Pubblichiamo l'estratto
di un Insegnamento offerto da Taigô Kônin Sensei durante la Pratica Zen.
Non ribadirò mai abbastanza l'importanza
del Sangha, della Comunità che condivide la Pratica.
Non è un caso che sia considerato nel
Buddhismo uno dei Tre Tesori, considerato di pari importanza al Buddha stesso e
al suo Insegnamento.
I buoni amici con cui si condivide
l'esercizio dello Zazen e 'l'educazione' ovvero la ri-educazione che avviene
nel Dōjō sulla base dell’Insegnamento del Buddha, sono talmente parte
integrante e necessaria alla Pratica da poter affermare che non esiste
autentica Pratica al di fuori di una Pratica condivisa.
Questo non esclude ovviamente
l'esercizio quotidiano solitario dello Zazen, ma questo esercizio si innesta
nel cuore della condivisione, e da questa è sostenuto e rinforzato.
Il Sangha, per essere un vero Sangha e
non come lo ha definito Sawaki Roshi ‘un luogo dove rinforzare la stupidità di
gruppo…’ dev’essere una Comunità matura e consapevole e, soprattutto,
amorevole.
Nella mia pluridecennale esperienza
nella Pratica dello Zen ho conosciuto e praticato in diversi Sangha e so bene
quanto sia d’impedimento e causa di profonda sofferenza un Sangha non
armonioso, non amorevole, non maturo (maturità che ha poco a che vedere con la
‘tecnica dello Zen’).
E’ incontestabile che il carattere del
Sangha sia determinato in buona parte da quello che dovrebbe essere il
‘Fratello maggiore’, la guida, o usando un termine più pomposo: ‘l’insegnante’.
E’ molto facile che accada che colui che
al quale viene riconosciuto (spesso a seguito di un’auto-investitura) il ruolo
di guida confonda la preziosa opportunità che gli viene offerta di mettersi al
servizio, offrendo amorevolmente la propria esperienza a chi si avvicina alla
Pratica, con un’occasione di autoaffermazione (tesa spesso a compensare vere e
proprie patologie) e questo, con un effetto domino, ha una disastrosa ricaduta
sul carattere del Sangha che diviene un mezzo anziché essere un fine.
Anche i membri del Sangha hanno
un’importante responsabilità in questa drammatica deriva.
Si deve essere in grado di sostenere il
proprio insegnante e i compagni di Pratica con maturità e amorevole e
costruttivo spirito critico (che non ha niente a che vedere con il rancore di
chi, smaltita la sbornia della fascinazione, si accorge di essere caduto in una
trappola perversa e patologica di cui lui stesso è stato corresponsabile)
proprio come ci si rapporterebbe a dei fratelli e ad un padre, consapevoli
della sua maturità ed esperienza ma nello stesso tempo amorevolmente
consapevoli della sua perfettibile umanità.
Attenzione a non farvi affascinare dalla
‘tecnica’ dello Zen, e da chi vi offre attraverso di essa uno strumento di
compensazione e affermazione (magari vendendovela online), ma cercate il Cuore
caldo e pulsante del Dharma nello Zen anche se questo vi costringerà a cercare
lontano.
D’altronde, se studiate la storia di
questa Trasmissione da Cuore a Cuore che definiamo Zen, vedrete che la ricerca
di un Sangha e di una Guida maturi è un passaggio fondamentale e che al di
fuori di un sincero e amorevole incontro di cuori non esiste alcuno Zen che
possa essere Trasmesso.
Insieme si cammina sulla Via
dell’abbandono di sé per riconoscersi in ogni esistenza.
Solo insieme, in cordata, si scala la
Montagna senza Cima (che è proprio il nome della nostra Comunità allargata) che
porta a riconoscere, durante il Cammino, il nostro volto più puro ed autentico
che non riusciremmo mai a vedere se non riflesso negli occhi degli altri.
Una Pratica matura in un
amorevole Sangha ha come naturale conseguenza il riconoscersi fratelli di tutte
le esistenze e il mettersi spontaneamente e gioiosamente al loro servizio
coltivando, come suggerisce Dōgen Zenji: un Cuore gioioso, materno e vasto.
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