martedì 29 marzo 2011

Praticare La Vacuità




Iten Shinnyo Roshi è monaco Zen e Abate di Shinnyoji pubblichiamo un suo articolo già pubblicato nel n.14 della rivista BioGuida – Autunno 2006

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“Perché pratichi Zen?” E’ una delle prime domande che rivolge un monaco giapponese quando si trova davanti un praticante occidentale.
L’espressione del suo viso è sommessamente sorpresa e incredula se riusciamo a decifrarla oltre il sorriso di cortesia che la sua educazione gli suggerisce.
Già: “Perché un abitante del Pianeta Terra fuori dal paese del Sol Levante inizia a praticare Zen?”.

In Giappone una domanda in questi termini non verrebbe mai posta perché lo Zen segue canali molto diversi da quelli occidentali.
I Templi Zen appartengono all’Abate e alla sua famiglia.
Dunque si procede per Trasmissione di padre in figlio dove il padre è anche il Maestro del figlio.
Quando l’anziano Abate si ritira dalle sue funzioni pubbliche o decede il Tempio passa in eredità al figlio più anziano o a quello che ha scelto di proseguire la Tradizione di famiglia.
In presenza di figlie la conduzione viene affidata al genero, se è un monaco naturalmente, anche se la depositaria della Trasmissione rimane la figlia.
A fianco di questa realtà esistono monaci che di famiglia non hanno un Tempio e che prestano il loro servizio nei Templi dove vengono comandati e quello diventa il loro lavoro.
Poi ci sono Monaci che vivono nel “mondo” con la loro famiglia, lavorando fuori come qualsiasi altro cittadino e che periodicamente ritornano al Tempio per ritiri spirituali. 

C’è poi la categoria dei praticanti laici che frequentano i Templi di addestramento dove una volta la settimana sono ammessi allo Zazen e agli insegnamenti di Dharma e dove possono trascorrere periodi più o meno lunghi di Pratica.
Sono poi aperti a tutti nel Tempio alle ore 4.20 lo Zazen mattutino e la recitazione dei Sutra.
Così, per esempio, una Pratica con le nostre modalità occidentali di più sedute di Zazen settimanali e Sesshin mensili in un Dojo, aperte ai praticanti laici, non ha riscontro in Giappone.
Al di là però della cadenza e della dinamica della Pratica, suona strano ad un Giapponese l’interesse per lo Zen in Occidente per la diversità di cultura, di formazione, di etnia.
Anche lo stesso Dalai Lama, capo religioso e politico dei Buddhisti Tibetani, incoraggia gli Occidentali a seguire le loro Tradizioni religiose.
Dunque ritornando al tema: “Perché praticare Zen?” chiariamo anzitutto che il Buddhismo Zen è una Religione in quanto contempla: un fondatore, il Buddha storico Shakyamuni; un testo, il Canone Buddhista; e un ordine monastico.
Se poi vogliamo scendere più nello specifico del significato etimologico della parola che deriva dal latino “religo” – legare indietro, legare qualcuno a qualcosa – è Religione in quanto ricollega il sé individuale all’Assoluto, alla Vacuità, alla sua Vera Natura di Buddha.
Al tempo stesso come spesso avviene per le religioni orientali il Buddhismo Zen è anche una filosofia di vita. In Occidente Filosofia e Religione sono due discipline nettamente distinte, perché la Filosofia non offre una prassi, mentre la Religione indica una Pratica. Il Buddhismo in particolar modo dà gli strumenti trasformativi per la vita di tutti i giorni, dunque è sicuramente una Religione del vivere quotidiano. In virtù di questo oggi si fa un gran parlare di Zen e la parola–concetto è inflazionata e impropriamente attribuita a Saloni di bellezza, alimenti, complementi di arredo, indumenti, accessori di moda, linee cosmetiche e chi più ne ha più ne metta.
Questo perché la Filosofia sottesa alla Pratica Zen contiene il concetto accattivante di: silenzio, essenzialità, pulizia di forme, elusione del superfluo, armonia della semplicità nella sua accezione più profonda.
Così tante persone facendo un passo più avanti, spesso senza aver letto niente in proposito, spinte da un sommovimento di ricerca di equilibrio, di armonia, di ciò che è sostanziale, cercano un approccio alla Meditazione Zen.
Generalmente chi arriva al luogo di Pratica avendo un vago sentore di Zen partecipa ad una seduta e poi non ritorna. Chi ha letto qualche libro arriva carico di aspettative, di bisogni di riscontri personali, che puntualmente restano disattesi.
E’ terribilmente facile farsi una propria idea dello Zen che niente ha a che spartire con la Via indicata dal Buddha.
Come diceva un amico monaco è curioso come nessuno andrebbe mai da un Prete cristiano o da un Rabbino a chiedere: “Senta, sono molto stressato, ho bisogno di rilassarmi che dice mi farà bene venire in Chiesa?”. Innumerevoli invece sono le persone che al primo colloquio chiedono: “Ho attacchi di ansia, bisogno di relax, avrò giovamento nel fare Zazen?”. Purtroppo non è così che funziona. Al di là dei fraintendimenti divulgativi, la Pratica Zen è una disciplina dura e impegnativa, che vuol vedere l’uomo in faccia, certo non una tecnica di rilassamento.
E’ necessaria una forte dose di coraggio, di determinazione, di costanza, per procedere, e una fede, una fiducia iniziale imprescindibile, nella Via che il Buddha ci ha mostrato. La Pratica Zen si basa sull’esperienza diretta.
Si dice che di Zen non si può parlare, ma semplicemente va sperimentato giorno dopo giorno, seguendo l’esempio di Shakyamuni Buddha seduti in Zazen.
E quando ci sediamo sullo zafu -cuscino di Meditazione- ogni volta è un’opportunità d’incontro profondo con noi stessi che si apre davanti ai nostri occhi che, inclinati a quarantacinque gradi, guardano un’area del muro bianco davanti a noi.
Da qui l’ardire d’incontrarci, di vederci nel nostro divenire, di studiare le nostre sovrastrutture mentali, di imparare a riconoscere i meccanismi della nostra mente che ci incatenano nel Samsara delle illusioni e degli attaccamenti. La determinazione di contattare nel silenzio dello Zazen la nostra Natura di Buddha, il nostro Vero sé, la Vacuità oltre ogni dualismo soggetto-oggetto, scevri dalla convinzione di un sé intrinseco avulso da qualsiasi contesto e correlazione.
Per assurdo, per avvicinarsi seriamente ad una Pratica Zen, bisogna aver risolto gran parte dei nostri problemi esistenziali ed essere pronti ad un approfondimento maggiore del significato e della dinamica della nostra esistenza.
Sicuramente se abbiamo problemi di ordine depressivo, stati di stress, ansia o panico, non è opportuno al momento praticare questa Via, ma è salutare indirizzarsi preliminarmente verso discipline di rilassamento e di benessere psico-fisico.
Lo Zen è per tutti, ma non tutti sono per lo Zen.
Praticare Zen è abbandonare corpo e mente e andare oltre ogni nostra conoscenza cognitiva per riscoprire in noi la Realtà Ultima e vedere il mondo “così com’è”.
Per arrivare a questa consapevolezza, a questo grado di Realizzazione è necessario un costante impegno, quello che nello Zen viene chiamata la Pratica senza sosta: Gyoji, non nel senso di “lavori forzati”, ma di continua presenza mentale nel Qui e Ora, in ogni respiro. Ricordiamo che ogni Cammino, per quanto grande, inizia sempre dal primo passo.
Molte sono anche le persone che si avvicinano allo Zen perché la lettura di Testi o di Insegnamenti ad esso relativi hanno risvegliato un’eco nei loro cuori. Quasi un riscoprire, un ritrovare qualcosa di forse non espresso, ma sicuramente già presente dentro di loro. Quello che nel Buddhismo Zen viene definito con il termine giapponese: Butsu-en – legame nel Buddha – e che manifesta la traccia di un incontro precedente con il Dharma.
Nello Shobogenzo al capitolo 92: Yuibutsu Yobutsu – Soltanto i Buddha insieme ai Buddha – Dogen Zenji, il fondatore della scuola Soto Zen scrive:

“(…) Il Sutra del Loto afferma che “solo un Buddha può insegnare a un Buddha e solo un Buddha comprende pienamente la verità”.
(…) solo i Buddha possono comprendere pienamente la loro vera natura.

(…) soltanto i pesci possono conoscere la mente dei pesci e solo gli uccelli sanno individuare il percorso delle migrazioni.

(…) Solo i Buddha possono riconoscere i Buddha, perché solo i Buddha possiedono l’occhio-di-Buddha e senza quest’occhio la Via non si può né vedere né riconoscere. Solo i Buddha conoscono e comprendono gli insegnamenti. Dunque coloro che non riescono a capire questo, dovrebbero cercare di seguire la traccia lasciata dai Buddha.".

Ci sono altri invece che, dopo aver seguito un diverso percorso meditativo, approdano allo Zen perché lo avvertono più consono al loro sentire sia nell’espressione che negli intenti.
Comunque, indipendentemente da quale sia stata la spinta che ci ha condotto ad un incontro ravvicinato di esperienza Zen, è fondamentale continuare a domandarsi e a riconfermarsi periodicamente le motivazioni che ci portano nella Via.
Questo richiamo costante farà sì che non veniamo fuorviati da noi stessi, o da chi per noi, verso aspettative, inclinazioni o, peggio ancora, aberrazioni della Pratica, che passo dopo passo deve procedere sul Cammino dell’amorevolezza, dell’armonia con tutto ciò che ci circonda, della Compassione, nella Via di Mezzo insegnata dal Buddha, al servizio di tutti gli Esseri.

Kiku no ka ya,
nara ni wa furuki
hotoketachi.

Profumo di crisantemi:
nella città di Nara
antiche statue di Buddha.

(Matsuo Basho)




lunedì 28 marzo 2011


Buon Inizio di Settimana


 
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ai sensi della legge n. 62 del 07 Marzo 2011.
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lunedì 21 marzo 2011


Buon Inizio di Settimana e, soprattutto, 
Buon Inizio di Primavera !



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sabato 19 marzo 2011

Ieri Ho Incontrato Bill Evans

 Pubblichiamo questo bell’articolo scritto da Emilio Chelini sulla sua esperienza al Seminario di Qi Gong condotto da Sensei Sydney Leijenhorst a fine Febbraio.

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Appassionato fruitore di musica e pessimo esecutore con formazione rigida e classica, volevo confrontarmi con un approccio diverso alla musica . Così tempo fa mi sono iscritto ad un seminario con il grande pianista.


Io che non riesco a fare due esercizi di base senza vergognarmi, ho avuto l’opportunità di incontrare un mostro sacro del jazz. E per giunta morto!
Un incubo.
Bill mi guarda, e mi fa:
“allora, esistono vari livelli di profondità nell’esecuzione musicale”.
Li illustra.
L’apprendimento delle tecniche, la regolazione del respiro , del corpo e della mente rappresentano il livello base, quello fondamentale senza il quale non c’è altro livello.
Poi sicuramente il mettere insieme varie tecniche, studi, brani, generi.
Ad un livello successivo si riesce ad interpretare gli stessi brani lasciandosi ispirare da un vissuto, o da un  qualsiasi cosa ci ispiri. Ma si è ancora soggetti esecutori. (Il chiaro di luna suonato con somma ispirazione da un innamorato languido e malinconico è quanto riesco a raffazzonare dalla mia esperienza).

Poi si può cominciare addirittura a giocare con questa maestria, non più tecnica, non più solo ispirata secondo canoni e schemi, ma libera. L’improvvisazione, seguire una progressione armonica, un’idea. Lasciar fluire nelle nostre mani il soggetto che ci ispira, l’amore che si destreggia tra le dita, che le muove, muovendo l’esecutore stesso.

Mi accenna anche ad altri due livelli, il livello del suono spontaneo, l’assenza di una forma prestabilita, pura creazione limitata solo dal corpo e dallo strumento. Immagino Beethoven rapito dalla furia creatrice, che compone, sordo, l’inno alla gioia.

E infine l’assenza della pratica. (di questo, per decoro, taccio).

Per maggior gusto sadico mi fa passare allo strumento ed io cerco di apprendere i suoi movimenti ripetendoli. E poi in chiusura di seminario mi offre un assaggio della sua arte improvvisata, ispirata, spontanea.

Come posso tornare a casa? Un senso di frustrazione mi assale man mano che mi avvicino alla macchina. Rivedo velocemente la giornata. Non riesco a focalizzare il senso di quanto è successo. Mi sembra un grosso sbaglio. Nel mio bisogno di perfezione cerco di ricordare le sequenze che mi sono state insegnate, consapevole dell’unicità dell’insegnamento, ho paura di non trattenere.

Ecco l’incubo si è fatto realtà, ieri è come se avessi incontrato Bill Evans, ma in realtà ho incontrato Sensei Sydney e il suo Qi Gong della Gru Bianca. Ma la depressione è la stessa.

Sensei Sydney, mi dispiace per lui, dovrebbe attivare un corso subito, domani stesso, e rimanere per anni a Roma. E con lui il suo Maestro, per essere ancora più sicuri. L’assurdità della pretesa è evidente. Ma è vera, nasce spontanea.

Prima di andare a letto il nervosismo è ancora tangibile. Lascio che il corpo si muova, per tentare di scuotere via questa sensazione.
Con i movimenti lenti e potenti appresi la mattina l’irritazione svanisce e cessa la frustrazione.
Mi riapproprio del corpo, del respiro, mentre la mente si quieta. Non sembra importarmi che sia un primo livello. Ho imparato il significato di un gyaku zuki solo da due anni e non mi scoraggio di fronte alla maestria del mio maestro o al percorso che ho davanti, anzi mi da sicurezza, mi fa sentire che sono su una strada giusta.
Sono felice della sensazione di calore nelle mani e nella pancia, che avevo già provato durante gli esercizi della mattina. La frustrazione aveva offuscato quei gioielli, i semi che Sensei Sidney ci chiedeva di non maltrattare. Piccoli semi, che come un mantra segreto, agiscono di nascosto.
Approfitto subito di questa energia accumulata nelle mani, vado verso il letto dei piccoli e li sfioro con la carezza più calda di questo inverno ormai quasi finito, e corro a dormire.

 Grazie Sensei Paolo e Sydney. (come si dice Sensei al plurale??)



giovedì 17 marzo 2011

Giappone palestra dell'anima


Abbiamo scoperto un bellissimo Blog scritto da un italiano, Flavio Parisi, che vive a Tokyo e che, con sensibilità, lucidità e poesia, scrive della sua esperienza quotidiana in questa terra tanto lontana quanto a noi vicina.

In questi giorni, il suo racconto e le sue impressioni ci permettono di vivere più da vicino e in modo senz’altro più attendibile di quel che ci somministrano i media italiani, la drammatica realtà che stanno vivendo i nostri fratelli giapponesi.
Vi invitiamo a seguire il suo interessante Blog:


da cui pubblichiamo l’articolo che segue postato il 15 Marzo
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Umanesimo

Ieri, mentre facevo tutt’altro, mi hanno chiamato da delle trasmissioni televisive italiane per intervistarmi. E’ sempre interessante parlare e approfondire, specialmente in queste situazioni, con persone lontane. Mi sono accorto, però, di una certa tendenza all’elucubrazione. Questo l’ho notato spesso, è una differenza fondamentale fra italiani e giapponesi. In Italia tutto diventa teoria, spiegazione spesso retorica, massimosistemica, per cui si cercano in questo momento i riferimenti al Buddhismo, al Confucianesimo, quando non al codice dei samurai, ai maestri di sushi o, peggio, ai manga e ai cartoni animati.
Io la vedo in modo diverso. Il  Giappone, secondo me, è un paese completamente laico, anche dal punto di vista filosofico. Non ci sono massimi sistemi per spiegare il mondo, ma infinite strade per viverselo.
Sicuramente ci sono, però, degli atteggiamenti che accomunano praticamente tutti, delle regole condivise.
Tutto questo l’ho pensato perché le domande che mi hanno fatto nei programmi della radio riguardavano la compostezza e la dignità dei giapponesi.
Ecco, qui sono tutti distrutti, rosicchiati dall’angoscia, ma se ognuno si concedesse di comportarsi come se fosse l’unico in difficoltà, sarebbe considerato, e si considererebbe lui stesso un egoista immaturo. Sarebbe un comportamento che si rimprovera anche ai bambini, qui.
In ogni azione che si compie, è doveroso pensare in che modo questa influenzerà gli altri, in giapponese si dice
気を遣う, che significa comunicare l’anima, è un filtro necessario nella vita quotidiana.  Capire lo stato d’animo dell’altro è il primo passo da intraprendere quando si instaura una comunicazione. E’ una regola semplicemente razionale, decisa da gente che tiene in grande considerazione le emozioni e i sentimenti: tutti sanno che comunicare paura e disperazione ha un effetto negativo sugli altri. Alcuni italiani forse penseranno che questo comportamento sia freddo, insensibile, da automi, ma secondo me questa è una visione superficiale e preconfezionata. La realtà è che i giapponesi sono troppo delicati, troppo facilmente preda di passioni per poterle lasciare fluire incontrollate, o essere esposti a quelle riversate in modo insensibile dagli altri.
E adesso dico una cosa retorica, la dico? no dai, evito.
Anzi la dico:
per me stare qui in Giappone questi sette anni è stata una palestra dell’anima.
Ecco, l’ho detto.