martedì 23 maggio 2023

Ogni destino è legato ad altri destini


Nell'ultimo anno e mezzo la vita mi ha impartito profondi insegnamenti di Dharma. 

Mi ha mostrato con estrema e dolorosa evidenza quanto, come afferma Dōgen Zenji, "Per quanto tu possa amarli i fiori muoiono, per quanto tu le possa detestarle le cattive erbe crescono". 

Mi ha dimostrato come non ci sia nessun luogo davvero su cui "posare il capo", nulla che non sfugga costantemente alla nostra presa che più si serra più genera dolore (Anicca in Pali, Mujō in giapponese, l'Impermanenza). 

Come la nostra mente non abbia alcuna solidità, alcun sé permanente a cui fare sicuro riferimento. Saggezza e follia, amore e odio, gioia e desolazione albergano nelle nostre menti attivati e nutriti dall'illusione. (Anatta in Pali, Non sè). 

Come ogni nostra azione e pensiero, irrilevante che possa sembrare, ha una risonanza inaudita nella nostra vita come in quella di altri e come tutte le vite e le vicende, dolorose quanto gioiose, si intreccino in un tessuto il cui disegno finale, che non ci è dato scorgere, se non intuitivamente, è Pace ed Armonia. 

Oggi al semaforo si è avvicinato un uomo con un bicchiere di plastica a chiedere, silenziosamente, sostegno. Ero io, mi sono riconosciuto in quello sguardo smarrito di fronte all'impermanenza. 

Scriveva Eduardo de Filippo: “la vita è un gioco, e questo gioco ha bisogno di essere sorretto dall'illusione, la quale a sua volta deve essere alimentata dalla fede. Ogni destino è legato ad altri destini in un gran gioco eterno del quale non ci è dato scorgere se non particolari irrilevanti” . 

Il Risveglio è la Pratica delle mille azioni quotidiane, quando la pratica sfugge, l'illusione prende il sopravvento, tornare allora a risvegliarsi alla Pratica è vera salvezza.

Taigō Kōnin Sensei
















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martedì 16 maggio 2023

L'assenza di pensiero è il pensiero istantaneo

Ora, l'errore sarebbe ritenere che assenza di pensiero voglia dire qui non pensare a nulla. È un fraintendimento in cui spesso si può cadere e di fatto è così. Ma si tratta di qualcos'altro. Costringere al silenzio i pensieri è il risultato di un atteggiamento contrastivo, concentrato in modo reattivo e violento: è una via perseguita da certe tradizioni meditative, ma non dallo zen. Il non-pensiero di cui parla lo zen non esclude nulla; è per certi versi il contrario: è un'apertura, è un atteggiamento non discriminante. È una via verso l'abbandono, il cedimento. I pensieri permangono nella loro naturalezza, si susseguono nella loro fresca istantaneità. Se io voglio raggiungere il silenzio assoluto dei pensieri, allora il mio atteggiamento è innaturale e dualistico: la mia mente è piena di pensieri e io voglio arrivare a chissà quale mistico svuotamento!

"Il pensiero istantaneo è l'onniscienza". 
Allora è ovvio che quando lascio la presa, quando mi scrollo di dosso la tenace volontà di liberarmi la mente dei suoi contenuti, rimane il pensiero pensato in questo momento, in questo preciso istante, nella sua pulizia, nella sua assoluta presenzialità. Nel qui e ora del pensiero sono solo e semplicemente in quel pensiero stesso che sta istantaneamente passando in me: essere solo quel pensiero vuol dire onniscienza. Una conoscenza totale, illimitata, perché non più costretta dai limiti separativi, bensì coincidente con la mente conoscente e l'oggetto di pensiero. Conoscenza, conoscente, conosciuto si identificano: è come dire libertà, o anche infinito.

"Il pensiero nell'assenza di pensiero è la manifestazione, l'attività dell'assoluto". 
A questo punto non c'è più qualcuno che pensa e che si pone di fronte a qualcos'altro. Non c'è più una mente che ha dentro di sé un pensiero. Se sei penetrato da quel pensiero, quello di questo istante e nient'altro; se sei così semplice da non complicare tutto costruendoti i tuoi infiniti vaniloqui interiori; se non ti poni con un atteggiamento teso e reattivo, allora sei uscito dal dualismo soggetto-oggetto, anche quello presente nella coppia mente-pensiero. Sei in una dimensione cui non puoi dare un nome definito; eppure l'attività del pensare sussiste ancora, ma non è più oggettivata, non è più originata a colpi di atti di volontà o in uno stato di inconsapevolezza. Si dà spontaneamente, libera: è una "manifestazione", più che un oggetto; è "l'attività dell'assoluto", e non più una scelta o un'opzione soggettivistica, personalistica, egoica.

Chen-Huei


















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martedì 9 maggio 2023

L'apprendimento muto e antico del corpo

Storicamente lo Zen affonda le sue radici nel lungo viaggio che il buddhismo indiano delle origini fa attraverso la Cina, assorbendo posizioni del pensiero taoista e penetrando successivamente in Giappone. La sua nascita è quindi nella confluenza di due tradizioni antiche: quella indiana e quella cinese e infine nel suo permanere all'interno della cultura giapponese. Questa complicata genesi è già una prima difficoltà ad addentrarsi nelle questioni che la sua visione affronta. La seconda difficoltà per un occidentale, è che lo zen, sebbene indichi una via di salvezza, non è propriamente né una religione, né una filosofia, sebbene in qualche modo intrecci aspetti della ricerca sia filosofica che religiosa. Non lo è, anche perché lo zen pone - a suo fondamento - un approccio di mente-corpo-cuore e proprio ai modi consueti di catalogare la realtà, allo stesso sentire in termini dualistici, contrappone quella natura originaria che precede le convenzioni del linguaggio, apprese crescendo. Si potrebbe dire che l'edificazione delle certezze, a partire da una discriminazione, è precisamente quanto la pratica zen vuole mettere in crisi. Forse Proust lo spiega bene quando nella Recherche, tentando di descrivere le sorprendenti prospettive e i giochi di luce del pittore Elstir dice: I nomi che designano le cose rispondono sempre ad una nozione di intelligenza, estranea alle nostre autentiche impressioni e che ci obbliga a eliminare da esse quanto non abbia rapporto con tale nozione. Ora se il Padreterno aveva creato le cose nominandole. Elstir le ricreava togliendo loro ti nome o dandone un altro (. . .) e lo sforzo che faceva per spogliarsi in presenza della realtà di tutte le nozioni della sua intelligenza era tanto più ammirevole in quanto quest'uomo che, prima di dipingere si faceva ignorante e dimenticava ogni cosa, aveva in effetti un 'intelligenza eccezionalmente coltivata" E' proprio a queste' autentiche impressioni', che lo zen tenta di accedere, facendo come il pittore lo sforzo di spogliarsi dalla realtà e anche da un certo tipo di intelletto. In questo cambio di prospettiva, il nucleo di esistenza solitamente attribuito all'essere, all'identità, al tempo... si fa molto più fluido, non si tratta di un aut aut, ma di un et et, non di sostanze ma di relazioni, di cogliere simultaneamente lati contrari, il punto in cui le cose si generano in-distintamente. Questo punto è espresso dalla nozione del 'Vuoto', cioè dall'intreccio mutevole di quanto continuamente compare, scompare, muta, si dissolve; una forma dunque estremamente mobile a cui illusoriamente attribuiamo una rigidità, certe precise qualità, una durata. Tale' errore' o attitudine a voler scorgere permanenza laddove non c'è, genera come conseguenza un attaccamento che è fonte di continua smentita. Inoltre il pensare in termini di: bene/male, giusto/ingiusto, vero/ falso ... porta a voler perseguire solo un lato della della medaglia e ad evitarsene il rovescio, tentativo non solo frustrato, ma che fa ricadere sempre negli stessi lacci di: profitto o perdita, pena del domani che non viene, dell'ieri che troppo presto è passato ... Per spezzare questa associazione meccanica, la nozione del vuoto viene espressa dal silenzio o da un ribaltamento dei luoghi comuni del linguaggio. Da qui le risposte proverbiali e paradossali che i maestri davano al discepolo incartato in un concetto che, facendo da filtro, offuscava la sua più autentica percezione. Lo sguardo che lo zen tenta, è dunque una contemplazione del 'così', prima dell'abitudine, del giudizio o della volontà secondo quel giudizio. Questo graduale spogliarsi, avviene attraverso una via eminentemente pratica: la postura dello zazen (del sedersi) e l'attenzione cerimoniale ai gesti più consueti. La postura è la fede che a partire dalle ossa, dal respiro, si potrà indebolire la presunzione della mente di concepirsi intorno ad un'idea di sé; che dando voce all'apprendimento muto e antico del corpo, si metterà a tacere il rumoroso impero dei propri preconcetti. Presupposto alla fatica e tensione dello zazen è questa forma vuota, che intreccia e disfa molte certezze e di cui la liberazione (ma potremmo anche dire la -libertà) è allo stesso tempo principio e fine. (Forse quando Eleonora Pimentel Fonseca, scriveva sul Monitore, durante i pochi mesi di vita della Repubblica partenopea: "La libertà l'hanno solo i popoli liberi" enunciava, aldilà dell' apparente tautologia, la stessa profonda verità, giacché nessuna libertà arriva a essere davvero ri-voluzione, se non è prima sentita come uno stato, uno spazio.) Della pratica zen fa parte anche la scansione rituale del tempo, che include la quotidianità del dormire, del mangiare, del lavoro... ed è rigoroso apprendistato a compiere - data l'infinita intersezione che ci com-prende - gesti accorti. Questa educazione o buon governo di terrestre e irreale pretende la pratica di una vita, un allenamento dei sensi contrario al 'guarda e passa', il più amoroso fermarsi. Nasce anche dalla consapevolezza che non esiste intervento innocuo, che ogni azione pianta radici, getta semi, influenza profondamente. Proprio l'attenzione è infine all' origine della com-passione, del con-sentire... essa porta a quel sentimento di solitudine interrotta e attraversata dal tessuto di molti inesplicabili 'accanto'. In una delle sue tante e tanto trascurate intuizioni, Anna Maria Orte se, descrive questo vasto sfondo di cui percepiamo appena una vaga presenza, scrivendo: 'Torse lo spirito non è nave, ma solo continente che viaggia, continente sommerso! Nascosto! Sembra debole nave solo perché viaggia e poco ne emerge. Ma è continente grandioso!" Smemorati, passeggiamo in una sera di primavera al crepuscolo. L'ultima striscia malva in fondo al cielo, la prospettiva degli alberi, il tempo che succede al tempo. Sono state previste le ore di sole e d'ombra, l'inverno e l'estate, il disegno dei diversi rami... la breve strada che si snoda tra palazzi nemmeno tanto amabili di una qualsiasi città, è strada di firmamento... tutto immensamente predisposto, dall' erba alla nuvola, all'orizzonte dove è apparsa la prima timida stella... Sentire tutto questo con-temporaneamente... come un mendicante che si trovi all'improvviso un diamante in tasca o uno che si è risvegliato dallo stare sveglio...

Tiziana Verde

© Tora Kan Dōjō

www.iogkf.it

www.torakanzendojo.org











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lunedì 1 maggio 2023

La religione dell'azione (Ita/Eng)

Domanda:

“Dunque quali religioni considera religioni dell’azione?

Cosa intende con questa definizione?”

Gudo Wafu Nishijima Roshi:

Si riferisce a quelle religioni che ci chiedono semplicemente di essere, vivere e agire qui e ora, accettando contemporaneamente questo mondo così com'è, proprio com'è qui e ora, senza fare appello a qualche altro mondo che è in qualche modo migliore, più ideale e perfetto. Poiché tutti questi insegnamenti ci chiedono è di essere, di agire qui e ora, in questo stesso mondo in cui viviamo qui e ora, chiamo tali filosofie religioni d'azione.

Il Buddhismo è una religione esistenziale.

D'altra parte, mentre il Buddhismo ci invita ad accettare pienamente, ad osservare semplicemente senza giudizio questo mondo in cui viviamo, tuttavia, il Buddhismo non deve essere una filosofia della passività. Non abbiamo bisogno di sederci beati sulla nostra foglia di loto, osservando la vita che ci passa accanto. Pur accettando pienamente il mondo, pur non desiderando completamente che il mondo non sia così com'è, simultaneamente e da un'altra prospettiva ancora, siamo più liberi di agire, vivere e scegliere come pensiamo meglio, con saggezza e compassione.

Non abbiamo bisogno di essere passivi, ma possiamo vivere le nostre vite in abbondanza, andando avanti, pur sapendo che siamo sempre solo qui, che alla fine non c'è nessun posto dove andare oltre a dove siamo.

In questi termini, è una religione dell'azione.

E, ancora, altrettanto importante è l'ulteriore prospettiva che nel nostro agire, nel nostro vivere, non è che il mondo che agisce e vive attraverso la nostra azione e la nostra vita, poiché ognuno di noi non è che una sfaccettatura del mondo, un'espressione del tutto, della realtà senza separazione.

Da questa prospettiva, tutti i concetti di soggetto e oggetto vengono messi da parte, e le nostre vite e il funzionamento di tutta la realtà costituiscono un'unica grande attività, un grande funzionamento. Quindi, poiché vediamo il mondo come agente da e attraverso ciascuno di noi senza separazione o divisione, è una religione dell'azione. Quindi, solo essere, vivere e agire è sacro, un atto sacro, in sé e per sé.

Possiamo anche cercare di migliorare il mondo nel miglior modo possibile, mentre riconosciamo mano nella mano che il mondo è perfettamente proprio quello che è.

Perché possiamo vivere, dobbiamo vivere e agire anche nell’accettazione, quindi è una religione dell'azione.


Tratto da “A heart to heart chat on Buddhism


Versione Inglese:


Question: 

So, which religions do you consider emphasize action? 
What do you mean by that?

Gudo Wafu Nishijima Roshi:
This refers to those religions that just call for us to be, to live and act here and now, while simultaneously accepting this world as it is, just as it is here and now, without appealing to some other world that is somehow better, more ideal. Because all such teachings ask of us is to be, to act here and now, in this very world in which we are living here and now, I call such philosophies religions of action.  

Buddhism is such an existential religion. 

On the other hand, while Buddhism calls upon us to fully accept, to merely observe without judgment this world in which we are living, still, Buddhism need not be a philosophy of passivity. We need not but sit in bliss upon our lotus leaf, watching life pass us by. While fully accepting the world, while fully not wishing that the world were any other way than just the way it is, simultaneously and from yet another perspective, we are most free to act, live and choose as we think best, with wisdom and compassion. 

We need not be passive, but can live our lives abundantly, moving forward, all the while knowing that we are always just here, that there is no place ultimately to go other than where we are. 

In this way, it is a religion of action. 

And, again, equally important is the further perspective that in our acting, in our living, it is but the world which acts and lives as we act and live, for we are each but a facet of the world, an expression of the whole of reality without separation. 

In this stance, all concepts of subject and object are put aside, and our lives and the functioning of all reality constitute a single great activity, one great functioning. Thus, because we view the world as acting by and through each of us without separation or division, it is a religion of action. So, just being, living and acting is sacred, a sacred act, in and of itself. 

We can even try to better the world as best we can, while hand-in-hand recognizing the world as perfectly just what it is. 

Because we can live, must live and act even as we accept, so it is a religion of action.















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