lunedì 3 marzo 2025

Sorella Povertà


 

Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento offerto da Taigô Sensei durante la Pratica Zen.

Mi viene in mente l’esempio del nostro fratello e Maestro Francesco d’Assisi.

Era estremamente radicale nel modo in cui ha voluto vivere imitando Gesù, era radicale, non facile né da comprendere né da seguire, non faceva sconti a nessuno; andando oltre l’immagine addomesticata che ci è stata trasmessa.

Francesco con la sua lieve, delicata presenza, era di un’energia spaventosa che scuoteva le radici della vita di chi lo incontrava, come succedeva a chi incontrava Cristo, o il Buddha.

Una delle cose sulle quali Francesco era totalmente radicale, e non scendeva a nessun compromesso, era la povertà. Sorella Povertà, che riteneva la condizione essenziale, la prima condizione per i compagni della comunità che si era riunita intorno a lui. Anche questa idea di povertà è stata addomesticata perché è spesso confusa soltanto con la rinuncia a beni materiali.

Nel momento in cui nella piazza di Assisi Francesco ha restituito al padre i suoi abiti ed i pochi soldi che aveva con se, si è interpretato ‘addomesticando’ questo potente gesto con una rinuncia ai beni materiali.
In realtà quel momento segnava l’Ordinazione di Francesco, non c’è stato bisogno di un’istituzione che gli riconoscesse con un diploma la sua Ordinazione.
Francesco si è ordinato il giorno in cui ha restituito gli abiti al padre … ed ha scelto la sua vita.

È lo stesso gesto che fa il monaco Zen quando viene ordinato prosternandosi di fronte alla stele che rappresenta la sua famiglia. Restituisce i suoi abiti ed indossa il Kesa. Questo  significa riscoprire il legame familiare con un’altra profondità, un altro registro, una maturità che non sia quella della dipendenza.

La povertà di Francesco non era il rinunciare a qualcosa con sacrificio, ma era la gioia di aver compreso che non si aveva bisogno di nulla, la gioia di aver tranciato gli attaccamenti che non poteva che esprimersi con una vita semplice, sobria.

Dante rappresenta la lupa di Francesco come l’immagine del pericolo che lui ha domato. I pericolo dell’inseguire l’attaccamento, l’avidità; il lupo che è dentro di noi ingordo ed avido di tutto, anche di amore, quell’amore che viene soffocato dall’avidità.
La scelta consapevole di non voler più accumulare per sé stessi ma vivere con un abito ed una ciotola.

Su questo Francesco era radicale; un giorno trovandosi a Bologna dove si era costituita una piccola comunità di frati che seguivano la sua “regola” andò a fargli visita e si accorse che questi frati avevano costruito un edificio in cui vivevano, in cui avevano anche ospitato malati e bisognosi … si adirò furiosamente, cacciò fuori tutti, compresi i malati. Intimò ai suoi frati di andare per il mondo: “non dovete fermarvi, dovete servire muovendovi senza avere una casa fissa”.

Pensate quanto questo sia vicino all’esempio del Buddha … non dovete fermarvi, esortava il Buddha i suoi discepoli. Ogni giorno dovevano essere in un luogo diverso ad elemosinare il pane quotidiano senza conservare nulla per il giorno dopo.
Francesco sapeva che il fermarsi, l’attaccarsi, avrebbe corrotto la vita e la pratica dei suoi monaci.

Vedete quante coincidenze con l’attualità della pratica religiosa … 

La povertà di Francesco era una scelta, scelta di vivere sobriamente sapendo che nulla manca, senza alcun bisogno di accumulare … d’altronde lui giocava a Cristo, imitava Cristo e Cristo lo aveva detto chiaramente: non c’è bisogno che vi affanniate, ogni giorno ha il suo affanno, ma guardate gli uccelli nel cielo come sono splendidamente rivestiti senza dover cucire, non gli manca nulla, perché pensate che a voi possa mancare qualcosa ?

Anche un povero può essere avido e affamato di desiderio, o rabbioso perché magari ha perso i suoi beni giocandoli a carte, ma questa non è la povertà di Francesco.

La povertà di Francesco e del Buddha è scoprire la propria pienezza ed esserne appagati e soddisfatti. E’ poter dare a pieni mani perché si è talmente ricchi che non si manca di nulla e si può offrire tutto agli altri. Ogni giorno svegliandosi, Francesco decideva quella vita.

Sawaki Roshi diceva: “Se voi anche per un momento siete capaci di rinunciare ad una bella casa o ad un cibo delizioso avrete offerto un grande dono a tutta l’umanità”. Pensate quanto attuali siano queste parole, quanto vere …

Ci troviamo oggi nella condizione di essere vicini all’annientamento della razza umana a causa della nostra avidità. È tutto lì. Tutti i problemi che viviamo, da quelli politici a quelli di vita quotidiana, derivano quasi esclusivamente dalla nostra avidità.

Anche se non arrivando alla scelta radicale di Francesco, diventiamo consapevoli di questo rivoluzionando un po’ la nostra vita come lo Zen suggerisce di fare, perché se noi non abbiamo capito questo dello Zen non ha nessun senso sedere in Zazen.
Se lo Zazen non è alla radice delle nostre scelte, se non ci fa diventare più sobri, più attenti a quello che tocchiamo, all’acqua con cui ci laviamo al mattino, agli abiti che indossiamo, non ha nessun senso sedere in Zazen e non abbiamo capito nulla dello Zazen.

Paradossalmente si può anche vivere una vita agiata e non essere avidi come si può essere privi di ogni mezzo di sostentamento e rimanere avidi. Dogen Zenji aveva una famiglia ricca e ha scelto di vivere una vita sobria, Francesco altrettanto, il Buddha era figlio di un Re…

Quindi noi possiamo cominciare ad essere più sobri, più attenti alla piccole cose; non una goccia d’acqua va sprecata, non un chicco di riso. Il modo in cui lavoriamo, in cui offriamo il nostro servizio nel lavoro, può essere improntato a questa consapevolezza. Questo è il valore della pratica religiosa in generale.


© Tora Kan Dōjō


















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sabato 8 febbraio 2025

La vera religione non addomestica gli uomini

 


L'educazione e la pratica religiosa non possono essere concepite solo con il "dare dei begli esempi, edificanti" imporre dei precetti morali.

Si deve insegnare il coraggio della responsabilità e della propria coscienza.

Oggi, 425 anni fa, veniva bruciato Giordano Bruno, un uomo di grande sapienza e spirito religioso che venne ucciso da chi ritenne che non stesse dando un bell'esempio.

L’8 Febbraio del 1600 Giordano Bruno, al cospetto dei Cardinali inquisitori e dei Consultori, è costretto ad ascoltare inginocchiato la sentenza di condanna a morte per rogo; si alza e ai giudici indirizza la storica frase: “Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam” (“Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla”) poi la sua bocca fu chiusa per sempre e dato alle fiamme.

L'uomo, per essere uomo, quando la sua coscienza glielo impone ha necessità di fare cose che possono essere considerate scandalose e di 'cattivo esempio' dal potere e dalla massa, al punto da mettere in gioco la sua stessa vita.

I veri religiosi sono sempre stati degli anarchici rivoluzionari, niente a che vedere con dei pretini consolatori e mestieranti (cattolici o buddhisti non fa differenza).

La religione e l'educazione che si limita a dire alle persone : 'state buoni' è solo uno strumento del potere (vedi storia della Chiesa Cattolica e in ambito Buddhista la storia della Sôtô shu...).

Se la religione e l'educazione si riducono a questo hanno mancato il loro scopo, sono andate in tut'altra direzione.

Anche le grandi trasformazioni sono dovute ad un risveglio della nostra coscienza. Le trasformazioni sociali etc... Non sono semplicemente fatti oggettivi. C'è una continuità tra la nostra coscienza e la realtà.

"...perchè è proprio nelle zone segrete della coscienza, attraverso l'oscura dialettica degli ideali e delle passioni, che si elabora (addirittura) il destino del mondo e le forze nuove che fanno crollare gli Imperi sono quelle stesse che ogni uomo affronta nelle tenebre del suo cuore complice."  Daniel Rops

Paolo Taigō Spongia


© Tora Kan Dōjō


















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giovedì 6 febbraio 2025

La Vita come Pratica

 

Il monaco responsabile della sveglia a Fudenji


Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento offerto da Taigô Sensei durante la Pratica Zen.

Nel ritmo tradizionale di un Dōjō Zen, che sia un tempio o meno, la giornata inizia con lo Zazen della notte. Lo Zazen della sera, prima del sonno, e lo Zazen dell’alba vanno considerati come una pratica ininterrotta, quindi anche durante il sonno stiamo praticando, anche durante il sonno continua Zazen.

Chi ha l’incarico la mattina di dare la sveglia ‘shin rei’, che si può tradurre con: ‘sollevare lo spirito’, si alza una ventina di minuti abbondanti prima degli altri, accende la candela nel Dōjō, offre l’acqua sull’altare, offre l’incenso nei bagni che i monaci per la rapida abluzione del mattino, offre l’incenso sull’altare del Dōjō, si prosterna, fa sanpai, e poi percorre tutti i locali del tempio correndo e scampanando con una campanella fino a tornare nel Dōjō e prosternarsi di nuovo all’altare. A quel punto suona il primo colpo di moppan.

I monaci appena sentono lo scampanellio della sveglia si alzano immediatamente senza un secondo di esitazione, ripiegano le loro coperte e le ripongono, si vestono rapidamente e vanno nei bagni. La rapida abluzione del mattino è solo una pratica purificatoria, si purificano i sensi, occhi, orecchie, bocca con l’acqua recitando delle strofe che ci ricordano che ogni nostra azione deve essere a beneficio di tutte le esistenze.

Si lavano gli occhi, per avere degli occhi lucidi, chiari, trasparenti per guardare il mondo con occhi limpidi e puliti perché supportino la Retta Visione. Si lavano i denti perché si sviluppi in noi ‘il dente-occhio della saggezza che recide ogni illusione’. Si sciacqua la bocca per avere una bocca pura che possa esprimere l’amore del Buddha nelle nostre parole. Si sciacquano le orecchie per essere disposti ad un ascolto profondo e puro…
Poi ci si reca immediatamente nel Dōjō, e si siede in Zazen.
Dal momento dello scampanellio della sveglia al trovarci seduti in Zazen sono passati circa 8/9 minuti.

Può sembrare uno stile un po' militare, ma è molto efficace a scuoterci dalle nostre illusioni, dalle nostre resistenze, perché ci toglie la possibilità di rimanere intrappolati nel pensiero e di esitare. L’esitazione è una malattia mortale che ci fa bruciare la nostra vita e perdere preziose e irripetibili occasioni.

La nostra Pratica non inizia dunque quando mettiamo i glutei sullo zafu, è iniziata la sera prima, quando ci organizziamo la giornata, i nostri impegni, per recarci al Dōjō, quando prepariamo i nostri abiti e andando indietro fino ad ancora prima della nascita dei nostri genitori, quindi non è una questione di sveglie che squillino o meno. Dobbiamo capire bene questo punto altrimenti la pratica Zen diventa uno dei tanti ritagli del nostro tempo e non ha nessun senso né efficacia.

Noi non abbiamo l’occasione durante la pratica ordinaria settimanale di vivere questo tipo di esperienza profondamente coinvolgente e in qualche modo disorientante rispetto le nostre abitudini che spesso sono troppo ‘accondiscendenti’ con noi stessi, quindi dobbiamo essere ancora più maturi per certi versi. Quando facciamo l’esperienza della Sesshin (il ritiro intensivo che coinvolge le 24 ore con la pratica per diversi giorni) siamo in qualche modo facilitati perché si tratta di scegliere, non di obbedire.

La Pratica deve essere una scelta matura, dev’essere decisione non una coazione a ripetere, si deve ripetere-rinnovando.

Ogni mattina che abbiamo la fortuna di svegliarci dobbiamo decidere come vogliamo vivere la nostra vita e non è mai una decisione presa una volta per tutte; per questo ogni mattino indossiamo il Kesa e recitiamo le strofe come il giorno che l’abbiamo indossato la prima volta. Per ricordarci che si riparte sempre da 0, dal Vuoto.

Ogni giorno indossiamo la vita per la prima volta e capite che se diventiamo consapevoli di questo il nostro risveglio ha tutto un altro significato. Non ha niente a che vedere con il doversi alzare svogliatamente per subire un’altra giornata.
Deve essere un’espressione di una scelta di totale libertà.


© Tora Kan Dōjō


















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