Si può dunque capire
come, in questo avanzato processo di secolarizzazione, il perfezionamento dello
spirito non sia esattamente la prima delle preoccupazione dei monaci. La
politica tende a rivestire più importanza dell’aspirazione religiosa, e l’ipocrisia
degli atteggiamenti maschera un generale abbandono delle pratiche ascetiche,
della povertà della meditazione. Tutto sommato, in un monastero dell’epoca
Muromachi (1338-1573) fa più comodo un artista o un esperto amministratore che
un santo. Del resto le più alte cariche clericali si conquistano per lignaggio
o per intrigo, previa approvazione del governo. Se per diventare priore serve l’attestato
di illuminazione, basta acquistarlo o procurarselo attraverso opportuni appoggi
politici.
Ikkyū insorge
violentemente contro questa mercificazione dello spirito. Fin dall’adolescenza
acquisisce dimestichezza con la poesia a quattro versi della tradizione cinese,
ma per piegarla, da forma eminentemente lirica, all’invettiva contro “i
venditori di zen”, i falsi maestri, i moralisti ipocriti. Appena può lascia il
prestigioso rifugio dell’ Ankokuji, palestra di lettere e arti, sicuro trampolino
a un avvenire dorato, per scegliersi un maestro povero e marginale, privo di
agganci con le sfere del potere, che non può offrirgli relazioni influenti né
con prospettive di carriera, ma solo serietà e il rigore dello zen degli
antichi. In tutta la vita non si sentirà mai davvero a proprio agio nei grandi
templi. Anche quando cercheranno di ammorbidirlo affidandogli la direzione di
un padiglione distaccato all’interno di qualche complesso monasteriale, preferirà
abbandonare, disgustato dalla corruzione e del formalismo di una liturgia senza
sostanza, per riprendere con il suo geniale stile di vita di monaco itinerante
a contatto con il popolo, o per ritirarsi in qualche eremo malandato a
meditare, comporre poesia e coltivare bambù.
monastica: mangia carne, beve vino, frequenta taverne e bordelli, in tarda età vive una storia d’intensa passione con una donna molto più giovane, di cui canta i giochi d’amore gioiosamente e senza remore, come si converrebbe per una Via di salvazione. Com’è forse ovvio, di tutte le sue trasgressioni, ad attirarsi la riprovazione dei benpensanti sono soprattutto quelle di natura sessuale. Non che i monaci all’epoca fossero estranei alla frequentazione delle case di piacere, ma quanto meno usavano l’accortezza di accedervi in segreto, mascherati dietro opportuni travestimenti, mentre in pubblico ammonivano contro il male generato dalle passioni. Ikkyū al contrario difende la propria condotta come un segno di libertà interiore, una disponibilità a riconoscere e onorare anche le pulsioni che per dovere sociale si dovrebbero reprimere, semplicemente accettando ciò che il corpo e lo spirito di volta in volta gli offrono. Il suo messaggio suona umile e profondo: non c’è niente di turpe nel desiderio sessuale, come non c’è peccato nel consumare carne o nel bere vino, perché ciascuno di questi comportamenti germoglia dal grembo innocente della natura. Semmai il male va ricercato nell’ipocrisia di una rettitudine sfacciata, o nel perseguimento di gloria mondana e vantaggi materiali. Se in tutto è un scintilla di divino, ecco che cade ogni distinzione tra puro e impuro, sacro e profano Non esistono più categorie che legittimino la definizione di condotte ‘buone’ o ‘cattive’ né ha fondamento la presunzione di chi bacchetta l’altro dal pulpito di una verità esclusiva e incontrovertibile. Ai discepoli che hanno seguito a lungo questa difficile via, prima di morire lascia detto:
Dopo che ne sarò andato, potrete ritirarvi sui monti o in un bosco a meditare, oppure mettervi a bazzicare bordello e osterie. In entrambi i casi avete la mia benedizione. Ma quelli che pretenderanno di possedere lo zen, di sapere la Via, quelli saranno i veri impostori, i nemici della Parola. Siamo ciechi che conducono per mano altri ciechi …
Queste parole rendono ragione anche dell’atteggiamento, singolarmente eguagliano per l’epoca, che Ikkyū manifesta nei confronti del prossimo. La stragrande maggioranza dei monaci di alto lignaggio di epoca Muromachi, a dispetto dei forbiti discorsi sulla compassione, conducono i loro giorni barricati nei monasteri in compagnia di pari grado, fuggendo la volgarità e l’ignoranza dei poveri diavoli che patiscono la fame appena fuori dai sacri recinti. Al contrario, Nuvola Vagante lascia volentieri il tempio per mescolarsi con il popolino, anzi, non dimostra preconcetti neppure per quelle categorie, come le prostitute o i criminali, che il generale conformismo tende a condannare senza appello. Sempre attento a rapportarsi alla verità della persona, al di là di ogni apparenza o etichetta, non sente obblighi verso i potenti né rispetto per i sedicenti dotti consacrati dalla piaggeria o dall’intrigo. Il ragazzo che, potendo aspirare ai maestri più prestigiosi, si scelse per guida un oscuro monaco in miseria, escluso dalle gerarchie dello zen istituzionale, anche da adulto continua a preferire la semplicità di chi incontra il reale senza troppe sovrastrutture dottrinali al sapere arrogante brandito per primeggiare o per annichilire l’altro.
Tratto da 'Nuvole
Vaganti: La Raccola di un Maestro Zen' Ikkyū Sōjun
a cura di Ornella
Civardi ed. Ubaldini 2012
© Tora Kan Dōjō
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