mercoledì 27 novembre 2019

Camminare come un elefante



Tutti gli insegnamenti vengono dalla pratica dello zazen, con la quale ci viene trasmessa la mente del Buddha. Sedere in meditazione significa aprire la nostra mente; tutti i tesori di cui facciamo esperienza ci provengono da quella mente. Molti sono alla ricerca di un posto speciale e vanno in confusione: Come ha detto Dogen Zenji: "Perché rinunciare al tuo seggio e andare in giro per i regni polverosi di terre straniere?". Quando facciamo del turismo siamo presi dall'idea di raggiungere una meta in fretta; il nostro modo di andare, invece, è camminare passo passo, apprezzando la vita quotidiana. Così possiamo scoprire che cosa stiamo facendo là dove ci troviamo. Pratichiamo come un elefante invece che come un cavallo. Invece di galoppare, camminiamo lentamente, come un elefante. Sei già un buon studente zen se sei capace di camminare lentamente senza idea di ottenere qualcosa. Noi non pratichiamo lo zazen allo scopo di raggiungere l'illuminazione ma piuttosto per esprimere la nostra vera natura. Anche la tua attività di pensiero, mentre fai zazen, è un'espressione della tua vera natura. Il tuo pensare è come qualcuno che parla in cortile o dall'altra parte della strada: magari ti chiedi di che cosa stia parlando, ma quel qualcuno non è una persona in particolare, quel qualcuno è la nostra vera natura. La vera natura dentro di noi parla sempre di buddhismo; qualunque cosa facciamo è un'espressione della natura di Buddha. E' una pratica che non ha né un inizio né una fine. Dovreste avere chiaro questo punto: non potete sprecare il vostro tempo anche se lo zazen che fate non è poi tanto buono. Può essere che non capiate neanche che cosa sia, ma un giorno, una volta, qualcuno accetterà la vostra pratica; dunque limitatevi a praticare senza vagare in giro, senza lasciarvi prendere dal turismo dello zazen. In quel caso avete una possibilità di raggiungere la vostra pratica; "buona" o "cattiva" non importa. Se sedete in meditazione tenendo questo a mente, convinti della vostra natura di Buddha, presto o tardi vi troverete circondati dai grandi maestri dello zen. Il punto importante, dunque, è praticare senza alcuna idea di guadagno frettoloso, senza alcuna idea di fama o di profitto. Noi non pratichiamo zazen a favore degli altri o a favore di noi stessi: Pratica zazen a favore dello zazen; siedi in meditazione e basta.

Shunryu Suzuki Roshi



© Tora Kan Dōjō

















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domenica 24 novembre 2019

Per una nuova visione delle arti marziali

Sempre più spesso sulla riviste compaiono articoli che da diversi punti di vista analizzano e lamentano una certa crisi delle varie arti marziali, ma a mio avviso c’è un motivo interno che quasi nessuno ha trattato, che è all’origine di questo processo di disaffezione. Motivo che riguarda principalmente le metodiche didattiche e di allenamento che non si sono evolute di pari passo con le esigenze del praticante che sorgono durante le diverse tappe evolutive della pratica marziale. Nella maggioranza dei casi oscillano tra metodiche falsamente tradizionaliste rimaste ancorate a una era pionieristica in cui non si andava tanto per il sottile a metodiche presuntuosamente moderniste dove il gesto marziale è diventato gesto atletico chiuso nella ristretta dimensione della performance sportiva.
Tradizione e ritorno al futuro
Tradizionalmente in tutte le arti marziali gli aspetti mentali, fisico-tecnici ed energetici della pratica hanno sempre costituito un tutt’uno, solo in tempi recenti, a partire dalla seconda metà del secolo scorso in concomitanza con la loro diffusione in Occidente, si è assistito a una progressiva scissione che ha visto gli aspetti fisico-tecnici diventare sempre più importanti relegando sullo sfondo, fino a farli quasi completamente sparire, quelli mentali ed energetici. Questa trasformazione dello spirito originario ha lentamente fatto perdere alla pratica la dimensione di techne (arte) insita nel gesto marziale per diventare tecnicismo fisico-atletico. Di questa scissione nessuna delle arti marziali è stata immune, neanche quelle che si richiamano al più puro spirito tradizionale.
La situazione oggigiorno è sotto gli occhi di tutti, anche se molti si ostinano a non vedere che il Re è nudo e scambiano per tecniche mentali banali schematismi psicofisici di attacco-difesa, di azione-reazione, e pensano di costruire una mente forte con massacranti allenamenti fisici e continue ripetizioni di forme o di combinazioni tecniche. Ogni stagione ha i suoi frutti recita un vecchio adagio contadino, e certamente durante la fanciullezza marziale questi metodi possono essere utili, ma quando si raggiunge la maturità bisogna cambiare modo di allenarsi, altrimenti si rischia che le arti marziali diventino vecchie senza riuscire a diventare adulte.

Un praticante maturo non può sudare e ansimare come un bue al traino nel vano tentativo di stare al passo con un atleta giovane, ma non può neanche sedersi sul suo passato e pretendere un rispetto formale dovuto agli anni, ma deve guadagnarselo giorno dopo giorno nel confronto diretto, pena quel senso di frustrazione misto ad invidia per la maggiore capacità aerobica, maggiore resistenza e miglior recupero fisico tipici della gioventù, che pian piano ti fa passare la voglia di praticare.
Sarebbe ora, per ovviare a simili situazioni di disagio, di fare un ritorno al futuro andando a recuperare tutti quei valori e metodi tradizionali di tecniche di lavoro interno Nei gong - uchi ko) che differenziano le arti marziali dagli sport da combattimento, che possono permettere al praticante maturo una crescita marziale continua e al giovane praticante di investire nel proprio futuro ed evitare così di ritrovarsi con il passare degli anni, passata la stagione agonistica, nella stessa identica situazione di demotivazione e frustrazione.
Per valori e metodi tradizionali non sono da intendersi solo abilità psicofisiche (coordinazione neuromotoria, agilità, destrezza) e qualità quali costanza, volontà, spirito forte, certamente utili e comuni a tutti gli sport, ma qualcosa di molto più profondo dove il gesto tecnico, recuperando la sua dimensione di techne (arte del fare), oltre ad agire profondamente sia sul corpo sia sulla mente ricostruendone l’unità intrinseca, entri nella profondità della coscienza trasformando un semplice esecutore di tecniche in un artista marziale maturo: forte ma non duro, calmo ma non pavido, sicuro ma non arrogante.

L’efficacia di un gesto tecnico non si può e non si deve esaurire nello spazio di un mattino agonistico, ma protrarsi per tutta la vita nella gioia di una pratica non solo rispettosa del corpo, ma che addirittura trasforma il corpo in veicolo espressivo del proprio modo di essere e di vivere. Alcuni maestri del passato hanno lasciato a tale proposito testimonianze di rara bellezza molto utili per guidarci nel percorso, ma che purtroppo il moderno praticante, mancando di un riscontro nella pratica quotidiana che costruisca la giusta predisposizione mentale e atteggiamento corporeo, sottovaluta scambiando le suggestive immagini che evocano per poesia.
Questa difficoltà di trasformare gli insegnamenti dei maestri in esperienza vissuta, relegandoli in un’asettica dimensione intellettuale e letteraria, è dovuto alla mancanza di opportuni allenamenti, di cui tutte le arti marziali disponevano ma che sono stati persi per strada nel loro viaggio verso l’Occidente, che aprano a una dimensione diversa della pratica. Dimensione diversa non teorica e astratta, ma reale, viva e concreta, sperimentata e vissuta nella pratica quotidiana di cui ho tracciato le linee e i principi guida in innumerevoli articoli e in cinque libri editi dalla Caliel, e gli allenamenti pratici in una serie di 6 dvd editi dalla aliel e Nei dan school.
Allenamenti dove corpo mente ed energia si intersecano in costruttivi giochi di ruolo, dove il corpo funge da teatro-laboratorio in cui si possono vivere ed esperire situazioni oltre la mente ordinaria, oltre la dimensione fisica in cui si entra in contatto, attraverso la tecnica corporea, con la parte più antica di noi stessi, la parte che agisce e pensa come gli antichi spadaccini del Giappone medievale e i saggi taoisti della tradizione cinese.


Dalla tecnica all’arte del corpo
Bisogna recuperare un rapporto collaborativo tra cuore e cervello, tra istinti e ragione. Il mio maestro Guo Ming Xu dice che a un certo livello della pratica bisogna lasciare da parte la tecnica e lasciare agire il cuore. Questo vuol dire che la maturazione e la crescita come artista marziale a un certo punto del cammino richiedono di lasciare sullo sfondo gli aspetti fisico-atletici e mettere in primo piano quelli mentali ed energetici. Lasciare sullo sfondo gli aspetti fisico-atletici non vuol dire diventare deboli, ma al contrario diventare diversamente abili. Abili nel riscoprire all’interno di sé stessi fonti alternative di energia, di potenzialità e forze nascoste nella struttura interna del corpo che non immaginavamo neanche di possedere, in grado di sostituire la forza fisica che inesorabilmente con il passare degli anni cala.
Abilità diverse che si trovano in quella terra di confine, dove il pensiero si fonda con l’azione, dove i muscoli impregnandosi d’intenzioni ed energie sottili (qi/ki) sprigionano senza tensioni forza e potenza, dove il tuo addome (Dantian o Tanden) diventa il centro della tua volontà creatrice da dove scaturisce la vera forza che muove il corpo, e non una massa dura e insensibile che fortifichi con centinaia di addominali alla fine di ogni allenamento. Dove la tua colonna vertebrale diventa la dorsale in cui scorre la tua energia vitale e non un pezzo meccanico tra gambe e braccia che blocca e irrigidisce la struttura e rende il tronco un blocco duro e inerte in cui il potere del respiro si perde in un ansimare rumoroso e l’emissione dell’energia (Fa Jin o Kime) diventa l’urlo di un corpo sacrificato sull’altare di una effimera efficacia.
Potere del respiro che, opportunamente allenato, attiva la mente e trasforma il tuo addome in un sistema pneumatico che aziona e dirige braccia e gambe in maniera potente senza danneggiare gomiti e ginocchia, senza stressare i muscoli, senza provocare dolorose discopatie alla schiena e rovinare le articolazioni delle anche (vedi di F. Daniele “Le Tre Vie del Tao” Caliel Edit. Ritmo e armonia del meccanismo respiratorio).
Si può essere forti e potenti anche oltre le cinquanta primavere se si fa un lavoro di consapevolezza che permette alla mente di unirsi al corpo attraverso la mediazione dell’energia interna. Unione che non solo rallenta il naturale decadimento fisico, ma può addirittura invertirlo, fino a recuperare vigore e forze che consideravamo persi con l’avanzare degli anni.

Purtroppo tutto questo, duole dirlo, è quanto di più disatteso ci sia, per rendersene conto basta entrare in una qualsiasi palestra, e non solo in una palestra qualsiasi, ma anche dove insegna uno dei tanti maestri che hanno contribuito alla diffusione e sviluppo delle arti marziali italiane. Sono veramente pochi quelli che dopo quaranta anni di pratica e diverse decine di anni d’insegnamento hanno adeguato il loro metodo, inserendo allenamenti che tengano conto che il praticante non è a una sola dimensione, ma a più dimensioni, è fatto anche di emozioni, di energie, di spirito che opportunamente allenati possono trasformarsi in forze, in potere interno, possono permettere di realizzare la non-mente, l’agire senza intenzioni, la calma nel vortice del movimento, lo spirito immobile dell’arciere zen che senza mirare colpisce il bersaglio.
Tutto questo può essere realizzato e non restare nel limbo dei sogni non vissuti dei desideri non realizzati basta ritornare al futuro, avere il coraggio di rifondare la pratica attraverso la Tecnica che ha recuperato la sua dimensione di Arte. Arte che apre a una realtà vera e concreta, dove la dimensione di vuoto mentale smette di essere un concetto metafisico e diventi uno stato mentale pulito, non inquinato da emozioni disordinate, all’interno del quale è possibile cogliere l’essenza e le motivazione di una disciplina apparentemente inadeguata e fuori dal tempo.

Tratto dal post del Maestro Flavio Daniele:
Link


© Tora Kan Dōjō


















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mercoledì 20 novembre 2019

Il futuro sarà un drammatico confronto tra l’educazione e il caos




Ecco come, secondo la mia esperienza, dovrebbero essere le nostre scuole:
Le aule dovrebbero essere vuote, pavimentate con tatami o altro materiale che permetta ai  bambini di sedere in terra su di un cuscino in terra di fronte ad un tavolo basso.
Sedere in terra è naturale e benefico ma è diventato quasi impossibile per il corpo rigido e atonico dell’uomo ‘civilizzato’, e questo essere ‘privi di spina dorsale’ si manifesta in ogni ambito...

Il sedere a terra senza il supporto di uno schienale permette il consolidamento di una perfetta postura oltre a favorire una straordinaria concentrazione data dalla profonda sensazione di radicamento e stabilità nonchè dal corretto modo di respirare favorito dalla postura.
Il sedere in terra offre al bambino una salutare sensazione di naturalezza e libertà.
Se i bambini sedessero in terra, invece che incurvati sulle sedie, ci dimenticheremmo dei paramorfismi di cui i nostri bambini ormai soffrono nella quasi totalità a causa delle loro posture deboli.

Al termine delle lezioni gli studenti, di ogni ordine e grado, dovrebbero (come succede in Giappone), con un’attenta distribuzione di responsabilità, prendersi cura della loro classe e dei locali della Scuola.
Si tratterebbe di un lavoro breve, una mezz’ora basterebbe per pulire a fondo tutti i locali, ma si tratterebbe di un momento altamente educativo.


Visto il grande numero di ragazzi si tratterebbe di un gesto poco più che simbolico ma pensate quanto efficace potrebbe essere quest’azione quotidiana  nell'insegnare ai ragazzi che esiste un bene comune (cosa totalmente ignorata oggi), che prima di parlare di diritti nei confronti della comunità si devono assumere le proprie responsabilità perchè si sia riconosciuti membri a pieno titolo di quella comunità e, quanto la forma sia poi in realtà sostanza.


Provate a proporlo nella Scuola e oltre ad essere additati come reazionari troverete resistenza in primis da parte degli stessi genitori, troppo preoccupati a conservare primati e privilegi del proprio figlioccio e a preservarlo da ogni difficoltà e rischio piuttosto che  aiutarlo a maturare una più ampia visione.
Anche gli Insegnanti mi sembrano più preoccupati di conservare le loro abitudini e il loro magro stipendio che accettare la sfida dell’educazione e direi che a volte val la pena rischiare anche il posto di lavoro se si crede in qualcosa denunciando l'errore e l'ingiustizia ed avendo il coraggio di proporre qualcosa di davvero nuovo ed efficace.

Se non partiamo da qui cosa pensiamo di insegnare ai nostri figli ?

Continuiamo a credere davvero che si diventi uomini completi e membri di una comunità, solo perchè si è imparata la matematica o altre nozioni per avere un bel voto ?

Guardiamoci intorno e possiamo ben vedere i frutti che ha dato questa impostazione pedagogica: una folla di egoisti competitivi, profondamente ignoranti e incapaci di formulare un pensiero libero.
 
Sawaki Roshi così si rivolgeva agli studenti dell’università di Komazawa:

‘Non mangiamo al fine di defecare, non defechiamo per produrre concime. Eppure al giorno d’oggi sembra che tutti credano che si vada a scuola per prepararsi per l’università, e che si vada all’università per trovare un buon lavoro…’

La nostra è una civiltà in declino e si vede bene dall'attenzione che dedichiamo all'educazione.
Credo davvero che i Dōjō (non le palestre ma i veri Dōjō) siano un'isola di civiltà ed educazione e possono venire in soccorso alle evidenti lacune educative di questa impostazione scolastica.

Jigoro Kano Sensei, fondatore del Judō, affermava:
' Niente al mondo è più importante dell'Educazione: l'insegnamento di un uomo virtuoso può influenzare molte generazioni...'
e
'Il futuro sarà un drammatico confronto tra l’educazione e il caos' 

Il suo pensiero è quanto mai attuale oggi.

Taigō Sensei



© Tora Kan Dōjō




















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giovedì 14 novembre 2019

Non amo chi è sedentario nel cuore


Antoine de Saint Exupéry

Così alla sera io cammino a passi lenti tra il mio popolo e tacitamente lo circondo del mio amore. Sono soltanto inquieto per coloro che ardono di una vana luce, per il poeta pieno d’amore per la poesia ma che non scrive il suo poema, per la donna innamorata dell’amore ma che, non sapendo scegliere, non può divenire; tutti pieni di angoscia, poiché sanno che io li potrei guarire di questa angoscia se permettessi loro di fare quell’offerta che esige sacrificio, scelta e dimenticanza dell’universo. Perché il tal fiore esclude innanzi tutto ogni altro fiore. E tuttavia solo a questa condizione esso è bello. Così avviene per l’oggetto dello scambio. E lo stolto che va a rimproverare a quella vecchia il suo ricamo col pretesto che avrebbe potuto tessere qualcos’altro, preferisce dunque il nulla alla creazione. 
Così cammino e sento salire la preghiera nell’odore dell’accampamento nel quale tutto matura e si forma in silenzio, lentamente, senza quasi che ci si pensi. 
Il frutto, il ricamo o il fiore, per divenire, è nel tempo che sono  immersi.
Durante le mie lunghe passeggiate ho capito che il valore della civiltà del mio impero non riposa sulla qualità dei cibi ma sulla qualità delle esigenze e sul fervore del lavoro. 

Questo valore non è dato dal possesso, ma dal dono di sé. 
E’ civilizzato innanzi tutto quell’artigiano che si ricrea nell’oggetto; in compenso egli diviene eterno, in quanto non teme più di morire. Ma quest’altro che si circonda di oggetti di lusso comperati dai mercanti, non ne trae alcun vantaggio se non ha creato nulla, anche se nutre il suo sguardo di cose perfette. Conosco quelle razze imbastardite che non scrivono più i loro poemi ma li leggono, che non coltivano più la loro terra ma si fondano anzitutto sugli schiavi. Contro di loro le sabbie del Sud preparano incessantemente nella loro miseria creatrice le tribù vive che saliranno alla conquista delle loro provviste morte. 
Non amo chi è sedentario nel cuore. Quelli che non offrono nulla non divengono nulla. 
La vita non servirà a maturarli, e il tempo per loro fluisce come una manciata di sabbia disperdendoli. 
Che cosa offrirò a Dio in loro nome?


Antoine de Saint Exupéry 
Tratto da: 'Cittadella',
Editore AGA, Cusano Milanino ©2017

© Tora Kan Dōjō




















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mercoledì 13 novembre 2019

Lo Sguardo che mi ri-guarda

Pubblichiamo un articolo che Sensei Taigō scrisse durante gli anni di Pratica presso il Monastero Fudenji che rende bene l'idea delle dinamiche educative nella relazione Maestro/Discepolo nello Zen

 

"Erano i primissimi tempi della mia pratica Zen e scrissi un articolo dal titolo 'Lo sguardo del Maestro', commentando lo sguardo che il mio Primo Maestro (Taiten Roshi) era solito gettare fuori della finestra della sala del Dharma al termine della cerimonia del mattino. 
Oggi, a distanza di anni, quello sguardo mi ri-guarda nuovamente. 
La mattina di Sabato 4 Dicembre, ultimo giorno della Rohatsu Sesshin(1) a Fudenji, durante un momento di incontro informale, il Maestro si rivolge a me, di fronte a tutti, e mi invita ad accompagnarlo nel pomeriggio al vicino palazzetto dello sport di Fidenza dove e' stato invitato a presenziare in qualità di ospite d’onore ad un torneo di Karate. 
'Andiamo alle 18' mi dice. Inizia il rush finale della Sesshin, le sedute di Zazen si moltiplicano sempre piu' ravvicinate. Siedo nel Dōjō, da molto tempo non sedevo più all’interno del Dōjō di Fudenji, l'atmosfera e' forte e il tempo si veste di infinito, perde i suoi contorni. Al termine dell'ennesimo periodo di Zazen, al quale seguirà la cena formale, il Maestro si alza dal suo seggio e nell'uscire dal Dōjō mi rivolge un rapido sguardo… 
esito, mi sembra presto per andare, forse era solo uno sguardo... 
Pochi minuti sono trascorsi da quando il Maestro ha varcato la soglia quando Marosa Myoko mi dice: 'ma non dovevi accompagnare il Maestro ?’, salto giù dal tan consapevole che il mio presentimento era corretto e che ancora una volta il calcolo ha soffocato l'intuizione. 
Corro alla stanza del Maestro, busso ma e' già partito, sotto la pioggia battente, indossando ancora il Kolomo. Non so cosa fare, guardo fuori: lo raggiungo? No decido di restare e continuare a sedere nella Sesshin. ‘Friggo’ sul mio zafu immaginando il Maestro da solo in una situazione in cui anche la forma lo vorrebbe accompagnato. 
Al suo rientro il Maestro non ci raggiunge nel Dōjō , non si unisce a noi per gli ultimi Zazen, confermandomi così il suo disappunto. 
Passata la mezzanotte(2) appare nel Dōjō per inaugurare l'ultimo Zazen, offre incenso, si prosterna fa Kentan(3) e ci invita a raggiungerlo per un Teisho(4) che sorprende tutti.  
Il Maestro apre l’inattesa lezione sottolineando l'accaduto: visto che colui che aveva invitato ad accompagnarlo non ha risposto al suo invito (che era nello sguardo) è andato da solo e poiché la sua auto non è partita è andato a piedi sotto la pioggia battente fino a Fidenza… 
Ancora una volta un gesto del Maestro mi insegnava più di mille spiegazioni. 
L’educazione Zen non passa che attraverso uno sguardo, un gesto, un profumo che deve divenire il nostro sguardo, il nostro profumo. 
Quante volte ogni giorno ignoriamo lo sguardo che ci ri-guarda? 
Quante volte nella nostra vita non abbiamo avuto fede ? 
Quante volte non riconosciamo quello che è esplicito di fronte ai nostri occhi, quello che ci è gridato nelle orecchie? E la vita trascorre tra occasioni mancate e richiami inascoltati. 
Cosa aspettiamo a lasciar cadere le nostre resistenze e i nostri calcoli ? 
Ad avere fede nella gratuità della vita e nel suo mistero che si rivela solo a chi è capace di riconoscere lo sguardo che lo ri-guarda."

Sensei Taigō




Note al Lavoro
(1): La Rohatsu Sesshin è la Sesshin intensiva in cui praticando Zazen per una settimana (sette giorni come un giorno solo) si celebra la ricorrenza del Risveglio di Buddha Shakyamuni.
(2): L’ultima notte della Rohatsu Sesshin si conclude con una veglia. 
(3): Kentan: il giro che il gyokoshi esegue in segno di saluto dietro ai praticanti seduti in Zazen nel Dojo. 
(4): Teisho: Insegnamento formale



© Tora Kan Dōjō






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