sabato 31 ottobre 2020

L'eredità di Nishijima Roshi - (ITA / ENG)

Le otto modalità con cui Gudo Wafu Nishijima avrà aiutato il cambiamento nel Buddhismo Zen.  (Memoriale di Nishijima Roshi del 2014 di Jundo Kohen)

Il mio insegnante, GUDO WAFU NISHIJIMA ROSHI, è morto questo mese, all'età di 94 anni. In un certo senso, era un uomo d’altri tempi misurato nel parlare, gentile e moderato, nato quasi un secolo fa nell'era Taisho in Giappone. Nei fatti fu un acuto visionario del futuro del Buddhismo, un grande critico della condizione dello Zen nel Giappone moderno e un autentico riformatore (anche se largamente ignorato dall'establishment Zen). I suoi studenti non sono tutti fatti della sua stessa stoffa. Eppure credo che la sua eredità continuerà attraverso molti di noi nei seguenti otto modi e più.

Spero di approfondire ciascuno di questi punti in una serie di saggi nelle prossime settimane. Non voglio dire che queste siano tutte idee originali di Nishijima. Ci sono molte altre persone oggi che condividono tali punti di vista a molti livelli. Tuttavia, ciò che era unico in Nishijima Roshi era come sistematicamente ed energicamente ambiva ad una nuova visione del Buddhismo zen. La Talità trascende il tempo, il luogo e il cambiamento, e la Verità Buddhista non dipende dagli involucri esteriori. Tuttavia, le tradizioni e le pratiche buddiste devono trasformarsi costantemente quando incontrano nuovi tempi, luoghi e culture. Credo che questi otto cambiamenti che Nishijima indica avranno effetti duraturi sul futuro dello Zen in Occidente; e Treeleaf Sangha, di cui io sono un insegnante, è dedicato e impegnato nella loro promozione.

 1 - SUPERARE LE TRADIZIONALI QUATTRO CATEGORIE DI CLERICI E LAICI, MASCHIO E FEMMINA. 

A differenza della maggior parte del clero buddista in Asia, i preti giapponesi di solito si sposano e non sono celibi. Alcuni considerano questo come un grande fallimento del Buddhismo giapponese, una rottura con 25 secoli di tradizione. In Giappone e in Occidente, anche alcuni sacerdoti di lignaggio giapponese e gli stessi insegnanti laici non sono sicuri della propria identità e legittimità, e dei loro ruoli l'uno rispetto all'altro. Con grande saggezza, Nishijima ha trasceso tutte queste domande e categorie limitanti. Ha sostenuto un modo per superare e risolvere l'intera questione, vedendo espressioni viventi dove gli altri vedevano solo restrizioni, e per preservare la tradizione anche nel mutamento delle condizioni. Sebbene fosse un campione della via celibe (Nishijima Roshi, sebbene sposato, si dedicò a uno stile di vita celibe per se stesso al momento dell'ordinazione), non ha mai pensato che il celibato fosse l'unica strada per tutti i sacerdoti. Nishijima ha sostenuto una forma di ordinazione che va completamente oltre e abbandona le divisioni tra "Sacerdote o Laico, Maschio o Femmina", ma ci permette di incarnare e attuare pienamente ciascuna di queste categorie a seconda della situazione. Nel nostro lignaggio, non ci vergogniamo né cerchiamo di nascondere la nostra sessualità e le relazioni mondane, né ci sentiamo in conflitto nell’essere "monaci" con figli e mutui da pagare. Quando sono un genitore per i miei figli, lo sono al 100% e sono completamente lì per loro. Quando sono un lavoratore nel mio lavoro, sono quello e incarno questo ruolo con sincerità e dedizione. E quando mi viene chiesto di entrare nel ruolo di offrire lo Zazen, offrire un discorso di Dharma, praticare e incarnare la nostra storia e i nostri insegnamenti e trasmetterli ad altri, svolgo e incarno pienamente il ruolo di "Sacerdote" in quel momento. Qualunque cosa richieda il momento: mantenere una comunità Sangha, conferire i precetti, lavorare con gli altri per aiutare gli esseri senzienti. I nomi con cui chiamiamo noi stessi non contano. Nel modo di Nishijima, non chiediamo e non ci preoccupiamo se siamo "Sacerdoti" o "Laici", perché non siamo mai quello solo, ma sempre completamente entrambi; esclusivamente ciascuno nella forma più pura e non adulterata, ma completamente tutto in una volta. È proprio come, in Occidente, siamo giunti a superare le dure divisioni e discriminazioni tra "maschio" e "femmina", riconoscendo che ognuno di noi può incarnare ogni sorta di qualità a vari livelli secondo le circostanze presenti, e che i tradizionali stereotipi “maschili” e “femminili” non sono così netti come si credeva una volta. Così è con la contrapposizione di "Sacerdote" e "Laico".

2 - TROVARE IL NOSTRO LUOGO DI PRATICA E FORMAZIONE “FUORI NEL MONDO”.

Per migliaia di anni, è stato quasi impossibile impegnarsi nella pratica zen se non in un ambiente monastico, per essere in contatto con altri praticanti, insegnanti e insegnamenti, per avere il tempo e le risorse economiche per perseguire una pratica seria, abbandonando la propria vita mondana. Per necessità economiche e pratiche, è stata mantenuta una divisione di "Sacerdote" e "Laico" perché qualcuno doveva coltivare il cibo da mettere nelle ciotole dei monaci, guadagnare la ricchezza per costruire grandi templi, avere figli per trasmettere il mondo alle prossime generazioni. Sebbene figure Mahayana come Vimalakirti incarnassero il principio che la liberazione è disponibile per tutti, la situazione pratica era che solo un capofamiglia con la ricchezza, il tempo libero e le risorse di Vimalakirti poteva avere una reale possibilità di realizzarlo. Ora, nelle società moderne grazie ad una migliore distribuzione della ricchezza (rispetto al passato, anche se abbiamo ancora molta strada da fare), il tempo libero, l'alfabetizzazione e l'istruzione, l'accesso ai media, i mezzi di locomozione e di comunicazione a distanza, molti degli ostacoli alla pratica e alla formazione sono stati eliminati. Questa è l'epoca in cui possiamo iniziare a "abbattere le mura del monastero" in senso figurato, per scoprire che le verità di Buddha possono essere praticate in qualsiasi luogo, senza l’edificazione di muri "interni" o "esterni". Per alcuni di noi, la cucina di famiglia, l'asilo nido, l'ufficio o la fabbrica dove lavoriamo assiduamente e duramente, il letto d'ospedale, l'attività di volontariato o il municipio sono tutti il nostro "monastero" e il luogo di formazione. Possiamo arrivare a riconoscere il “monastero” situato in edifici in legno e piastrelle come un mezzo, un espediente, anche se con una sua forza e bellezza. Ci sono ancora momenti in cui ognuno di noi può beneficiare di periodi di ritiro e silenzio, che si tratti di un Sesshin o di un Ango, o della proverbiale capanna d'erba in colline lontane. Sì, questa Via ha ancora bisogno di ogni sorta di persone, ciascuna che persegua i percorsi di pratica adatti ai propri bisogni e alle circostanze, siano essi sacerdoti del tempio che soddisfano le esigenze dei loro parrocchiani, eremiti isolati nelle caverne, monaci celibi nei monasteri di montagna o "fuori nel mondo” che dimostrano che tutto può essere trovato proprio nelle strade della città e nelle autostrade trafficate di questo mondo moderno. Nishijima, un prete Zen ma anche un lavoratore, marito e padre per la maggior parte della sua vita, si è distinto per l'eliminazione del concetto di “dentro” e “fuori”. Era qualcuno che conosceva il valore dei tempi di ritiro, ma anche la costante realizzazione di questi insegnamenti in casa, sul posto di lavoro e nelle mense.

3 - SALVARE LA PRATICA ZEN DALLA "CULTURA FUNERARIA" DOMINANTE IN GIAPPONE E LA "CHIESA" ISTITUZIONALE CHE STA SORGENDO IN OCCIDENTE.

I sacerdoti buddhisti in Giappone svolgono un ruolo importante nel calmare i cuori dei loro parrocchiani durante i periodi di lutto. I funerali e le cerimonie commemorative sono aspetti importanti della tradizione giapponese, come nelle altre culture. Tuttavia, lo Zen giapponese e altri tipi di Buddhismo si sono concentrati eccessivamente sulla "cultura funeraria", quasi escludendo tutto il resto. Fatta eccezione per le luci scintillanti sparse qua e là che cercano di mantenere viva la Via di Dogen e lo Zazen, la maggior parte dei sacerdoti Zen Soto giapponesi non si preoccupano più nemmeno dello Zazen dopo il periodo di formazione giovanile nel monastero. Le massicce istituzioni buddiste del Giappone, comprese le scuole Rinzai e Soto, sono diventate imprese autorizzate che producono sacerdoti su nastri trasportatori (di solito i figli del tempio sono costretti all'addestramento per rilevare il franchise di "affari funebri" del tempio gestito dalla loro famiglia). Nishijima fu ordinato e ricevette la Trasmissione del Dharma da Rempo Niwa Zenji, l'allora abate di Eihei-ji, il monastero Soto Zen più antico. Niwa era allora il "Papa" de facto della setta Soto eppure pur sapendo che Nishijima era un critico dell'intero sistema, lo ha comunque autorizzato ad insegnare sulla base del desiderio condiviso dai due di voler riformare lo Zen Soto. In questo momento, in America e in Europa, c'è una tendenza tra alcune grandi istituzioni Zen a crescere anche in grandi "chiese" Zen, istituzioni che si occupano di preservare le proprie opinioni sull' "Ortodossia" dottrinale, di preservare il loro status, l'autorità dei loro sacerdoti , i loro diritti di determinare la legittimità delle Ordinazioni, stabilendo da sole sistemi interni di appartenenza a corporazioni. Molti gruppi Zen in America e in Europa spesso sembrano essere troppo preoccupati di preservare il loro territorio, le donazioni e l'influenza all'interno del mondo Zen, agendo a volte "più giapponesi dei giapponesi", pieni di conformismo, politica e un atteggiamento da "club dei vecchi amici" verso lo sradicamento delle poche mele marce dei trasgressori etici. Alcuni altri gruppi Zen sono stati decisamente "cultisti" nel loro comportamento (non dovremmo aver paura parlare pane al pane su questo tema). Naturalmente, il mantenimento degli standard di base per la formazione e l'etica dei sacerdoti è necessario e va applaudito. Il nostro Treeleaf Sangha sostiene pienamente tali sforzi. La domanda, tuttavia, è dove tracciare il confine tra gli standard necessari e la formazione utile, rispetto alla protezione di alcuni gruppi dal proprio primato, esclusività, autorità e severo dogma.

4 - OFFRIRE UNA CASA AI PRATICANTI  ZEN CHE SONO RIFUGIATI IN FUGA DALL’ ISTITUZIONALISMO, DALLA POLITICA DELLA SETTA E DALLO SCANDALO IN CERTE PARTI DEL MONDO ZEN.

Nishijima ha fornito un rifugio a molti vibranti insegnanti Zen che erano esclusi o isolati all'interno di altri gruppi Zen in Europa, America e Giappone . Le circostanze erano diverse: persone che fuggivano dalla politica interna e dalla faziosità nel Sangha dove avevano praticato per la prima volta; quelli bloccati da soffitti di vetro e corporazioni chiuse in Giappone e altrove; Giapponesi disinteressati ad unirsi alla "cultura funeraria"; quelli che fuggivano da comportamenti cultuali e insegnanti non etici; Clero cristiano interessato a praticare lo Zen come cristiani; 
dotati preti e insegnanti Zen interessati a combinare la pratica Zen con la casa, il lavoro e la vita "nel mondo" senza desiderio o ambizione di formazione monastica; e persone alienate dalle interpretazioni dottrinali e dai dogmi che incontravano in altri gruppi. Mi riferisco spesso a questo gruppo, molto vario per carattere e personalità, come "L'isola dei giocattoli Zen disadattati" (con riferimento a un vecchio programma per bambini negli Stati Uniti visto ogni anno a Natale, su un'isola dove andavano tutti i giocattoli rotti e disadattati vivere nella bottega di Babbo Natale fino a quando non trovavano una casa). Nishijima ha fornito una casa a queste persone, ognuna molto devota a questo percorso Zen nel suo modo sincero. Il nostro Sangha Treeleaf e gli altri studenti di Nishijima continueranno a servire come porto sicuro per altri "giocattoli disadattati" in futuro.

5 - RISPETTO PER LA TRADIZIONE, E RICERCA DI NUOVE ESPRESSIONI ADATTE AI TEMPI MODERNI E ALLA CULTURA OCCIDENTALE.

Nishijima era completamente impregnato dello spirito di Dogen, è stato (con il suo allievo Chodo Cross) il traduttore dello Shobogenzo di Dogen in giapponese moderno e inglese, sostenendo che il maestro Dogen aveva trovato il modo di esprimere gli insegnamenti Buddhisti raramente ascoltati fino a quel momento. Tuttavia, nonostante la sua profonda fiducia negli insegnamenti di Dogen, Nishijima non fu mai prigioniero di Dogen. Tra i tanti preziosi insegnamenti di Dogen che sono senza tempo e sopravvivono ai secoli, Nishijima sapeva che gli altri erano principalmente le opinioni e le espressioni di un uomo che viveva nella società e nelle superstizioni del Giappone del XII secolo. Quelli degli scritti di Dogen diretti principalmente alla sua banda di monaci a Eiheiji e altrove devono essere affiancati alle altre dichiarazioni di Dogen che riconoscono la possibilità della pratica Zen per le persone in tutte le situazioni della vita. Gli insegnamenti di Dogen non sono solo per i monaci isolati sulle montagne innevate, ma per tutti noi. Le sue parole, se fossero appropriate solo alla sua epoca e alla sua cultura, dovrebbero essere lasciate ai suoi giorni e alla sua cultura. Il Buddhismo e gli insegnamenti di Dogen possono essere portati alla luce e adattati ai nostri luoghi e ai nostri tempi. Non è così anche per gli insegnamenti di tanti dei nostri antenati Zen oltre Dogen? Ricordo, ad esempio, che una volta chiesi a Nishijima il "modo giusto" per condurre un "funerale Soto Zen" per un buon amico che era morto in America. Nishijima mi ha detto che alla fine avrei dovuto fare un nuovo rituale sincero per onorare il mio amico. Ha detto ai suoi studenti in America, Europa e altrove di fare le cose in modo sincero e adatto alle nostre culture e società, ispirati forse dalla tradizione, ma trovando nuovi modi per esprimere lo stesso .

6 - INTERPRETAZIONE DELLO ZAZEN COME REALIZZAZIONE DELLA REALTÀ STESSA.

Un aspetto chiave degli insegnamenti di Dogen che Nishijima ha abbracciato completamente, e tutti i suoi studenti con lui, è che Zazen è il compimento della Realtà stessa. Su questo, non c'è più bisogno di dire altro qui.


7 - ALLA RICERCA DI UN TERRENO COMUNE E DELLA COMPATIBILITÀ DEGLI INSEGNAMENTI BUDDISTI, ZEN E ZAZEN CON LA FILOSOFIA E LA SCIENZA OCCIDENTALI.

Come DT Suzuki, Masao Abe e altre figure Zen giapponesi del suo tempo, Nishijima pensava che gli insegnamenti Zen potessero essere meglio presentati a un pubblico occidentale tramite la ricerca di un terreno comune con la filosofia occidentale. Anni prima che fosse comune sottoporre i meditanti alle macchine per la risonanza magnetica, Nishijima parlò dei legami dello Zazen col cervello e il sistema nervoso umano, influenzato dall'allora ricerca all'avanguardia sulla meditazione e dalla cosiddetta "risposta di rilassamento" del professor Herbert Benson di Harvard e altri. Tuttavia, vorrei dire onestamente che Nishijima non era un filosofo professionista né uno scienziato preparato. Ha cercato di esprimere dal profondo del proprio cuore tutto ciò che ha conosciuto nello Zazen. Per questo motivo, ha parlato spesso in modo molto personale e forse troppo semplificato sia su concetti filosofici occidentali e, come un laico scientifico, su ciò che accade nel corpo e nel cervello. È solo negli ultimi anni che siamo arrivati a capire che molti sistemi fisiologici e neurologici separati sono in realtà interconnessi in modi complessi, ognuno dei quali viene entra in ballo con lo Zazen e la meditazione. Tuttavia, Nishijima rappresenta l'incontro e la compatibilità fondamentale dei principi buddisti con il metodo scientifico.

8 - EVITARE SUPERSTIZIONE, FANTASIE, MIRACOLI E INCANTESIMI MAGICI NEL BUDDISMO.

La "fede sacra e amata" di una persona possono essere "l'abracadabra e le sciocchezze" di un'altra persona. A volte pratiche e leggende apparentemente esotiche possono possedere un potere psicologico e una poesia che apre il cuore dell'uomo, anche se non sono “letteralmente vere”. Pur riconoscendo questo fatto, Nishijima Roshi ha cercato di presentare la pratica Zen libera da credenze e ingenue superstizioni, pretese esagerate e miti idealizzati mascherati da eventi storici anche nelle nostre tradizioni Zen, che possono seppellire e nascondere la vera forza della nostra pratica Buddista in un mucchio di ignoranza e stoltezza. Io e molti dei suoi altri studenti ci uniamo a lui in questo proposito.

In questi otto modi, e in molti altri, Gudo Wafu Nishijima ha cambiato il Buddismo Zen e continua a farlo. La sua eredità vive nei suoi numerosi studenti sparsi in tutto il mondo e i suoi insegnamenti arricchiranno e trasformeranno ancora la nostra tradizione nel futuro.




English Version 

Obituary of Nishijima from 2014 by Jundo Kohen

Eight Ways GUDO WAFU NISHIJIMA Will Help Change ZEN BUDDHISM

My Teacher, GUDO WAFU NISHIJIMA ROSHI, died this month, age 94. In manner, he was a soft spoken, gentle, conservative man of his times, born nearly a century ago in Taisho era Japan. In action, he was a perceptive visionary of the future of Buddhism, a great critic of the state of Zen in modern Japan and an outspoken Buddhist reformer (even if largely ignored by the Zen establishment). His students are not all cut of the same cloth, not by any means. Yet I believe his legacy will carry on through many of us in the following eight ways and more.

In a series of essays in the coming weeks, I hope to expand on each of these points. I will not assert that all are original ideas to Nishijima alone. There are many other folks these days who share such views to varying degrees. Nonetheless, what was unique about Nishijima Roshi was how thoroughly and energetically he called for a new vision of Zen Buddhism. Suchness transcends time, place and change, while Buddhist Truth is not dependent on outer wrappings. Yet, Buddhist traditions and practices must constantly change as they encounter new times, places and cultures. I believe that these eight changes which Nishijima symbolizes will have lasting effects on the future of Zen in the West; and Treeleaf Sangha, where I am one teacher, is dedicated and committed to their furtherance.


1 – STEPPING THROUGH THE TRADITIONAL FOURFOLD CATEGORIES OF PRIEST & LAY, MALE & FEMALE: Unlike most Buddhist clergy in Asia, Japanese priests typically marry and are not celibate. Some look at this as a great failing of Japanese Buddhism, a break from 25 centuries of tradition. In Japan and the West, even some Japanese lineage priests and lay teachers themselves are unsure of their own identity and legitimacy, and of their roles compared to each other. With great wisdom, Nishijima transcended all such questions and limiting categories. He advocated a way of stepping right through and beyond the whole matter, of finding living expressions where others saw restriction, and of preserving the tradition even as things change. While he was a champion of the celibate way (Nishijima Roshi, although married, turned to a celibate lifestyle for himself upon ordination), he never felt that celibacy was the only road for all priests. Nishijima advocated a form of ordination that fully steps beyond and drops away divisions of “Priest or Lay, Male or Female”, yet allows us to fully embody and actuate each and all as the situation requires. In our lineage, we are not ashamed of nor try to hide our sexuality and worldly relationships, nor do we feel conflicted that we are “monks” with kids and mortgages. When I am a parent to my children, I am 100% that and fully there for them. When I am a worker at my job, I am that and embody such a role with sincerity and dedication. And when I am asked to step into the role of hosting zazen, offering a dharma talk, practicing and embodying our history and teachings and passing them on to others, I fully carry out and embody 100% the role of “Priest” in that moment. Whatever the moment requires: maintaining a sangha community, bestowing the Precepts, working with others to help sentient beings. The names we call ourselves do not matter. In Nishijima’s way, we do not ask and are unconcerned with whether we are “Priest” or “Lay”, for we are neither that alone, while always thoroughly both; exclusively each in purest and unadulterated form, yet wholly all at once. It is just as, in the West, we have come to step beyond the hard divisions and discriminations between “male” and “female”, recognizing that each of us may embody all manner of qualities to varying degrees as the circumstances present, and that traditional “male” and “female” stereotypes are not so clear-cut as once held. So it is with the divisions of “Priest” and “Lay”.

2 – FINDING OUR PLACE OF PRACTICE AND TRAINING “OUT IN THE WORLD”: For thousands of years, it was nearly impossible to engage in dedicated Zen practice except in a monastic setting, to access fellow practitioners, teachers and teachings, to have the time and resources and economic means to pursue serious practice, except by abandoning one’s worldly life. By economic and practical necessity, a division of “Priest” and “Lay” was maintained because someone had to grow the food to place in the monks’ bowls, earn the wealth to build great temples, have children to keep the world going into the next generation. Although Mahayana figures like Vimalakirti stood for the principle that liberation is available to all, the practical situation was that only a householder with Vimalakirti’s wealth, leisure and resources might have a real chance to do so. Now, in modern societies with better distributions of wealth (compared to the past, although we still have a long way to go), ‘leisure’ time, literacy and education, media access and means of travel and communication across distances, many of the economic and practical barriers to practice and training have been removed. This is the age when we may begin to figuratively “knock down monastery walls”, to find that Buddha’s Truths may be practiced any place, without divisions of “inside” walls or “outside”. For some of us, the family kitchen, children’s nursery, office or factory where we work diligently and hard, the hospital bed, volunteer activity or town hall are all our “monastery” and place of training. We can come to recognize the “monastery” located in buildings made of wood and tile as in some ways an expedient means, although with their own power and beauty too. There are still times when each of us can benefit from periods of withdrawal and silence, be it a sesshin or ango, or the proverbial grass hut in distant hills. Yes, this Way still needs all manner of people, each pursuing the paths of practice suited to their needs and circumstances, be they temple priests catering to the needs of their parishioners, hermits isolated in caves, celibate monks in mountain monasteries, or “out in the world” types demonstrating that all can be found right in the city streets and busy highways of this modern world. Nishijima, a zen priest yet a working man, a husband and father most of his life, stood for a dropping of “inside” and “out”. He was someone that knew the value of times of retreat, but also the constant realization of these teachings in the home, workplace and soup kitchens.

3 – SAVING ZEN PRACTICE FROM THE ‘FUNERAL CULTURE’ DOMINANT IN JAPAN & THE CREEPING INSTITUTIONAL “CHURCHNESS” APPEARING IN THE WEST: Buddhist priests in Japan play an important role in soothing the hearts of their parishioners during times of mourning. Funerals and memorial services are important aspects of Japanese tradition, as in all cultures. However, Japanese Zen, and other flavors of Buddhism, have become excessively focused on “funeral culture”, almost to the exclusion of all else. Except for shining lights scattered here and there who try to keep the ways of Dogen and Zazen alive, most Japanese Soto Zen priests do not even bother with the sitting of Zazen after their youthful training stint in the monastery. The massive Buddhist institutions of Japan, including the Rinzai and Soto schools, have become licensing guilds turning out conveyor belt priests (usually temple sons compelled into training in order to take over the “funeral business” franchise of their family’s managed temple). Nishijima was ordained and received Dharma Transmission from Rempo Niwa Zenji, the then Abbot of Eihei-ji, the senior Soto Zen monastery. Niwa was then the de facto “Pope” of the Soto Sect yet, knowing that Nishijima was a critic of the whole system he headed, Niwa nonetheless empowered Nishijima as a teacher based on Niwa’s own shared desire to help reform Soto Zen. Right now, in America and Europe, there is a tendency among some big Zen institutions to also grow into large zen “churches”, institutions concerned with preserving their own views of doctrinal “Orthodoxy”, with preserving their status, the authority of their priests, their rights to determine the legitimacy of Ordinations, all by themselves establishing domestic systems of guild membership. Many zen groups in America and Europe often seem to have become too concerned with preserving their turf, donations and influence within the Zen world, acting sometimes “more Japanese than the Japanese”, filled with cliquishness, politics and an “old boys club” attitude toward rooting out the few bad apples of ethical violators. Some other Zen groups have been downright “cultish” in their behavior (we should not be afraid to call a spade a spade on this issue). Of course, the maintenance of basic standards for priest training and ethics are very necessary and to be applauded. Our Treeleaf Sangha fully supports such efforts. The question, however, is where to draw the line between needed standards and helpful training, versus certain groups’ protecting their own primacy, exclusivity, authority and narrow dogma.

4 – OFFERING A HOME TO ZEN FOLKS WHO ARE REFUGEES FROM INSTITUTIONALISM, SECT POLITICS AND SCANDAL IN CERTAIN PARTS OF THE ZEN WORLD: Nishijima provided a haven for many vibrant Zen teachers who were excluded or isolated within other Zen groups in Europe, America and Japan. The situations took many forms: people fleeing the internal politics and factionalism in the Sangha where they first practiced; those blocked by glass ceilings and closed guilds in Japan and elsewhere; Japanese uninterested in joining “funeral culture”; those fleeing cultish behavior and unethical teachers; Christian clergy interested in practicing Zen as Christians; gifted Zen priests and teachers interested in combining Zen practice with home, work and “in the world” life without desire or ambition for monastic training; and people alienated by the doctrinal interpretations and dogma they were encountering in other groups. I often refer to this bunch, very diverse in character and personality, as the “Island of Misfit Zen Toys” (referring to an old children’s program in the US seen each year at Christmas, about an island where all the broken and misfit toys went to live from Santa’s workshop until they found a home). Nishijima provided a home to such folks, each very devoted to this Zen path in his or her own sincere way. Our Treeleaf Sangha, and Nishijima’s other students, will continue to serve as a haven for other “misfit toys” in the future.

5 – A RESPECT FOR TRADITION, YET AN EMPHASIS ON FINDING BRAND NEW EXPRESSIONS SUITABLE FOR MODERN TIMES AND WESTERN CULTURE: Nishijima was thoroughly imbued with the spirit of Dogen, was (with his student Chodo Cross) the translator of Dogen’s complete Shobogenzo into modern Japanese and English, and held that Master Dogen had found ways to express the Buddhist teachings rarely heard until that time. Nonetheless, despite his profound trust in the teachings of Dogen, Nishijima was never a prisoner of Dogen. Among the many treasured teachings of Dogen which are timeless and survive the centuries, Nishijima knew that others were primarily the views and expressions of a man living amid the society and superstitions of 12th century Japan. Those of Dogen’s writings directed primarily to his band of monks at Eiheiji and elsewhere must be placed side by side with Dogen’s other pronouncements recognizing the possibilities of Zen practice for people in all situations in life. The teachings of Dogen are not simply for monks isolated in the snowy mountains, but are for all of us. His words, if appropriate only to his day and culture, should be left to his day and culture. Buddhism, and Dogen’s teachings, can be brought forth and adapted for our places and times. Is this not so for the teachings of so many of our Zen ancestors beyond Dogen as well? I remember, for example, asking Nishijima once about the “right way” to conduct a “Soto Zen funeral” for a good friend who had died in America. Nishijima told me that ultimately I should make a new, heartfelt ritual to honor my friend. He told his students in America, Europe and elsewhere to do things in sincere ways suitable for our cultures and societies, inspired by tradition, perhaps, yet finding new ways to express the same.

6 – AN INTERPRETATION OF ZAZEN AS THE FULFILMENT OF REALITY ITSELF: One key aspect of Dogen’s teachings that Nishijima fully danced, and all his students dance with him, is that Zazen is the fulfillment of Reality itself. On that, nothing more is in need of saying here.

7 – LOOKING FOR COMMON GROUND AND THE COMPATIBILITY OF BUDDHIST TEACHINGS, ZEN AND ZAZEN WITH WESTERN PHILOSOPHY AND SCIENCE: Like D.T. Suzuki, Masao Abe and other Japanese Zen figures of his time, Nishijima thought that Zen teachings could best be introduced to a Western audience via finding common ground with Western philosophy. Years before it was common to load meditators into MRI machines, Nishijima spoke of the connection of Zazen to the brain and human nervous system, influenced by the then cutting-edge research on meditation and the so-called “relaxation response” by Harvard’s Dr Herbert Benson and others. However, I wish to say honestly that Nishijima was not a professional philosopher nor a trained scientist. He tried to express from his own heart all encountered in Zazen. For that reason, he frequently spoke in very personal and, perhaps, too simplified ways on both Western philosophical concepts and, as a scientific layman, about all that is happening in the body and brain. It is only in recent years that we have come to understand that many separate physiological and neurological systems are interlinked in complex ways, each coming to play in Zazen and meditation. Nevertheless, Nishijima stood for the meeting and fundamental compatibility of Buddhist tenets and scientific method.

8 – AVOIDING SUPERSTITION, FANTASY, MIRACLES & MAGICAL INCANTATION IN BUDDHISM: One person’s “sacred and cherished belief” is another person’s “hocus-pocus and nonsense”. Sometimes seemingly exotic practices and legends can possess a psychological power and poetry which opens the human heart, even if not “literally true”. While recognizing that fact, Nishijima Roshi sought to present Zen practice freed of naive beliefs and superstitions, exaggerated claims and idealized myths masquerading as historical events even in our own Zen traditions, all of which can bury and hide the very real power of our Buddhist way in a pile of ignorance and foolishness. I, and many of his other students, join him in that task.

In such eight ways, and many others, Gudo Wafu Nishijima changed Zen Buddhism and continues to do so. His legacy lives on in his many students around the world and his teachings will further enrich and transform our tradition into the future.



© Tora Kan Dōjō


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martedì 27 ottobre 2020

Cos'è lo Zen (versione Italiana e originale Francese)


Dove non c'è creatività
Dove non c'è libertà
Dove non c'è respiro perennemente nuovo
Dove non c'è perdono
Dove non c'è gioia
Non esiste una parola benevola

Dove non c'è leggerezza
Dove non c'è semplicità
Dove non c'è spontaneità
Dove non c'è amore per la natura
Dove non c'è amore per qualsiasi forma di differenza
Dove non c'è amore per la bellezza
Dove non proviamo a dimenticare i difetti degli altri
Dove non cerchiamo di evidenziare i talenti e la bellezza degli altri
Dove l'ordinario non è una festa
Dove non sappiamo pregare con coloro la cui fede differisce dalla nostra
Dove non sappiamo ascoltare
Dove non sappiamo come dimenticare gli errori
Dove non c'è sobrietà
Dove non c'è precisione
Dove ci permettiamo di umiliare, calunniare, perseguitare, deridere, discriminare, vietare, giudicare, escludere e condannare
Dove non tutto è fatto per aiutare questo mondo
Dove facciamo troppe prediche
Dove ci crediamo e ci diciamo meglio e più veri degli altri
Dove non siamo nemmeno in grado di guardare un demone con amore e offrirgli aiuto
Dove non facciamo di tutto per nascondere i difetti degli altri
Dove non proteggiamo i più deboli e i più esclusi
Dove la parola è retorica volgare e arrogante
Dove non siamo in grado di lasciare tutto per dedicarci davvero ai mondi e agli esseri ...
Dove non sappiamo come raggiungere chi ci colpisce
Dove non sappiamo come raccogliere chi cade
Dove incitiamo alla calunnia/pettegolezzo
Dove non gioiamo del bene e del successo degli altri
Dove la gioia di stare insieme non è così forte nella felicità come nella prova
Dove non ci sforziamo di abbellire il cuore dell'altro e il cuore del mondo
Dove non proviamo a cucire i brandelli delle nostre vite sparse sul ricamo delle nostre migliori qualità per renderlo il vera Kesa, quello delle nostre debolezze cucite dall'Amore

Lì ... lì non c'è né Buddhismo, né Dharma, e meno che mai lo Zen.
Non c'è né spiritualità né vera religione.
Non c'è umanità.

Federico Dainin Jōkō Sensei



Versione originale:

Là où il n’y a pas de créativité
Là où il n’y a pas de liberté
Là où il n’y a pas de souffle perpétuellement neuf
Là où il n’y a pas de pardon
Là où il n’y a pas de joie
Là il n’y a pas de parole bienveillante
Là où il n’y a pas de légèreté
Là où il n’y a pas de simplicité
Là où il n’y a pas de spontanéité
Là où il n’y a pas d’amour de la nature
Là où il n’y a pas d’amour de toute forme de différence
Là où il n’y a pas d’amour de la beauté
Là où on ne s’évertue pas à oublier les fautes d’autrui
Là où on ne s’évertue pas à mettre en lumière les talents et la beauté d’autrui
Là où l’ordinaire n’est pas une fête
Là où on ne sait pas prier avec ceux dont la foi diffère de la nôtre
Là où on ne sait pas se mettre à l’écoute
Là où on ne sait pas oublier les erreurs
Là où il n’y a pas de sobriété
Là où il n’y a pas de précision
Là où on se permets d’humilier, calomnier, persécuter, moquer, discriminer, bannir, juger, exclure et condamner
Là où tout n’est pas fait pour aider ce monde
Là où on se fait trop donneurs de leçons
Là où on se croit et on se dit meilleurs et plus vrais qu’autrui
Là où on n’est pas capable de regarder même un démon avec amour et lui proposer de l’aide
Là où on ne fait pas tout pour taire les fautes d’autrui
Là où on ne protège pas les plus faibles et les plus exclus
Là où la parole est vulgaire et la réthorique arrogante
Là où on n’est pas capable de tout quitter pour se consacrer pour de vrai aux monde et aux êtres ...
Là où on ne sait pas tendre la main à celui qui nous frappe
Là où on ne sait pas relever celui qui tombe
Là où on incite à médire
Là où on ne se réjouit pas du bien et du succès d’autrui
Là où la joie d’être ensemble n’est pas aussi forte dans le bonheur que dans l’épreuve
Là où on ne s’évertue pas à embellir le cœur de l’autre et le cœur du monde
Là où on ne s’évertue pas à coudre les lambeaux de nos vies éparses au fil des broderies de nos plus belles qualités pour en faire le Kesa véritable celui de nos fragilités cousues par l’Amour

Là......là ce n’est ni le bouddhisme, ni le dharma, et encore moins le Zen.
Là n’est ni spiritualité ni religion véritable.
Là n’est pas d’humanité



Federico Dainin Jōkō Sensei




© Tora Kan Dōjō















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sabato 24 ottobre 2020

L'Arte del Combattere per essere in pace




Condividiamo un ricordo del Maestro Cesare Barioli scritto da Taigō Sensei

Un pensiero oggi è andato al Maestro Cesare Barioli che ho avuto il piacere e l'onore di conoscere e di poter frequentare in situazioni privilegiate che sono riuscito a creare proprio per averlo tutto per me...
Sapendo che era stato il Maestro di Judo del mio Maestro (Zen) e vedendo con quale sentimento di rispetto e considerazione lo trattasse quando si incontravano non ho potuto resistere alla tentazione di conoscerlo meglio e di cercare di imparare anch'io qualcosa da lui.
Era un gigante in un mondo di pigmei.
Un uomo scomodissimo, che si mise contro tutti (mi sono riconosciuto nella mia esperienza di outsider...) per insegnare un Judo che rispettasse i principi morali ed educativi dettati dal fondatore, Jigoro Kano Sensei, e che erano stati traditi dalla ricerca del risultato agonistico (cosa accaduta anche nel Karate).
Un uomo con una cultura straordinaria.
Un lottatore che cercava sempre la presa per sbilanciarti anche quando ti parlava del più e del meno.
Ho dovuto attingere a tutta la mia esperienza di Karateka e di insegnante Zen per non soccombere ai suoi attacchi.
Abbiamo anche discusso vigorosamente e al termine del confronto mi è sempre rimasto in mano un dono che di nascosto mi ha passato.
Una delle ultime volte che ci siamo sentiti telefonicamente è stato un paio d'anni prima che morisse.
Lo avevo chiamato per condividere con lui una mia intuizione sui principi dettati dal fondatore del Judo:
Jita kyoei - seiryoku zen'yo
'Cercare il miglior impiego dell'energia'
'Per crescere e progredire insieme (perchè il beneficio sia mutuo e reciproco) '
Parlammo di principi di Karma Yoga e del Mahabharata.
Mi confermò la mia intuizione (che rimarrà un segreto tra noi ma che ispira ogni mia azione) e mi salutò dicendo di essere vecchio e stanco.
Di lì a poco si è fermato un momento per riposare.

Grazie Maestro






“Ma vogliamo capire che solo chi sa combattere può non combattere e chi non sa combattere può solo farsela addosso? O si pensa che il Mahatma non sapesse combattere? che «l'apostolo della non-violenza» non fosse violento? (informatevi di certi suicidi in margine alla sua epopea). Le masse irresponsabili sono invitate a «non uccidere», perché il potere abbia vita facile. Ma nella realtà bisogna saper uccidere per essere in grado di non uccidere più. Sì, nel judo io (con questo pronome sottolineo che vorrei assumermi la responsabilità dell'affermazione, scagionando gli altri insegnanti e soprattutto quegli ipocriti di sportivi) insegno a combattere e simbolicamente a uccidere; ma intanto insegno anche un principio morale. Poi una certa notte e a lume di candela, insegno anche «l'arte di dare la vita» (non mi dilungo perché l'argomento non necessita di promozione). Così i praticanti si laureano nella disciplina avendo la capacità di uccidere o di dare la vita, ma avendo esperienza di un principio morale e vanno nella vita a fare, essendo responsabili di se stessi. Mi auguro che non capiti loro mai di uccidere.”

Cesare Barioli



© Tora Kan Dōjō


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mercoledì 21 ottobre 2020

Respirare - Respire di Federico Dainin Jôkô Sensei (versione Italiana e Francese)

Anche quando siamo abituati a rimanere seduti in meditazione, è importante ricordarci in cosa concretamente consista questa postura, come va adottata e di quello che rappresenta come pratica spirituale.
Zazen non è una pratica posturale.
Le pratiche spirituali sono molto importanti, ad esempio lo Yoga è una scienza esatta e una medicina a tutti gli effetti.
Lo Zazen, invece, non si limita ad una pratica esclusivamente posturale.
Allora come ci sediamo?
Questo è molto importante perché ci sono riflessi che, nel tempo, dimentichiamo. Una cosa molto importante, ad esempio, è salutare lo spazio in cui ci sediamo.
Salutiamo il cuscino e in seguito ci giriamo di 180 gradi e salutiamo coloro che sono di fronte al nostro cuscino. È un gesto rituale che ci fa salutare il luogo in cui ci troviamo senza dimenticare che in un altro posto vicino così come lontano, visibile e invisibile, altri luoghi diversi dal nostro meritano la nostra attenzione e il nostro rispetto. Non c'è nulla di santo nel cuscino di Zazen, quindi non ci prostriamo a qualcosa di misterioso che potrebbe abitare nel cuscino.
Ciò che invece c’è di santo (e sano) è salutare il luogo in cui ci troviamo e, quindi, prendere coscienza che ci siamo. Perché noi peregriniamo per tutta la nostra vita, attraversiamo lo spazio e il tempo, senza sapere, per la maggior parte delle volte, dove siamo. Quindi, questo gesto di salutare il nostra cuscino dovrebbe, col tempo, educarci ad essere consapevoli di ciò che andremo a fare, del luogo in cui ci troviamo e dove posiamo la nostra presenza.
E salutiamo il cuscino e questo luogo per quello che è, senza sperare in un altro, ma così com’è.
Che il cuscino sia pulito o pieno di polvere, ben centrato sulla stuoia o un po’ di traverso, ci ricorda che è un po’ come la nostra vita, magari perfetta in una giornata briosa, oppure in una giornata grigia, in un momento di felicità o infelicità, di dolore o di gioia, salutiamo questa vita che è lì in quel momento, così com’è.

E poi ci voltiamo di 180 gradi ed è una cosa molto importante perché salutiamo il reparto opposto, salutiamo il resto e in questo gesto di girarci intorno è come se noi decidessimo, dopo aver preso coscienza della nostra presenza, di prendere coscienza di tutte le altre presenze del mondo e non possiamo prendere coscienza delle altre presenze del mondo, se non iniziamo dal prendere coscienza della nostra stessa presenza.

Quindi salutiamo la nostra presenza, il luogo in cui ci troviamo, la circostanza, e poi ci voltiamo e salutiamo la presenza del mondo intero. E questa presenza la salutiamo così come salutiamo il nostro cuscino. Lo salutiamo per quello che è, con la stessa intensità, la stessa profondità, con la stessa fede, lo stesso coinvolgimento del corpo e dello spirito.

Salutiamo “ciò che è”, così come, allo stesso modo, salutiamo le altre presenze che conosciamo o meno, che amiamo o no, che ci piacciano o no, che riconosciamo in loro il dolore, la sofferenza o la gioia. Le salutiamo e le portiamo nel campo della nostra presenza così come sono.

Vedete, è un gesto molto semplice che facciamo all'inizio di ogni Zazen e che ripetiamo ogni volta che ci sediamo o ci alziamo.

Tutto questo (salutare il cuscino, quindi voltarsi e salutare tutte le persone sedute e tutte quelle presenti nel mondo) rappresenta molto più di un semplice gesto rituale che rende “pulito” il nostro Dojo.
Direi persino che in questo piccolo gesto che apre ogni Zazen, esprimiamo la fede nello Zazen, perché salutando ogni volta che ci sediamo e che ci alziamo, riconosciamo che non è più lo stesso cuscino e non c’è più la presenza di poco prima. Gli altri, tutt’intorno a noi, non sono più gli stessi e tutto ricomincia da capo.
Più salutiamo questo cuscino e la presenza degli altri e più coltiviamo l’entusiasmo.
Entusiasmo che sta e vive nel sapere che quello che salutiamo ci da’ anche la possibilità di vedere tutto in modo nuovo. E’ un atto di fede.

Se è vero che nel Buddismo Zen non c’è una credenza particolare e un Dio, c’è comunque una nozione di fede. Una fede nell’eterno cambiamento delle cose, nell’eterno stato di novità delle cose, a condizione d’essere presenti e coscienti in quel preciso momento.
Ed è così che apriamo lo Zazen con un piccolo gesto che si ripeterà per tutta la durata del rituale Zazen e questo è quanto può insegnarci: salutare la nostra presenza e la presenza del mondo intero e accogliendole per quello che sono.
E’ molto importante; magari vorremmo tutti sederci stasera e fare un bel Zazen, ma forse un dispiacere ci annoda il cuore, oppure la giornata è confusa e non riusciamo a concentrarci e forse arriveremo addirittura a credere che non servirà a niente. A volte, alcune persone (incluso me stesso) sono arrivate durante lo Zazen a detestare sé stesse.
E poi…c’è questo gesto che apre, che invita ad avere fiducia in tutto ciò che accadrà.
Saluto questo cuscino che è così solo in questo momento, in questo luogo, in questa situazione, in questa condizione e che può davvero condurmi ad essere quello che io sono. Non ce ne sono altri.
Salutare con pienezza questo momento porta a fidarsi di tutto ciò che può accadere durante la meditazione: confusione o beatitudine, come quei momenti dove siete state perfettamente soddisfatti.

Possiamo essere nella nostra vita come dei piccoli rituali che aprono e chiudono lo Zazen e vivere pienamente la nostra vita attraverso una grande fede: la fede che tutto andrà bene, e anche quando tutto sembra non andare, tutto va bene così com’è. Perché anche in questi “non va” le cose sono esattamente così come dovrebbero esistere in quel momento. Quindi apriamo e chiudiamo ogni Zazen con una professione di fede. È silenziosa, non esiste alcun credo, impegna semplicemente il corpo e la mente ad essere perfettamente lì, a tuffarsi in quella realtà.
Quindi ci voltiamo, per dare fiducia agli altri, venerare la loro propria fede, aiutandoli con la nostra fiducia presente e serena. Qualunque cosa avvenga, siamo lì.

Poi, la prima cosa che facciamo dopo questo rituale è sederci. Avviciniamo le nostre gambe, se possiamo, in mezzo Loto o in Loto completo e se non possiamo le mettiamo nella posizione del sarto, ma non c’è nessuna differenza perché il senso di questa postura inizia con l’abbandonarsi alla terra, semplicemente abbandonando tutto. Come se, in quel momento della nostra esistenza, ci fosse il bisogno di posare il corpo e lasciarlo sedere. E, in questo corpo seduto in contatto con la terra, noi iniziamo prendere coscienza che il mondo in cui viviamo ci trasporta e ci permette di essere vivi, semplicemente.

Questo posto in cui passiamo e ci sediamo con fiducia era lì già molto prima che noi arrivassimo e ci sarà per molto tempo ancora dopo di noi. C'è qualcosa di miracoloso nel rendersi conto che siamo in contatto con la terra, perché questo contatto con la terra lo abbiamo ogni giorno, ma non ne siamo mai davvero consapevoli.
Quanti passi della nostra giornata sono stati passi coscienti?
Qui ci sediamo e realizziamo il miracolo profondo d’essere qui, su questa terra, poiché il vero miracolo non è quello di camminare sull’acqua, ma è quello di poter camminare in questa terra.
Noi siamo esseri viventi su questa terra, semplicemente e solamente in questo luogo. Se riusciamo a renderci conto delle cose in questo modo durante tutto il percorso della nostra vita, questa vita non è che una continua scoperta miracolosa, perché non ci è dovuto l’essere presenti in questa terra, non è per forza un nostro diritto. E’, prima di tutto, un dono, una possibilità, un’opportunità, una fortuna. Ed ecco qua che, sedendo, può sorgere una domanda molto importante, che è: che pellegrinaggio ho compiuto sulla terra, che sia mio? Cosa faccio della mia presenza su questa terra?

Qui ricominciamo. Ci sediamo con la parte bassa del corpo, prendiamo coscienza del contatto con la terra, ci riconnettiamo con la realtà di questo mondo e cosa facciamo? Come quando entriamo in contatto con eventi nuovi, ci ergiamo per meglio vedere quello che succede... ebbene facciamo la stessa cosa in Zazen. Ci raddrizziamo e questo modo di essere eretti che stiamo cercando, non è rigidezza, ma è semplice ricerca della nostra postura naturale, che ci permette di stare bene, di rispettare il corpo, la colonna vertebrale, che ci consente di aprire il diaframma, la gabbia toracica, per respirare bene e per essere sereni. Cercheremo una postura dritta che non sarà mai rigida, a partire da questo treppiede della parte bassa del corpo. Non c’è bisogno di sforzarsi per essere dritti. Non c’è bisogno di pensarci durante la meditazione. Questa corretta postura eretta è importante se è naturale perché permette all’addome di posarsi, di offrirsi ampio, aperto, e in egual modo, la gabbia toracica.
Questo significa che possiamo davvero respirare con il ventre e riempire il corpo d’aria. Bisogna percepire davvero che questo si stia riempiendo, come se inspirando spingeste, attraverso gli addominali, lo stomaco in avanti. Poi, espirando, il respiro è ancora molto attivo e lasciamo che l’aria se ne vada naturalmente (tramite il naso) e spingiamo l’espirazione fino dal punto più basso dell’addome, svuotando il corpo fino al punto più basso dell’addome. E’ un’attività molto forte.
Nella espirazione ritiriamo il ventre come se la colonna vertebrale lo risucchiasse e, insieme a lui, l’ombelico. Espirazione dopo espirazione andiamo sempre più profondamente, e sempre più intensamente, verso il vuoto; quel vuoto di cui siamo capaci.

E’ su questo vuoto che andrò a soffermarmi oggi.

Alla fine dell’espirazione, il raggiungimento di questo vuoto dispiega automaticamente una grande serenità, perché alla fine di questo vuoto c’è il nostro volto originale. Il cuore di questo vuoto è molto fisico, non è concettuale e al centro di questo vuoto accade una sorta di cancellazione. Non rimane più niente. Dopo venti minuti di Zazen, se siamo veramente concentrati sul respiro, arriviamo a completare una respirazione completa in un minuto. Un minuto che comprende un’ispirazione e un’espirazione. Quindi è tutta la nostra vita, tutta l’attività stessa della nostra vita, che rallenta e che scende in profondità, sempre più in profondità. Nel più profondo del profondo, come una pietra che cade nell’oceano... fino a quando non ci sarà più niente, se non profondo senso di vacua serenità.

Non è un concetto, è ciò che sperimentiamo nel respiro. Ad un certo punto del tuo respiro, arriverai a toccare qualcosa che è “nulla” e anche l’idea stessa del nulla non esiste più, è una sorta di “esso”.
Ci vorrebbero diverse vite per respirare correttamente.
Ma se davvero praticassi questo respiro di Zazen: salutare, porre la presenza, sentire la terra, elevare la verticalità, espirare fino al vuoto; potresti vedere come tutta la nostra vita è irrigata con calma.

Perché questo tipo di grande profondità in noi è sempre stato calmo e pacifico. L'unica differenza tra l'ordinario e la meditazione è che in meditazione iniziamo davvero a frequentare questa pace e più la frequentiamo, più questa si sviluppa. È come un'amicizia. Si tratta di ritornare in amicizia con la nostra vita con la nostra più profonda serenità, la nostra pace intrinseca. Lei c’è da sempre. Ci basta solo di incontrarla e frequentarla.

Quello che voglio dirti è che ogni gesto della nostra pratica formale è importante. E che il cuore di questa pratica è riuscire a distribuire correttamente il respiro. Il buon respiro di Zazen è naturale ed estremamente profondo. In realtà, non abbiamo bisogno di nient'altro. Tutto ciò che conta è in questo respiro. L'inspirazione non è comandata, ma naturale, a seconda della gabbia toracica, e l’espirazione è controllata, profonda e attiva.

Il resto lo approfondiremo la prossima volta, riguardo la posizione di occhi, mani, spalle, orecchie, naso, ma è importante parlare delle basi della meditazione.

Quindi, con ogni ispirazione, riporremo l’attenzione su tutto ciò che attraversa la tua vita. Tutto. I suoni del cortile, i suoni del nostro cuore, la musica, il vicino che si muove, i rumori interni, i pensieri, le immagini ecc ... Osserviamo. E mentre espiri, affiderai al respiro tutto ciò che hai osservato e che ti osserva e lo lanceremo nel vuoto. Non lo rifiutiamo, lo rilasciamo nel vuoto e lo liberiamo. Così, respiro dopo respiro, impariamo a liberare tutte le cose, tutti gli esseri, tutto ciò che abita dentro di noi.

Questo è il cuore di Zazen, pratica di liberazione e libertà, che passa per il respiro. Ci vorrebbero già diecimila anni per padroneggiare il respiro, se fossimo bravi allievi, altrimenti trentamila anni; quindi riprova.
Non hai bisogno del maestro per questo, devi solo meditare davvero con il respiro costantemente e seriamente. Sedetevi in Zazen, come se fosse l’ultimo Zazen della vostra vita; l’ultima occasione che vi è donata di respirare a pieni polmoni. Vedrete che praticando come abbiamo appena spiegato e analizzato, l’ispirazione prenderà il gusto delle cose, comprese quelle che fanno male, così come se dovreste annusare un fiore, ma non tutti i fiori profumano. Ogni ispirazione come se annusassimo un fiore e ogni fiore ha il suo particolare odore: potente, delicato, acido..
Così nella espirazione profonda e attiva, per arrivare alla profondità del vuoto, lasciate che questi fiori diventino i fiori del vuoto.

Sediamoci e per i prossimi diecimila anni impareremo di nuovo come respirare. Così potremo sperimentare nel profondo che mentre respiriamo siamo vivi e che moriremo mentre respiriamo. La prima cosa che facciamo quando veniamo al mondo è un’ispirazione molto violenta e forte. I polmoni si aprono in un colpo solo ed è impressionante al punto da farci piangere. L’ultima cosa che facciamo prima di andarcene, di lasciare questa vita, è un’espirazione.
Il respiro è il fulcro della nostra vita. Perché tra questo primo e l'ultimo momento, la nostra vita sarà solo una serie di ispirazioni ed espirazioni.

Spetta a noi garantire che questo ritmo vivente sia consapevole, che ci insegni, che ci approfondisca e che ci apra. Non c'è nulla di esoterico, è molto tangibile e tutta la nostra storia è una storia di respiro. C’è qualcosa di profondamente reale, biologicamente esplicabile e, allo stesso tempo, molto misterioso.

Se avete accompagnato una persona in fin di vita, fino al suo ultimo respiro, inevitabilmente siete stati accanto a lui o lei, in questo ultimo momento avrete sentito che non cede una semplice espirazione, ma è qualcosa di molto più profondo. Così come un neonato che ispira la prima volta, non respira solo aria, ma vita (n.d.r.). E’ intuitivo e sappiamo che è qualcosa di più grande di una semplice attività meccanica.

Lo Zazen è solo questo. E’ coltivare l’attività dell’essere vivi. Potremmo porre fine a tutte le cerimonie, tutti i canti, tutte le pratiche formali, tutti gli insegnamenti dei maestri in Kesa rosso, lasciare cadere tutto e la sola cosa che resterebbe di questa pratica di Zazen, è coltivare il respiro che viene, che ci rende coscienti, che va e che ci libera. Solo questo.
Questa è l’attività di coloro che sono svegli e vivi ed è già un grande lavoro. Tanti auguri per i prossimi diecimila anni.

So che quando sono davvero consapevole del mio respiro, quando mi capita, mentre medito, di essere davvero consapevole di ciò che osservo, come se fossi davvero un tutt’uno con ciò che mi attraversa, e consapevole di avere questo potere di lasciare andare tutto nel respiro, e quando entro, quando lo provo tutto questo, ne sono incredibilmente scosso. E’ qualcosa che mi nutre per settimane. Questa consapevolezza che la vita è in me, mi rende sensibile, mi rende disponibile a tutto e allo stesso tempo mi libera da tutto. È meraviglioso, miracoloso.
E’ questo il risveglio. Questa vita che mi abita, che da’ il ritmo alla mia esistenza, che sia stato buono o cattivo. Quindi facciamo insieme l’esperienza di questa vita che va e viene in noi…(Zazen).

Federico Dainin Jôkô Sensei
(traduzione a cura di Laiza Pucci)



Versione originale


RESPIRE 


Il est important de se souvenir, même si nous somme habitués à nous asseoir en méditation, de se souvenir de ce qu'est concrètement cette posture, à quoi elle sert, comment elle se déploie, et de ce qu'elle est en tant que pratique spirituelle.
Zazen, ce n'est pas une pratique posturale. Les pratiques posturales sont très importantes, le yoga est une science exacte, voire même une médecine à part entière.
Mais Zazen ne se limite pas à une pratique posturale.Alors, comment on s'assied ? C'est très important, car il y a des réflexes qu'on oublie avec le temps.  Une chose très importante, par exemple, est de saluer la place à la quelle nous nous asseyons. Nous saluons le coussin, et ensuite, nous nous retournons à 180 degrés, et nous saluons ceux qui se trouvent à l'opposé de notre coussin. C'est un geste rituel qui fait que nous saluons le lieu dans lequel nous sommes sans oublier que dans un ailleurs proche aussi bien que lointain, visible et invisibles, d'autres places que la notre méritent notre attention et notre respect. Il n'y a rien de saint dans le coussin de Zazen, donc on ne se prosterne pas devant une sorte de chose mystérieuse qui habiterait le coussin. En revanche, ce qu'il y a de saint (et de sain), c'est de saluer le lieu où nous sommes, de prendre conscience, que nous sommes à cet endroit. Parce que nous pérégrinons notre vie durant,  nous allons et nous venons, nous traversons l'espace et le temps, sans savoir la plus grande partie du temps où nous sommes. Et bien, ce geste de saluer notre coussin, devrait avec le temps nous éduquer à prendre conscience de ce que nous allons faire, du lieu dans lequel nous sommes en train de poser notre présence. Et on salue ce coussin et ce lieu tel qu'il est. Non pas en l'espérant autre, mais tel qu'il est.
Que le coussin soit propre, ou plein de poussière, bien centré sur la natte, ou un peu de travers, un peu comme notre vie, qu'elle soit parfaitement dans une journée éveillée, ou une journée sombre, dans un moment de bonheur ou de malheur, d'épreuve ou de joie, on salue cette vie qui est là, telle qu'elle elle là. 

Et puis, on se retourne à 180 degrés, et c'est une chose très importante, on salue les rangées opposées, on salue le reste, et dans ce geste de se retourner, c'est comme si nous décidions, après avoir pris conscience de notre présence, de prendre conscience  de toutes les autres présences du monde. Et on ne peut pas prendre conscience des autres présences du monde, si on ne commence pas par prendre conscience de notre propre présence.
Alors on salue notre présence, le lieu où nous nous trouvons, la circonstance, et puis nous nous retournons et nous saluons la présence du monde entier. Et cette présence là, on la salue comme on a salué notre coussin. On la salue telle quelle, avec la même intensité, la même profondeur, avec la même foi, le même engagement du corps et de l'esprit.

On salue "tel quel", ces autres présences, que nous connaissons ou pas, que nous aimons ou pas, plus ou moins, qu'elles nous plaisent ou pas, que nous ressentions dans ces autres présences de la douleur, de la souffrance, ou de la joie. Nous les saluons, nous les prenons dans le champs de notre présence telles qu'elles sont.

Vous voyez, c'est un geste tout simple qu'on fait au début de chaque Zazen et qu'on répète à chaque fois qu'on s'assied ou qu'on se relève. Saluer notre coussin puis se retourner et saluer toutes les assises du monde, toutes les présences, est bien plus qu'un simple geste rituel qui fait "propre" dans le dojo. Je dirais même que dans ce petit geste qui ouvre chaque Zazen, nous exprimons la foi de Zazen, car en saluant à chaque fois qu'on s'assied et que l'on se relève, nous exprimons qu'il n'y a plus le même coussin, qu'il n'y a plus la même présence. Ces autres, tout autour de moi, ne sont plus les mêmes, et tout à recommencé. Et plus nous saluons ce coussin et la présence des autres, plus nous cultivons l'enthousiasme, cet enthousiasme de savoir que quoi que nous sommes en train de saluer, il y a la possibilité que tout soit toujours nouveau. C'est un acte de foi.

S'il est vrai que dans le bouddhisme zen, il n'y a pas une foi particulière en un dieu, il y a quand-même une notion de foi. Une foi dans l'éternel changement des choses, dans l'éternel  état de nouveauté des choses, à condition que nous y soyons conscients et présents.
Voilà donc que nous ouvrons Zazen avec un petit geste, et tout au long de notre Zazen, du rituel, voilà ce qu'il peut nous apprendre.
Saluer notre présence, et la présence du monde ; accueillir notre présence telle quelle. C'est très important ; on voudrait tous s'asseoir là, ce soir, et faire un beau Zazen. Mais peut-être qu'il y a un chagrin qui nous broie le cœur, ou bien c'est une journée de confusion, et on arrive pas à se concentrer, et même à finir par croire que ça ne sert à rien. Parfois, certaines personnes (dont je fais partie) sont arrivées en Zazen à se détester elles-mêmes. Et puis....., il y a ce geste, qui ouvre, qui invite à faire confiance à tout ce qui va se passer. Saluer ce coussin car il n' y a à cet instant qu'en ce lieu et qu'en cette situation, dans cette condition, que je peux être vraiment ce que je suis. Il n'y en a pas d'autre. Saluer pleinement cet instant amène à faire confiance à tout ce qui peut advenir en méditation : confusion, ou béatitude, comme ces moments où vous étiez parfaitement apaisés.

Nous pouvons être dans la vie comme dans ce petit rituel, qui ouvre et ferme notre Zazen, et vivre vraiment notre vie avec grande foi, la foi  que tout va bien, que même quand ça ne va pas, tout va bien. Parce que, même dans ce "ça ne va pas", les choses sont là telles qu'elles doivent être à ce moment là. Aussi on ouvre et on ferme chaque Zazen avec une profession de foi. Elle est silencieuse, il n'y a pas de credo, elle engage juste le corps, et l'esprit, à être parfaitement là. À plonger dans la réalité 'tel quel', puis en se retournant, à faire confiance aux autres, à vénérer leur propre foi, à les aider de notre confiance présente et sereine, quoi qu'il advienne, tout va bien pour eux. Quoi qu'il advienne nous sommes là.

Puis, la première chose que l'on fait après ce rituel, c'est s'assoir. Et on rassemble nos jambes, si on peut, en demi lotus, ou en lotus complet si on est vaillant, et si on ne peut pas, en tailleur, mais il n'y a aucune différence, car le sens de cette posture commence par simplement nous abandonner à la terre, simplement relâcher tout. Comme si, en pèlerins de l'existence, à un moment donné, nous ayons besoin de déposer le corps, l'asseoir. Et dans ce corps assis, en contact avec la terre, nous commençons par prendre conscience, que le monde dans lequel nous vivons, nous porte et nous permet d'être vivant, tout simplement.

Cet endroit où nous nous asseyons était là bien avant nous, et sera là bien après nous, ce lieu dans lequel nous passons et nous nous asseyons avec confiance. Il y a quelque chose de miraculeux que de se rendre compte, que nous sommes en contact avec la terre. Parce que ce contact avec la terre, nous l'avons tous les jours, mais nous n'en sommes pas conscients, vraiment pas conscients. Combien des pas de notre journée ont été des pas conscients ? Là, on s'assied, et on prend conscience du miracle absolu que nous sommes ici, sur cette terre. Pace que le miracle véritable n'est pas de marcher sur les eaux, le miracle véritable est que nous marchons sur cette terre.

Nous sommes vivants sur cette terre. Simplement, seulement, sur cette terre. A cet endroit. Si nous nous rendons compte des choses de cette manière là tout au long de notre vie, cette vie n'est qu'une sorte de découverte miraculeuse, car il ne nous est pas spécialement dû d'être sur cette terre ; ce n'est pas spécialement un droit. C'est avant tout un don, une possibilité, une opportunité, une chance. Et voici, qu'en asseyant le bas du corps, peut naître une question très importante, qui est : qu'est-ce que je fais de ce pèlerinage sur la terre, qui est le mien ? Qu'est-ce que je fais de ma présence sur cette terre ?

Ici, on recommence. On assoit le bas du corps, on prend conscience du contact avec la terre, on se re-connecte avec la réalité de ce monde, et que fait-on ? Comme lorsqu'on entre en contact avec des choses nouvelles, on se redresse pour mieux voir ce qui se passe, et bien, on fait la même chose en Zazen. On se relève. Et cette droiture que nous allons chercher, n'est pas de la raideur, c'est simplement rechercher notre droiture naturelle, qui nous permet d'être bien, de respecter le corps, la colonne vertébrale, qui nous permet d'ouvrir le diaphragme, la cage thoracique, pour bien respirer, pour être serein. On va chercher une droiture qui n'est jamais raide, à partir de ce trépied du bas du corps. Pas besoin de faire l'effort d'être droit. Plus besoin d'y penser pendant la méditation.  Cette droiture est importante si elle est naturelle, car elle permet à l'abdomen de se poser, d'être offert, large, ouvert, et la cage thoracique également. Ce qui veut dire que nous pouvons vraiment respirer avec le ventre,  remplir le corps d'air. Il faut que vous sentiez vraiment que ça se remplit, comme si en aspirant, vous poussiez, avec vos abdominaux,  le ventre vers l'avant. Et puis, en expirant, le souffle toujours très actif, on laisse l'air naturellement s'en aller (par le nez), et on pousse l'expiration, on la pousse, jusqu'au plus bas de l'abdomen, en vidant le corps au plus bas de l'abdomen. C'est vraiment une activité forte. Dans l'inspiration, on retire le ventre, comme si la colonne vertébrale aspirait, happait le nombril. Et expiration, après expiration, on va de plus en plus profondément, de plus en plus intensément, au plus vide du vide dont nous sommes capables. C'est sur ça que je vais m'arrêter aujourd'hui, sur ce vide.

Au bout de l'expire, atteindre ce vide déploie automatiquement une grande sérénité, parce que au bout de ce vide, il y a notre visage originel. Au cœur même de ce vide, c'est très physique, ce n'est pas conceptuel, au cœur de ce vide, il y a comme une sorte d'effacement de tout. Il n'y a plus rien. Au bout de vingt minutes de Zazen, si l'on est vraiment concentré sur le souffle, nous arrivons à une respiration complète sur une minute.  Une minute égale un inspire et un expire. C'est toute notre vie, l'activité même de notre vie, qui ralentit. Et qui descend profond, profond, bas....au plus profond du profond comme une pierre qui tombe dans l'océan... Jusqu'à qu'il n'y ait plus rien. Heureuse vacuité.

Ce n'est pas un concept, c'est ce que nous expérimentons dans le souffle. À un moment, dans votre expire, vous allez toucher quelque chose qui est "rien". Et même l'idée du rien elle-même n'existe plus. Une sorte de "ça". Il nous faudrait plusieurs vies pour respirer correctement. Et si vous pratiquiez vraiment ce souffle de Zazen : saluer, poser la présence, Sentir la terre, relever la verticalité, expirer jusqu'à la vacuité, vous pourriez voir comment notre vie toute entière est irriguée de calme.

Parce que, cette sorte de grande profondeur en nous, est calme et apaisée depuis toujours. La seule différence entre l'ordinaire et la méditation, c'est qu'en méditation nous commençons vraiment à fréquenter cette paix. Et plus nous la fréquentons, plus elle se développe. C'est comme l'amitié. Il est question de revenir en amitié avec notre vie avec notre sérénité la plus profonde, notre paix intrinsèque. Elle est là depuis toujours. Il nous faut juste aller la rencontrer  et la fréquenter.

Ce que je veux vous dire, c'est que chaque geste de notre pratique formelle a une importance. Et que le cœur de cette pratique est d'arriver à déployer correctement notre souffle. Le bon souffle en Zazen, est à la fois naturel et extrêmement profond. En réalité, nous n'avons besoin de rien d'autre. Tout ce qui compte est dans ce souffle. L'inspire est non-maîtrisé, naturel, en fonction de votre cage thoracique, et l'expire est maîtrisé, profond, actif. 

Le reste, nous nous y attarderons une prochaine fois, notamment sur la position des yeux, des mains, des épaules, les oreilles, le nez.
Mais c'est une très bonne chose de revenir aux fondamentaux de la méditation.

Puis à chaque inspiration, vous allez être attentif à tout ce qui traverse votre vie. Tout. Les bruits de la cour, la musique, le voisin qui bouge, les bruits intérieurs, les pensées, les images etc....On observe. Et en expirant, vous allez confier au souffle tout ce que vous avez observé, et on le lance dans le vide. On ne le rejette pas, on le jette dans le vide, on le libère. Et souffle après souffle, nous apprenons à libérer toutes les choses, tous les êtres, tout ce qui nous habite.

Voilà le cœur de Zazen, pratique de libération, et de liberté, qui passe par le souffle. Déjà, il nous faudrait dix mille ans pour maîtriser, si nous sommes bons élèves, sinon, c'est trente mille ans pour maîtriser notre souffle; donc essayez encore. Vous n'avez pas besoin du maître pour ça, il vous suffit de vraiment vous recueillir avec votre souffle pour de bon, sérieusement. Mettez-vous en Zazen, comme si c'était le dernier Zazen de votre vie. La dernière occasion qu'il vous est donné de respirer pleinement. Et vous verrez que si vous le faites comme nous venons de le déployer, de le décortiquer, là, à l'inspire prendre le goût des choses, y compris celles qui vous font mal, comme si vous deviez sentir une fleur, et toutes les fleurs ne sentent pas bon, chaque inspire comme si nous humions une fleur. Chaque fleur à sa particularité. Puissante, délicate, acide, ...
Et dans l'expire profond, actif, au plus vide du vide, laissez ses fleurs devenir les fleurs du vide.

Asseyons nous et, pendant les dix mille prochaines années, nous allons réapprendre à respirer. Et vraiment faire l'expérience, que nous vivons comme nous respirons. Ce qui veut dire aussi que nous allons mourir comme nous allons respiré.
La première chose que nous faisons en venant au monde, c'est un inspire très violent, très puissant. Les poumons se déploient d'un seul coup. C'est impressionnant au point qu'on en pleure. Puis, la dernière chose que nous faisons en nous en allant, en quittant cette matrice, c'est expirer. Le souffle est vraiment l'affaire de notre vie. Parce qu'entre ce premier et dernier instant, notre vie ne sera qu'une suite d'inspirations et d'expirations.
C'est à nous de faire en sorte que ce rythme vivant soit conscient, qu'il nous enseigne, qu'il nous approfondisse, et qu'il nous ouvre. Il n'y a rien là d'ésotérique, c'est très factuel, toute notre histoire est une histoire de souffle. Il y a quelque chose à la fois de très réel, tangible, biologiquement explicable, et en même temps de très mystérieux.

Si vous avez accompagné une personne en fin de vie, jusqu'à son dernier souffle, forcément, si vous êtes à côté d'elle ou de lui, à cet instant de sa vie, vous avez ressenti qu'il ne rend pas qu'un souffle. C'est beaucoup plus immense que ça. Tout comme un nouveau-né qui inspire pour la première fois, il ne fait pas qu'inspirer de l'air. On le sait, c'est intuitif, on sait que c'est plus grand que cette activité mécanique.

Zazen, ce n'est que ça, c'est cultiver l'activité du vivant. On pourrait cesser toutes les cérémonies, tous les chants, toutes les pratiques formelles, tous les enseignement des maîtres en kesa rouge, tout laisser tomber, et la seule chose qui resterait de cette pratique qu'est Zazen, c'est cultiver le souffle qui va, qui nous rend conscient, et qui vient, qui nous libère. Juste ça. Ça, c'est l'activité des éveillés, rien d'autre. Et c'est déjà un grand travail. Alors, bonne chance pour les dix mille prochaines années.

Je sais, que quand je suis vraiment conscient de mon souffle, quand il m'arrive en méditant d'être vraiment conscient de ce que j'observe, comme si je faisais vraiment un avec ce qui me traverse, et conscient d'avoir ce pouvoir de libérer tout, de laisser tout s'en aller dans le souffle, quand je le pénètre, quand j'en fais l'expérience, j'en suis incroyablement bouleversé. C'est quelque chose qui me nourrit pendant des semaines. Cette conscience que la vie est en moi,  me rend sensible, me rend disponible à tout, et à la fois, elle me libère de tout. C'est merveilleux, miraculeux.
C'est ça l'éveil. Cette vie qui m'habite, rythme mon existence, que j'ai été bon ou mauvais. Alors, faisons ensemble, l'expérience de cette vie qui va et qui vient en nous.... (Zazen)














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