La dedico a tutti coloro che vivono con Passione e Amore la
loro Arte, non per un traguardo, non per tornaconto... ma perchè sono nati per
quello ed è per loro l'unico modo per essere vivi.
LETTERA ALLA DANZA di Rudolf Nureyev
"Era l’odore della mia pelle che cambiava, era
prepararsi prima della lezione, era fuggire da scuola e dopo aver lavorato nei
campi con mio padre perché eravamo dieci fratelli, fare quei due chilometri a piedi per raggiungere la
scuola di danza.
Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo
permettermi questo sogno, ma ero lì, con le mie scarpe consumate ai piedi, con
il mio corpo che si apriva alla musica, con il respiro che mi rendeva sopra le
nuvole. Era il senso che davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei
muscoli parole e poesia, era il vento tra le mie braccia, erano gli altri
ragazzi come me che erano lì e forse non avrebbero fatto i ballerini, ma ci
scambiavamo il sudore, i silenzi, a fatica. Per tredici anni ho studiato e
lavorato, niente audizioni, niente, perché servivano le mie braccia per
lavorare nei campi. Ma a me non interessava: io imparavo a danzare e danzavo
perché mi era impossibile non farlo, mi era impossibile pensare di essere
altrove, di non sentire la terra che si trasformava sotto le mie piante dei
piedi, impossibile non perdermi nella musica, impossibile non usare i miei
occhi per guardare allo specchio, per provare passi nuovi. Ogni giorno mi
alzavo con il pensiero del momento in cui avrei messo i piedi dentro le
scarpette e facevo tutto pregustando quel momento. E quando ero lì, con l’odore
di canfora, legno, calzamaglie, ero un’aquila sul tetto del mondo, ero il poeta
tra i poeti, ero ovunque ed ero ogni cosa. Ricordo una ballerina Elèna
Vadislowa, famiglia ricca, ben curata, bellissima. Desiderava ballare quanto
me, ma più tardi capii che non era così. Lei ballava per tutte le audizioni,
per lo spettacolo di fine corso, per gli insegnanti che la guardavano, per
rendere omaggio alla sua bellezza. Si preparò due anni per il concorso Djenko.
Le aspettative erano tutte su di lei. Due anni in cui sacrificò parte della sua
vita. Non vinse il concorso. Smise di ballare, per sempre. Non resse la
sconfitta. Era questa la differenza tra me e lei. Io danzavo perché era il mio
credo, il mio bisogno, le mie parole che non dicevo, la mia fatica, la mia
povertà, il mio pianto. Io ballavo perché solo lì il mio essere abbatteva i
limiti della mia condizione sociale, della mia timidezza, della mia vergogna.
Io ballavo ed ero con l’universo tra le mani, e mentre ero a scuola, studiavo,
aravo i campi alle sei del mattino, la mia mente sopportava perché era ubriaca
del mio corpo che catturava l’aria.
Ero povero, e sfilavano davanti a me ragazzi che si
esibivano per concorsi, avevano abiti nuovi, facevano viaggi. Non ne soffrivo,
la mia sofferenza sarebbe stata impedirmi di entrare nella sala e sentire il
mio sudore uscire dai pori del viso. La mia sofferenza sarebbe stata non
esserci, non essere lì, circondato da quella poesia che solo la sublimazione
dell’arte può dare. Ero pittore, poeta, scultore. Il primo ballerino dello
spettacolo di fine anno si fece male. Ero l’unico a sapere ogni mossa perché
succhiavo, in silenzio ogni passo. Mi fecero indossare i suoi vestiti, nuovi,
brillanti e mi dettero dopo tredici anni, la responsabilità di dimostrare.
Nulla fu diverso in quegli attimi che danzai sul palco, ero come nella sala con
i miei vestiti smessi. Ero e mi esibivo, ma era danzare che a me importava. Gli
applausi mi raggiunsero lontani. Dietro le quinte, l’unica cosa che volevo era
togliermi quella calzamaglia scomodissima, ma mi raggiunsero i complimenti di
tutti e dovetti aspettare. Il mio sonno non fu diverso da quello delle altre
notti. Avevo danzato e chi mi stava guardando era solo una nube lontana
all’orizzonte. Da quel momento la mia vita cambiò, ma non la mia passione ed il
mio bisogno di danzare. Continuavo ad aiutare mio padre nei campi anche se il
mio nome era sulla bocca di tutti. Divenni uno degli astri più luminosi della
danza.
Ora so che dovrò morire, perché questa malattia non
perdona, ed il mio corpo è intrappolato su una carrozzina, il sangue non
circola, perdo di peso. Ma l’unica cosa che mi accompagna è la mia danza la mia
libertà di essere. Sono qui, ma io danzo con la mente, volo oltre le mie parole
ed il mio dolore. Io danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere e che
mi seguirà ovunque: quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere
al di sopra della fatica e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica
ballando, e se ci si siede per lo sforzo, se compatiamo i nostri piedi
sanguinanti, se rincorriamo solo la meta e non comprendiamo il pieno ed unico
piacere di muoverci, non comprendiamo la profonda essenza della vita, dove il
significato è nel suo divenire e non nell’apparire. Ogni uomo dovrebbe danzare,
per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare.
Chi non conoscerà mai il piacere di entrare in una
sala con delle sbarre di legno e degli specchi, chi smette perché non ottiene
risultati, chi ha sempre bisogno di stimoli per amare o vivere, non è entrato
nella profondità della vita, ed abbandonerà ogni qualvolta la vita non gli
regalerà ciò che lui desidera. È la legge dell’amore: si ama perché si sente il
bisogno di farlo, non per ottenere qualcosa od essere ricambiati, altrimenti si
è destinati all’infelicità. Io sto morendo, e ringrazio Dio per avermi dato un
corpo per danzare cosicché io non sprecassi neanche un attimo del meraviglioso
dono della vita… "