l’equilibrio (gyouji: pratica continua, sforzo costante). 
Provate ad ispirare le vostre azioni a quest’immagine: una tigre che si muove nella foresta: intensa e rilassata. Non c'è nessun movimento della tigre che non sia intenso. 
Un detto indiano dice, "una tigre cattura anche un topo con tutta la sua forza", spesso male interpretato come il non sapere utilizzare la propria energia, sprecare la propria energia, impiegare troppa energia per uno scopo ridotto, ma non è così. 
Il suo significato è mettere tutta la propria intensità anche nel più piccolo gesto. 
Quando facciamo Gasshô, è un gesto intenso... quando solleviamo un bastoncino d'incenso, per quanto leggero e delicato, il nostro gesto è intenso... come se dovessimo sollevare qualcosa di molto pesante. 
Il mio primo Maestro diceva: 
"Nel Dôjô ci si muove con gravità” ecco il senso della gravità monastica. 
Gravità... usava questo termine per definire questa intensità che chiaramente non va intesa come pesantezza... ma intensità del gesto e dello spirito, intensità di uno sguardo. 
A volte una parola ci da la chiave per comprendere un'azione. 
Siate intensi ma rilassati...

© Tora Kan Dōjō

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