Pubblichiamo delle riflessioni sul dire poetico del poeta Franco Loi (Genova 1930), estratte da un incontro tenuto in un pomeriggio di una domenica d'estate nel lontano 1998 a Fudenji (Monastero Zen Sōtō fondato dal Maestro Fausto Taiten Guareschi sulle colline emiliane). Questo scritto è stato pubblicato in occasione del ventennale di Fudenji (2005) sul notiziario del Monastero.
La
parola nasce chissà da dove. So che esce la mia voce che dice, e attraverso la
mia voce io agisco.
Noi
vibriamo attraverso il suono quindi modifichiamo noi stessi, modifichiamo il
rapporto con l’altro, con la natura, con il mondo, modifichiamo l’universo
perché agiamo su di lui.
Proprio
come quando ascoltiamo il vento, lo ascoltiamo e basta: è questo ascolto che
muove dentro di noi. Il tipo di vento che ci investe produce dentro di noi
qualcosa. E così avviene nella poesia. Che cosa avviene? Non lo sappiamo finché
non l’ascoltiamo tante volte. E’ proprio come quando ascoltiamo la musica, Bach
o un musicista jazz. E soltanto quando ascoltiamo tante volte incominciamo
forse a sentire che cosa si è mosso dentro di noi. E poi cominciamo a capire qualcosa
di quello che voleva dire il musicista. Ma questo avviene proprio attraverso la
frequentazione dell’ascolto.
La
parola “sacro” viene da “sac”, distante. Colmare
la distanza è fare poesia. Io ho un moto di affetto verso qualcuno, vado verso
di lui, faccio da ponte, colmo la distanza attraverso il movimento. La parola
“pontefice” nasce da qui, è colui che fa da ponte, in quanto colma la distanza.
L’amore è il movimento del sacro, è proprio il movimento che compie, copre la
vita. Dante dice nel poema: “Io son colui che quando amor mi spira…” – cioè
quando l’amore soffia – “vo’ significando”. E do’ dei significati che sono
segni, quindi la parola è segno di qualcosa d’altro. Se dico: “Nel mezzo del
cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era
smarrita”, siete pronti a cogliere i significati apparenti. Ma se vi fate
investire dal verso, vi accorgete che non c’è spiegazione. I significati
apparenti sono stati interpretati nella storia almeno diecimila volte, a
seconda dei casi e delle epoche. “Nel mezzo del cammin di nostra vita…”,
sentiamo un’emozione e non sappiamo perché. Perché queste poche parole ci
muovono? E’ un verso enigmatico che ci avvince, è il verso in sé che ci dà
l’emozione. Questo è lo straordinario della poesia.. Ma è lo straordinario di
ogni nostro rapporto! Perché noi non sappiamo mica, quando ci siamo innamorati,
perché è successo. Amiamo e basta! Siamo amici, e non sappiamo perché, siamo
amici e basta. Un moto d’amore ci ha in quel momento resi uno e così avviene
con la poesia. Il moto , il suono, la voce di qualcuno che ha dato ai suoni
quella sequenza, quel ritmo, quella lunghezza di sillabe, per chi è detto poeta
è uno che dà voce.
E
non dà voce solo a se stesso, dà voce a me che ascolto, e al mondo che viene
espresso. Allora questo movimento non ha spiegazioni proprio allo stesso modo
in cui non hanno spiegazioni tutte le cose grandi e straordinarie della vita,
perché noi, nella vita, entriamo in rapporto.
E
sentire il rapporto che noi siamo e che noi sentiamo vivificante, ci rende
vivi. I colori diventano più forti, più limpidi, si colmano le distanze, le
lingue, e tutte le differenze che nascono dalla pretesa intellettuale dell’uomo
di sistemare il mondo.
E
allora ecco che la poesia compie un antico rito, quello di fare il sacro.
Si
presume, in origine, che il sacerdote e il poeta fossero una sola persona,
perché lui parlava in versi, perché è la parola prima, originaria dell’uomo, la
poesia. Non si tratta di catalogare le cose, è dare un nome alle cose, e do’ un nome all’essenza della cosa. La
differenza tra l’uomo-poeta e l’uomo, è che l’uomo si dimentica, non ascolta, è
che l’uomo, anche se non lo sa, vive attraverso una mediazione mentale il
rapporto, ma ogni uomo in potenza sarebbe un poeta, perché è capace di amore ed
è capace di colmare la distanza dall’altro, dalle cose, dal mondo.
A
quanti è capitato di avere improvvisamente un pensiero che ci attraversa e che
sentiamo importante? A tutti capita di sentire che è un pensiero diverso, che
ci arriva da chissà dove. Poi però questo pensiero non lo scriviamo e lo
dimentichiamo subito dopo. Il poeta lo scrive. E lo scrive ogni volta, e
scrivendo prepara la strada. Lavorando. Si lavora su di noi, si lavora sullo
strumento, che diventa capace di esprimere.
Vicino
a Belluno ho conosciuto un fabbro ferraio; mi ha fatto vedere le sue opere.
Davanti a una ho detto: “Questa è magnifica!”. Lui mia ha detto: “Certo, questa
si è fatta da sola”.
Ed
è così che si fa. Nel poeta si fa da sola la poesia. Non è lui. Lui diventa uno
strumento del fare, lo diventa naturalmente, lavorando tanto sullo strumento.
Si lavora tanto, si ascolta, si tace, si ascolta e si scrive.
Un
tempo, invece di scrivere, si diceva e si memorizzava, cioè si coltivava la
memoria. Mentre noi adesso la usiamo sempre meno, perché abbiamo anche il
registratore, per cui registriamo e non abbiamo neanche più bisogno di
scrivere. E meno esercitiamo tutto il nostro corpo nell’azione, più
atrofizziamo le nostre possibilità, che sono infinite. Molte delle poesie che
ho scritto le ho ascoltate nelle osterie, oppure nei manicomi. Una mia amica mi
ha detto: “Gho pagüra. No del dutur, ma de la porta”. Non del dottore, ma della
porta aveva paura, perché è la porta, c’è dietro una mano invisibile che sempre
la apre. E quando si è negli ospedali, nei manicomi, in prigione, l’aprirsi di
una porta è come l’aprirsi di un abisso, non si sa cosa succede. Questo non
l’ho mica pensato io, l’ha pensato questa mia amica, io l’ho scritto e dopo
l’ho messo in versi. All’osteria una volta ho sentito uno che parlava della
morte. “Un dì la mort la me cureva adrè, go dit ‘ciao ti’ e po’ me so nascost,
la me cercava e mi: sarìa de dì, bruta putana…”. Come l’ho ascoltata, l’ho
scritta. La lingua orale è lingua poetica, perché è fatta di suoni che portano
l’infinito dei contenuti. C’è la famosa faccenda del filò delle stalle, quando la gente si riuniva e si raccontava, dei
fantasmi, di quel morto che sembrava non fosse più morto, del talaltro che
aveva visto qualcosa…
Una
grande cultura popolare, ricca, che veniva trasmessa tra gli uomini e che dava
il senso, qualcosa di più di quella che era la loro funzione, di contadini, di
operai, di artigiani. Mantenere vivo l’esercizio della propria lingua orale è
una delle cose importantissime, perché vuol dire mantenere viva la propria
possibilità creativa, la capacità di dire, di trasformare se stessi e il mondo.
Quindi il dialetto è la lingua più lingua. Men che meno lo è la cosiddetta
lingua globale che sta avanzando.
Da
quando è venuto fuori il registratore vado in giro con quello, prima registravo
col quaderno e quando mi dicevano qualcosa che volevo ricordare lo scrivevo.
Uno una volta mi ha detto: “M ste fè?” E io: “Te scrivi!” “E perché?” “perché
son cùrt de memoria!” (“Che stai facendo?” “”Scrivo te” “E perché?” “Perché ho
la memoria corta!”.). Se io avessi memoria terrei a mente, come faceva nei
campi di concentramento in Germania Tonino Guerra. Mi ha raccontato che quando
gli veniva da dire una poesia, la sentiva, con la mente la costruiva, poi la
diceva a un compagno e gliela faceva imparare a memoria, in modo che se moriva
lui la teneva il compagno e così via. Una decina di prigionieri si dicevano le
poesie.
In
Dante scopriamo che c’è di tutto, proprio tutto quello che c’è in un patrimonio
linguistico popolare. Il fondamento, in ogni lingua, come dice Ferdinand De
Saussure, è la lingua popolare orale. E’ l’oralità. E’ l’italiano semmai che è
una lingua per pochi, inventata nel ‘500 perché i potenti si sono scritti e
scambiati le lettere, le informazioni, le notizie attraverso il toscano.
Se
io vado in Spagna oppure in Islanda, io leggo le poesie e la gente ascolta,
sente i suoni, è abituata a sentirli, allora ascoltano, traduzione o no, e sono
commossi. Poi c’è anche la traduzione, ma questo è secondario. In Italia se non
c’è la traduzione la gente perde una parola non capisce più, va fuori, perché è
abituata già attraverso la lingua, che è una lingua veicolare, ma è quella
dell’informazione, non è più lingua della poesia. E questo è grave, gravissimo
sul piano della comunicazione, cioè del mettere in comune.
Quindi
i dialetti sono un grande patrimonio. Se ne accorgono anche i francesi che
stanno rivalutando il bretone, l’ occitano, le loro origini linguistiche perché
capiscono che la lingua nazionale non sa fare poesia.
Se
io mi metto in ascolto, poeticamente in ascolto, se faccio silenzio con la
mente, io posso captare ciò che non vedo e non sento normalmente con le
orecchie e non vedo con gli occhi. E’ lo spirito che parla, e io posso sentire
dove non si può arrivare con l’ascolto. Ascolto e l’aria è piena di suoni.
Quando siamo un po’ eccitati la sera non prendiamo sonno perché la mente va e
non possiamo fermarla. Questa eccitazione, questo muoversi incessante bisogna
calmarlo, allora cominciamo a fare silenzio e nel silenzio si ascolta. Allora
può giungere, nell’ascolto, la voce dello spirito.
La
“diritta via” è la più semplice, ed è smarrita perché la mente costruisce
un’infinità di fantasmi e un’infinità di sentieri attraverso cui l’uomo non si
ritrova più, si perde.
La
condizione dell’uomo è la paura, che lo rende schiavo di qualcosa che lo
rassicuri, degli schemi che di mano in mano gli vengono presentati; può essere
la bandiera rossa, la bandiera nera, la bandiera bianca, una qualsiasi
ideologia, persino la famiglia, o l’identificazione con un ruolo, con una
funzione; può essere qualsiasi cosa che ponga fuori dall’uomo la sua identità.
Allora io non sono più libero, non sono più portato ad essere in ascolto, ma a
uniformarmi con quel fuori, qualunque sia. Gli ignavi sono la maggioranza, e
Dante li mette fuori dall’inferno perché non hanno neanche il diritto di
starci. Ha diritto di stare all’inferno che si assume la responsabilità della
violenza, e può anche pagarne il prezzo. Stare in ascolto di sé è esporsi nel
mondo per quello che si è. Faremmo di tutto pur di non essere ritenuti ridicoli
o imbecilli. E invece noi siamo imbecilli! E mi fa piacere che lo siamo.
Venivano chiamati gli stolti di Dio, o pazzi di Dio, i primi cristiani, perché
la mente tace e si rende atta ad essere azione di Dio.
Viene
detto a Gesù: ” Sono venuti i discepoli del Battista e domandano chi sei, cosa
fai, dove vai”.
E
lui gli risponde: ” Dite a chi vi ha mandato…(lui non sa se sono i veri discepoli
del Battista, potrebbero essere chissà chi) che avete visto i ciechi che
vedono, i sordi che sentono e che il figlio dell’uomo non ha dove posare il
capo”. Questo mi ha sempre affascinato: ” Non ha dove posare il capo”. Cioè non
c’è un punto qualsiasi in cui l’uomo possa identificarsi, fosse pure il proprio
io. Non c’è un punto di riferimento, non c’è dove posare il capo.
L’uomo
deve avere questa esposizione al mondo, ma è questa la cosa di cui l’uomo ha
paura, perché è pericolosa. Quando abbiamo dai 14 ai 17 anni, una delle età più
terribili che esista nella vita dell’uomo, l’adolescenza, vediamo gli altri e
ci pare di essere diversi, però non lo accettiamo, vogliamo essere come loro, e
ci identifichiamo con qualcosa fuori, con un amico, una persona, un modo di
essere, perché sentiamo un pericolo nella nostra diversità.
Questa
è la paura che serpeggia in mezzo agli uomini, la paura che alimenta il
conformismo, quella che serve ai poteri. Come dice Gogol: “Non occorre un
padrone per ridurci schiavi”.
Allora
quando parlo di dialetti e di lingua dico: l’oralità popolare è un patrimonio
da salvare. Perché è il patrimonio della gente che nella sua tenebra trova il
modo di colmare la distanza anche tra sé e la propria paura.