martedì 31 marzo 2020

C'è bisogno di equilibrio




«Tutto ciò che è troppo veloce non va bene,
ma anche ciò che è troppo lento non va bene.
C’è bisogno di equilibrio.
Ecco perché amo le Arti Marziali:
ti dicono sempre come controllare
il tuo corpo, la tua mente, il tuo cuore...
Equilibrio.
L’equilibrio può portare la pace nel mondo».


Jet Li

















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domenica 29 marzo 2020

Non scendere a compromessi




“Cerca di trovare la tua individualità, la tua integrità e prova a non scendere a compromessi. Più scendi a compromessi, meno sei un individuo.”

 I compromessi si fanno perché non si è sicuri della propria verità, della propria esperienza.
Una volta realmente fatta esperienza di qualcosa, non è più possibile scendere a compromessi.
Due donne si recarono alla corte del re perché entrambe dichiaravano di essere la madre di un bambino. Ognuna delle due insisteva che il piccolo fosse suo. Il re doveva prendere una decisione, e la cosa era difficile, in base a cosa decidere? Entrambi i mariti delle donne erano morti in guerra servendo il suo regno, e il bambino era tutto ciò che restava alla madre.
Alla fine il re girò la domanda al suo Maestro, che disse: “È molto semplice. Portatemi il bambino”. Quando il bambino fu davanti al Maestro, questi chiese al re di tagliarlo in due, e di darne una metà a ciascuna delle due donne. Il re fu scioccato a quella richiesta. “Cosa dici?” esclamò, ma prima che il re potesse aggiungere un’altra parola, il Maestro sguainò la spada, pronto a colpire. In quel momento, una delle due donne si precipitò ai piedi del Maestro e disse: “No! Date pure il bambino a quell’altra donna. È suo, non è mio!”. E il Maestro dette il bambino proprio alla donna che vi aveva rinunciato. Il re chiese: “Non capisco. Questa donna dice che il bambino non è suo”. Il Maestro rispose: “Solo la vera madre non avrebbe sopportato di veder tagliare il bambino in due. Per l’altra donna non è un problema, non è suo figlio. La prima donna non è pronta a scendere a compromessi: o il bambino intero o niente”.
Quando possiedi una verità diventi quasi come una madre, dai vita a un’esperienza: o la possiedi interamente oppure preferisci non averla per niente. Non sei disposto a vederla tagliata in due, perché qualsiasi esperienza viva, se tagliata in due, muore. Tutti i compromessi sono cosa morta.
Nell’intera storia dell’umanità, nessuno che abbia conosciuto anche solo uno sprazzo della Verità è mai sceso a compromessi; piuttosto era pronto a morire. È successo con al-Hillaj Mansur. Il suo insegnante, Junnaid, lo amava moltissimo e per anni cercò di persuaderlo: “Non dichiarare in pubblico: ‘Ana’l haq–Io sono dio’. Va bene farlo nella privacy della tua stanza, ma per strada… Lo sai che la gente è fanatica”. Ma al-Hillaj rispondeva: “Sei sceso a compromessi con la società. Sei un maestro rispettato, ma io non anelo alla rispettabilità, non nasconderò la mia Verità in cambio della rispettabilità. La Verità è come il fuoco; non può essere nascosta. Io la Verità devo gridarla a squarciagola”. E in un Paese musulmano–dove il fanatismo è la regola–fu immediatamente catturato e portato davanti al califfo perché: “Questo è contro la nostra religione; esiste un solo dio, ed è nei cieli. Tu sei semplicemente un mortale. Nemmeno Maometto ha detto: “Io sono dio”, ha asserito di essere soltanto il messaggero di dio. Sei forse ammattito? O la smetti o la tua punizione sarà la morte”. Al-Hillaj disse: “Accetto la morte, ma non posso scendere a compromessi su questo punto. La mia esperienza è il divino. E asserisco che anche tu sei il divino, ma dio in te è addormentato mentre in me è sveglio”. Junnaid si recò alla prigione per persuaderlo: “Questa situazione non ha senso. Sei un uomo meraviglioso e sei un giovane con un grande futuro; puoi diventare un grande Maestro. Io so che quello che dici è vero, ma non riesci proprio a fare un piccolo compromesso?”. Al-Hillaj disse: “Con tutto rispetto che ti porto, devo dire di no, tu non conosci ciò che io dico, ecco perché sei sceso a compromessi. Tu l’hai soltanto sentito; io l’ho visto, io lo sono. La morte non conta, ma scendere a compromessi è fuori discussione”. Il giorno in cui fu appeso a una croce, si radunarono migliaia di persone che, per manifestare la loro condanna, gli tiravano delle pietre. Anche Junnaid era presente; a quel punto aveva capito chiaramente di essere soltanto un sapiente mentre al-Hillaj aveva vissuto l’esperienza reale. Tutti tiravano pietre–non farlo era rischioso perché la gente avrebbe potuto pensare: “Allora quest’uomo è a favore di al-Hillaj”. Junnaid aveva portato una rosa per tirargliela; gli altri avrebbero visto che lanciava qualcosa, ma non avrebbero capito che si trattava di un fiore, nessuno avrebbe sospettato che non avesse tirato una pietra. Il compromesso di Junnaid agiva sia nei confronti della gente–il suo fingere di tirare una pietra–, sia verso al-Hillaj–questi sicuramente lo cercava fra la folla, voleva vedere se fosse venuto o no, e sarebbe stato da codardi non andare. Al-Hillaj sorrideva mentre le pietre fioccavano su di lui ferendolo, mentre il sangue sgorgava e inondava il suo corpo. Ma quando la rosa di Junnaid lo colpì, i suoi occhi si riempirono di lacrime e iniziò a piangere. Gli fu chiesto: “Cosa succede? Con tutte quelle pietre continuavi a sorridere, e ora qualcuno tira una rosa e i tuoi occhi si riempiono di lacrime…”. Al-Hillaj rispose: “La gente che tira le pietre non mi conosce, ma la persona che ha tirato la rosa mi conosce, conosce la mia Verità. Ma è un codardo, e io provo vergogna a essere stato un suo studente. Delle pietre non m’importa, ma quella rosa mi ha ferito profondamente”.
Se scendi a compromessi significa che ti senti su un terreno insicuro. Anziché fare compromessi, trova un terreno solido, trova la tua radice, la tua individualità, dei sentimenti sinceri e il sostegno del tuo cuore. Allora, qualunque siano le conseguenze, non avrà importanza.
L’uomo che è arrivato alla conoscenza sa perfettamente che niente può danneggiarlo. Lo puoi uccidere, ma non puoi fargli alcun male. E l’uomo che non è arrivato alla conoscenza, tremerà sempre, sarà sempre preoccupato. In quel tremore, in quella preoccupazione, in quell’agonia, continuerà a fare compromessi con tutti, unicamente per sentirsi al sicuro, per non essere ferito.
Cerca di trovare la tua individualità, la tua integrità e compi lo sforzo di non scendere a compromessi, perché più lo fai e meno sei un individuo; con i compromessi sei soltanto un ingranaggio della ruota, la piccola parte di un grande meccanismo, una minuscola parte della folla, ma non un individuo che vive a pieno diritto il proprio splendore.
Io sono del tutto contrario al fare compromessi. La morte è molto più bella di una vita di compromessi.

Osho Beyond Enlightenment, CAP. 23



















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giovedì 26 marzo 2020

Vi auguro di essere eretici




"Vi auguro di essere eretici.
Eresia viene dal greco e vuol dire scelta.
Eretico è la persona che sceglie e,
in questo senso è colui che più della verità ama la ricerca della verità.
E allora io ve lo auguro di cuore
questo coraggio dell’eresia.
Vi auguro l’eresia dei fatti
prima che delle parole,
l’eresia della coerenza, del coraggio,
della gratuità, della responsabilità
e dell’impegno.
Oggi è eretico
chi mette la propria libertà
al servizio degli altri.
Chi impegna la propria libertà
per chi ancora libero non è.
Eretico è chi non si accontenta
dei saperi di seconda mano,
chi studia, chi approfondisce,
chi si mette in gioco in quello che fa.
Eretico è chi si ribella
al sonno delle coscienze,
chi non si rassegna alle ingiustizie.
Chi non pensa che la povertà sia una fatalità.
Eretico è chi non cede alla tentazione del cinismo e dell’indifferenza.
Eretico è chi ha il coraggio
di avere più coraggio."

Luigi Ciotti

















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martedì 24 marzo 2020

La primavera dopo la primavera

"Capitano, il mozzo è preoccupato e molto agitato per la quarantena che ci hanno imposto al porto. Potete parlarci voi?"
"Cosa vi turba, ragazzo? Non avete abbastanza cibo? Non dormite abbastanza?"
"Non è questo, Capitano, non sopporto di non poter scendere a terra, di non poter abbracciare i miei cari".
"E se vi facessero scendere e foste contagioso, sopportereste la colpa di infettare qualcuno che non può reggere la malattia?"
"Non me lo perdonerei mai, anche se per me l'hanno inventata questa peste!"
"Può darsi, ma se così non fosse?"
"Ho capito quel che volete dire, ma mi sento privato della libertà, Capitano, mi hanno privato di qualcosa".
"E voi privatevi di ancor più cose, ragazzo".
"Mi prendete in giro?"
"Affatto... Se vi fate privare di qualcosa senza rispondere adeguatamente avete perso".
"Quindi, secondo voi, se mi tolgono qualcosa, per vincere devo togliermene altre da solo?"
"Certo. Io lo feci nella quarantena di sette anni fa".
"E di cosa vi privaste?"
"Dovevo attendere più di venti giorni sulla nave. Erano mesi che aspettavo di far porto e di godermi un po' di primavera a terra. Ci fu un'epidemia. A Port April ci vietarono di scendere. I primi giorni furono duri. Mi sentivo come voi. Poi iniziai a rispondere a quelle imposizioni non usando la logica. Sapevo che dopo ventuno giorni di un comportamento si crea un'abitudine, e invece di lamentarmi e crearne di terribili, iniziai a comportarmi in modo diverso da tutti gli altri. Prima iniziai a riflettere su chi, di privazioni, ne ha molte e per tutti i giorni della sua miserabile vita, per entrare nella giusta ottica, poi mi adoperai per vincere.
Cominciai con il cibo. Mi imposi di mangiare la metà di quanto mangiassi normalmente, poi iniziai a selezionare dei cibi più facilmente digeribili, che non sovraccaricassero il mio corpo. Passai a nutrirmi di cibi che, per tradizione, contribuivano a far stare l'uomo in salute.
Il passo successivo fu di unire a questo una depurazione di malsani pensieri, di averne sempre di più elevati e nobili. Mi imposi di leggere almeno una pagina al giorno di un libro su un argomento che non conoscevo. Mi imposi di fare esercizi fisici sul ponte all'alba. Un vecchio indiano mi aveva detto,anni prima, che il corpo si potenzia trattenendo il respiro. Mi imposi di fare delle profonde respirazioni ogni mattina. Credo che i miei polmoni non abbiano mai raggiunto una tale forza. La sera era l'ora delle preghiere, l'ora di ringraziare una qualche entità che tutto regola, per non avermi dato il destino di avere privazioni serie per tutta la mia vita.
Sempre l'indiano mi consigliò, anni prima, di prendere l'abitudine di immaginare della luce entrarmi dentro e rendermi più forte. Poteva funzionare anche per quei cari che mi erano lontani, e così, anche questa pratica, fece la comparsa in ogni giorno che passai sulla nave.
Invece di pensare a tutto ciò che non potevo fare, pensai a ciò che avrei fatto una volta sceso. Vedevo le scene ogni giorno, le vivevo intensamente e mi godevo l'attesa. Tutto ciò che si può avere subito non è mai interessante. L' attesa serve a sublimare il desiderio, a renderlo più potente.
Mi ero privato di cibi succulenti, di tante bottiglie di rum, di bestemmie ed imprecazioni da elencare davanti al resto dell'equipaggio. Mi ero privato di giocare a carte, di dormire molto, di oziare, di pensare solo a ciò di cui mi stavano privando".
"Come andò a finire, Capitano?"
"Acquisii tutte quelle abitudini nuove, ragazzo. Mi fecero scendere dopo molto più tempo del previsto".
"Vi privarono anche della primavera, ordunque?"
"Sì, quell'anno mi privarono della primavera, e di tante altre cose, ma io ero fiorito ugualmente, mi ero portato la primavera dentro, e nessuno avrebbe potuto rubarmela piu".
 


Alessandro Frezza





















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domenica 22 marzo 2020

Diventare come il vasto cielo



Un Maestro tibetano disegnò un giorno per i suoi studenti, sul bianco di una lavagna, il segno stilizzato di un piccolo uccello e chiese: «Cos’è?» Nacquero tante diverse risposte. Tutte decifravano il piccolo segno. In molti risposero: «Un uccello». E il Maestro, continuando a scuotere sorridendo la testa, rispose: «È un cielo vasto e in questo momento sta passando un uccello». Siamo cieli vasti e restare connessi alla vastità ci permette di vedere i fenomeni che ci attraversano, di riconoscerli, sentirli e guardarli svanire. E se c’è malinconia, nostalgia, disperazione nel vederli spuntare o nel vederli scomparire, sono altrettanti uccelli, uccelli disperati, malinconici, struggenti, e guardiamo anche loro, li sentiamo, li lasciamo sostare tutto il tempo che vogliono e poi li guardiamo volare via quando il loro tempo è venuto. Non è facile, si tratta di spiazzarsi, non essere più un centro, ma una grande periferia sconfinata, e veder sorgere e tramontare i fenomeni e accorgerci dell’amorevole sfondo che rimane e che non è di nessuno.


tratto da: Candiani, Chandra Livia
Il silenzio è cosa viva: L'arte della meditazione. Einaudi.




© Tora Kan Dōjō

















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