domenica 28 aprile 2019

L'Incontro col Maestro


Tempio Soji-ji 

Giunsi davanti al grande portale che sovrastava l’ingresso nella cinta del tempio. 
All’interno si scorgevano dei grandi pini, dietro i quali si ergeva l’edificio principale, immenso e imponente, la cui sommità si tuffava nelle nuvole. 
La pulizia perfetta che vi regnava contrastava con le strade polverose e sporche nei dintorni. Mi tolsi le scarpe all’entrata e chiesi che mi indicassero la via. 
Numerosi monaci con lunghe vesti nere attendevano i visitatori dietro un banco. Timidamente, chiesi loro di poter incontrare il Maestro Sawaki. 
Un giovane monaco silenzioso mi guidò subito attraverso lunghi corridoi fino alla stanza del godo(1). L’atmosfera era serena. Eravamo a metà autunno, dei passeri cinguettavano nel giardino tra gialli crisantemi. 

Kodo Sawaki Roshi
Mi annunciai. Sawaki, che mi aspettava, mi invitò subito, con la sua voce profonda, a entrare. Aprii la parete scorrevole e lo trovai nella postura di Zazen, immobile, calmo e forte, come un drago pronto a balzare. Rimasi a fissarlo, colmo di stupore. 
Non si mosse. 
Imbarazzato, mi annunciai un’altra volta. 
Non fece un movimento, non mi gettò neppure un’occhiata, ma con la stessa voce piena e forte, mi disse: 
<Aspetta! Majima mi ha annunciato la tua visita. 
Ero impaziente di vederti>. 
Finalmente, qualche istante dopo, si volse e mi scrutò dal fondo dei suoi occhi socchiusi, vivi e luminosi. 
Non riuscii a dir nulla, ma lo divoravo anch’io con lo sguardo. 
Aveva la stessa età che ho ora io. L’avevo spesso incontrato a Saga, ma fu soltanto allora che sentii con profonda intensità la comunicazione che si era stabilita tra noi, somigliante a quella descritta da Dogen nello Shobogenzo(2). 

Lasciata la postura, incrociò fermamente le braccia. Era saldo come una montagna, ma da lui emanava una sorta di dolcezza universale. 
Mi chiese notizie del mio lavoro. <Non va come vorrei> gli risposi. 
<Non sei forse troppo orgoglioso?> Le sue parole mi toccarono fin nel profondo. 
Aveva ragione. <Sì, mi sento un po’ come il gallo di Saga!> 
<Ah! Ricordi anche tu quella storia!> disse, scoppiando a ridere. <Ma sai, ho l’impressione che i galli non siano i soli a saltarmi sulla testa>. 
Ebbi l’impressione che l’osservazione fosse rivolta a me e improvvisamente non ebbi più voglia di parlargli di ciò che mi assillava. Mi invitò a fargli visita liberamente, e io accettai con gioia. Poi mi informò che di domenica organizzava una seduta di Zazen, alla quale mi propose di partecipare. <Ma non dimenticare che avrai male alle gambe!> 
<Oh, lo so, ho già fatto zazen all’Enkaku-ji, quand’ero uno studente. 
Un giorno, alla fine di una Sesshin, esasperato dai junko(3) che mi colpivano più del necessario, mi girai verso uno di loro e, strappandogli il kyosaku, gli restituii dei colpi della stessa forza di quelli che mi aveva assestato lui>.  
<Ma che selvaggio!> disse sorpreso. <Un ragazzo terribile come te deve essere stato ben difficile da educare. Ma non preoccuparti, sono io che do il kyosaku, non infierirò su di te. Invece sono estremamente severo riguardo alla postura>. 
<Mi piacerebbe molto che mi mostrasse come bisogna sedersi.> 
Subito il Maestro parve non aver sentito la mia richiesta, ma poco dopo prese uno zafu(4) che posò davanti a me. <Siediti, ti mostrerò>. 
Taisen Deshimaru Roshi
Incominciai a pentirmi della mia richiesta. Avevo l’impressione di sostenere un esame.
Teso e nervoso, non avevo altra scelta che sedermi come mi avevano insegnato all’Enkaku-ji. 
Mi esaminò brevemente e poi osservò: 
<La tua postura è corretta e piena di energia, ma la posizione delle mani è erronea. Devi mettere la destra nella palma sinistra e congiungere i pollici. Devi anche oscillare il bacino in avanti, raddrizzando poi perfettamente la colonna vertebrale>. 
<Capisco!>  
<Non si tratta di capire. Dovrai sederti così innumerevoli volte prima di arrivare naturalmente a questa postura. Scusami, ora devo andare a dirigere lo zazen. 
Per ingannare l’attesa ti lascio questi cachi. Sarò di ritorno tra un’ora o due>. 
Me ne sbucciò uno lui stesso, poi si diresse verso uno scaffale, ne trasse alcuni libri dalle rilegature antiche ai quali aggiunse un quaderno di appunti piuttosto sporco. 
<Credo che tu ami la lettura, ti farà bene leggere questi testi, piuttosto che i tuoi insulsi classici>. 
Per l’appunto avevo appena letto nel Takiguchi Nyudo: 
"La letteratura più conosciuta è quasi sempre noiosa, e spesso una messi indiretti e oscuri per trasmettere un messaggio molto semplice". 
< Durante la mia assenza, cerca  dunque di dare una scorsa a Le Arti Marziali e lo Zen che ho scritto non so più quando, e poi alla storia del mendicante Tosui, un eccentrico che si è fatto monaco alla fine della sua vita. E se ti rimane del tempo, puoi dare un’occhiata anche ai miei appunti sul quaderno>. 
Prima che mi lasciasse, gli chiesi se non potevo partecipare alla seduta di zazen. 
Rifiutò con fermezza, con il pretesto che avrei avuto male alle gambe e che non serviva avere fretta, il che, ovviamente, accrebbe ancor di più la mia voglia di provare. 
Mi ritrovai solo, perfettamente a mio agio in quella stanza in cui erano conservati tanti libri antichi sul Buddhismo. Ero stupito che un uomo in apparenza così modesto avesse letto tanto. Cominciai a tagliare il cachi che mi aveva così gentilmente sbucciato.  
Ma era tanto amaro, tanto aspro che subito le mie papille gustative mi parvero come contratte dal tetano. Mi chiesi se il Maestro non avesse voluto beffarsi di me. 
Ma, ripensando alla sua gentilezza, tentai con il secondo cachi. Mi parve un po’ meno aspro, ma forse la mia lingua si era abituata. Ne scelsi accuratamente un terzo, che sembrava maturo. Era davvero delizioso! 
A forza di cercare avevo trovato! 
Il quarto cachi mi sembrò almeno altrettanto buono. 
Poi rivolsi l’attenzione ai libri che il Maestro mi aveva lasciato e  incominciai con il suo quaderno di appunti. L’occhio mi cadde su alcune osservazioni che mi colpirono per la loro profondità e che cito a memoria: 

1- Rifletti e analizza i tuoi bisogni spirituali. Volgi l’attenzione alle richieste fondamentali e supreme dell’uomo. 
2- Lo Zen è una nuova via. 
3- Lo Zen ci permette di adattarci al nostro ambiente, ma non di esserne sommersi. 
4- Non dobbiamo farci dominare dalla nostra storia né dalla società in cui viviamo. Non dobbiamo in nessun caso tenerne conto. 
5- Lo Zen ci permette di andare fino in fondo alla nostra solitudine. L’uomo solo deve potersi conoscere fin nel più profondo di se stesso. 
Lo Shodoka(5) spiega tutto questo così bene: 
"Procede solamente chi marcia da solo. L’uomo viaggia solo. Un uomo sano non ha bisogno di niente. Colui che raggiunge il proprio io autentico avanza a grandi passi. Si sente Uno con l’Universo".

Mi sentivo in perfetta sintonia con tutte queste affermazioni. 
Lessi ancora:  
"Che cosa può dare all’uomo la più grande felicità? Forse la scienza, la filosofia, la ricchezza o l’amore? Certamente, l’uomo può trovare la felicità in molti modi. Ma la vera felicità, soltanto la religione può donarla. Essa sola allevia i dolori e calma le angosce. Coloro che bramano gi onori non saranno mai soddisfatti, neppure se raggiungeranno i più alti incarichi. Al contrario, colui che accetta di retrocedere senza rimpianto troverà la gioia nel soffio del vento. 
Alcuni pensano che, quando si ama, la religione non è più necessaria, ma tutto muta, niente mai si ferma. Ogni traccia scompare e nessuno è eterno. 
Sono questi mutamenti che determinano la nostra solitudine. 
Il nostro mondo relativo è infinito". 

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Note al Lavoro:
(1) Godo: Questo termine indica una delle sezioni della sala di meditazione di un tempio Zen, poi, per estensione, il monaco responsabile di quella sezione, che è un incaricato della disciplina del monastero.
(2) Shobogenzo:  L’Occhio e il Tesoro della Vera Legge, opera fondamentale di Dogen e uno dei libri sacri del Buddhismo Zen in Giappone.
(3) Junko: Monaco incaricato di sorvegliare che i partecipanti allo zazen mantengano la dovuta concentrazione.
(4) Zafu: Cuscino duro, sul quale ci si siede per la pratica dello zazen, Buddha si fece fare un cuscino di erbe secche.
(5) Shodoka: Ossia Canto dell’immediato Satori, del Maestro Yoka Daishi (649-713) che fu discepolo di Houei-neng, il sesto patriarca.
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Taisen Deshimaru Roshi
Tratto da "Autobiografia di un Monaco Zen"
Traduzione di Guido Alberti,
Ed. SE 



giovedì 25 aprile 2019

Etty Hillesum e la gratitudine


“Non sopravvalutare le tue forze interiori”, scrive Etty Hillesum in un passo del suo Diario (Adelphi, 2012). È la mattina del 10 marzo 1941. Il groviglio della sua anima, che non smette di interrogare, è groviglio che, al cuore, ha questo “sentirsi prescelta”, questo “dover diventare ‘qualcuno’” cui fa spesso ritorno. L’educazione spirituale passa, per la giovane ebrea che morirà ad Auschwitz, attraverso una profonda accettazione della propria “nullità”: io stessa, scrive, devo scomparire interamente, devo abbandonare il mio piccolo ego. La propria vita emotiva e intellettuale è messa in relazione con quella delle persone che, ai suoi occhi, appaiono “normali”; sa bene, tuttavia, che non le è dato comprendere nulla del mondo interiore di chi ha davanti. Del proprio, invece, conosce la bizzarra irrequietezza. “Perché devi saper fare qualcosa?” L’ambizione trattiene il suo dire, la vanità lo attorciglia.
Etty Hillesum non porta soluzioni, le pagine del diario mostrano invece il continuo guardare alla propria posizione: dove sono?, sembra chiedersi in ogni parola che scrive. C’è un passo, in Vite che non sono la mia, in cui Carrère scrive: “la malattia, il terrificante approssimarsi della morte, gli hanno insegnato chi era. Sapere chi siamo – Étienne più che altro direbbe: dove siamo – significa essere guariti dalla nevrosi”. 

Un groviglio occupa, in apparenza, poco spazio; dipanare la matassa significa cogliere l’immensa stratificazione che lo costituisce.

L’attenzione per la realtà pura, libera da pregiudizi e aspettative, e dunque il tempo della vita come tempo presente, appartengono a questa stessa necessità di fare a meno di pensieri che affaticano e confondono. Etty comprende che il continuo rimandare a domani risponde ad una logica che muove verso un ideale: iniziare “adesso” il proprio compito, muoversi “oggi”, non è dunque semplicemente un invito a godere l’attimo che fugge, ma, più precisamente, un invito a liberarsi da una prospettiva che ci voglia sempre in attesa dell’istante che ci troverà, finalmente, degni. 
Ecco perché “una vera maturazione non può tenere conto del tempo”; quel tempo che vogliamo disponibile, sembrano suggerire le pagine del Diario, quel tempo che è necessario impiegare, far fruttare, investire, mostra – nel momento stesso in cui ci troviamo a pensarlo in questo modo, transito per qualcosa di ulteriore – la trappola che non smette di farci prigionieri. Concedersi al fluire del mondo è stare nel suo ritmo come appartenenza al vivente, porsi in ascolto del suo accadere. Legge Rilke, Etty, e chissà se aveva nella mente l’animale dell’ottava elegia “puro come il suo sguardo sull’Aperto./ E dove noi vediam futuro lui vede invece il tutto,/ e in quel tutto se stesso e salvo sempre”. 
Le giornate devono iniziare rammendando calze, e sarà necessario, quando i buchi saranno finiti, crearne di nuovi. 

Le parole di Etty mettono in luce quanto il senso di inadeguatezza e la presunzione, imponenti blocchi di granito che la schiacciano, siano l’uno il rovescio e il complementare dell’altra. Autocommiserazione e compiacimento. C’è la sua grazia, il suo dono – la scrittura –, ma vi è pure quel non esserne sicura. Il processo che pagina dopo pagina la Hillesum compie sotto ai nostri occhi, e che dimostra che all’essere umano è dato di cambiare, non è, come inizialmente scrive e crede, dal lato dell’ordine e della disciplina. Credere che sia la tecnica a mancarle, ipotizzare che il talento di cui scrive non sia supportato da una disponibilità al sacrificio, e che questo sia il limite da combattere, significa restare dal lato di un più, di un ulteriore, di un aggiungere. Ostinazione e avidità. 

È necessario togliere, invece. Eliminare il ciarpame sempre presente.

Il dono deve accadere e la dolcezza appartiene a una logica del meno, di un vivere in perdita: nessuna risposta, nessun controbattere, nessuna battaglia, nessun nemico e nessun aggrapparsi. La forza deve farsi umile. Non si tratta di porgere l’altra guancia, si tratta, più radicalmente, di quel “disorientamento doloroso e al contempo interrogativo”, solo modo di porsi davanti all’odio così come davanti all’ambizione e alla spinta al possesso. Crollare violentemente sulle ginocchia, scrive Etty. E poi avere pace. “Sempre c’è mondo/ e mai quel nessundove senza negazioni/ puro, non sorvegliato, che si respira/ si sa infinito e non si brama”.

Vista del fiume Soła. Oświęcim, Polonia 2017 -
da 'Where water comes together with other water'
(2015-18) © gianfranco gallucci

Vi è in questo, io credo, un invito importante da accogliere, un invito che richiede quel lungo lavoro spirituale che Etty compie nelle pagine del proprio diario: si tratta di abbandonare l’ideale, in ogni sua forma. Una tra le due metà in lotta del proprio volto. 

L’abbandono dell’ideale porta a conseguenze che mettono in qualche modo di fronte a un radicale vuoto di senso, ma è solo grazie a questa tabula rasa, questa epoché, che diventa possibile accogliere qualcosa di più grande che poco tiene in conto la vita del singolo individuo se non per raccoglierlo in una logica del tutto; tutto che, nello stesso tempo, lo comprende e lo pervade: “volevo assoggettare la natura, vale a dire il tutto; volevo contenerlo. E il bello invece è – ed è davvero semplice – che adesso sono io a sentirmi assoggettata al tutto. Mi aggiro di qua e di là, invasa da questa profonda sensazione, ma essa non mi prosciuga più l’anima: al contrario: mi dà forza”. 

Il vuoto di senso è quello dell’intercambiabilità, della non onnipotenza: non più la strada orientata e la guerra da combattere, non più il “cuore nervoso”, ma una radicale accettazione dell’accadere. Abbandonare l’io significa prima di tutto abbandonarne la presunzione. Il paesaggio interiore potrà allora consistere di grandi, vaste pianure, quasi prive di orizzonte. 

Cambiare la propria posizione, guardare la parte che si ha nel disordine che si lamenta, è abitare una prospettiva che metta al centro l’insufficienza: non desiderare tutto, nemmeno se fosse possibile averlo. “’Che significa tutto questo, e la vita vale davvero la pena di essere vissuta? Sarebbe invece necessario vivere con pienezza, in modo che una simile domanda non abbia la benché minima possibilità di sorgere nel proprio io, e si dovrebbe traboccare di vita e di pace al tempo stesso”. “O tutto è casuale, o niente lo è. Se io credessi nella prima affermazione non potrei vivere, ma non sono ancora convinta della seconda”. Sente la sua mente offuscata, e tuttavia confrontarsi con il dolore dell’umanità – di nuovo arresti, terrore, campi di concentramento, sequestri di padri e sorelle – significa ospitarne ogni frammento. 
Si tratta di una resa? No.

Scrive Freud che profondamente religioso non è l’uomo che ceda al sentimento della piccolezza e dell’impotenza umana di fronte all’universo, ma l’uomo che sappia attraversarlo per procedere oltre, per cercare aiuto contro tale sentimento. Chi si rassegna alla parte insignificante è irreligioso nel più vero significato della parola. Ma non è questo l’invito di Etty. L’inermità radicale non è che punto di partenza, possibilità di appello all’Altro.
Chi abita la propria insufficienza è chi può, come scrive Lou Andreas Salomé, specchiarsi nelle acque del fiume non già per rimanere prigioniero della propria immagine, ma per guardarsi riflesso al di sotto del pezzetto di cielo. Racconta Lou che la perdita del proprio sentimento religioso aveva coinciso, in lei bambina, in un’impressione, avvertita davanti alla propria immagine allo specchio, di estrema espropriazione: improvvisamente si era ritrovata esclusa da quel cosmo – Dio al suo centro – che fino a quel momento l’aveva accolta e contenuta. Un adulto, continua, avrebbe piuttosto sentito disagio nel contrario, nella perdita di delimitazione del proprio io. Questo ci insegna il narcisismo teorizzato da Freud, suo maestro. E tuttavia vi è una possibilità ulteriore, una possibilità di ripensare Narciso, di mostrare che vi è qualcosa di più in quel mito, qualcosa che Freud non ha saputo vedere. Nella lettura della donna, infatti, non è possibile guardare Narciso senza tenere a mente lo stato di pienezza originario, l’esperienza fusionale con il materno. Lungi dall’essere qualcosa che condanna a una nostalgia irreparabile, questa esperienza di unità permette al soggetto – la donna soprattutto, attraversata da questa comunione originaria in maniera più radicale – di provare uno stato di armonia con il cosmo che resta come memoria di una meta da ritrovare attraverso l’espressione artistica, l’estasi. Andreas-Salomé parla di un Tutto, di una completezza che definisce narcisistica, ma tale narcisismo è precisamente una tensione che non inchioda il soggetto a sé, ma lo rende per sempre appartenente a una realtà vitale che lo supera e anticipa. Il giovane uomo non guarda la propria immagine in uno specchio artificiale ma nelle acque della natura, e dunque non è solo sé stesso quello che vede, ma sé stesso in quanto creato. Narciso è l’uomo che ha fatto esperienza di una totalità. Stasi, malinconia e, soprattutto, abbandono di padronanza. È una nuova possibilità, un narciso femminile, scrive Lou. 

“Che cosa hai tu, che tu non l’abbia ricevuto?”: sembra essere questo l’insegnamento di Etty in cui riecheggiano le riflessioni della psicoanalista. Non c’è logica di scambio. L’insufficienza, l’esistere come parte della Natura, si fa gratitudine e dunque motore. Rendere grazie non è movimento di chiusura che ha, come esito, la stasi, non è annullamento di un debito quanto piuttosto riconoscimento radicale della grazia dell’Altro, della sua differenza, della nostra stessa differenza in quanto sempre altro da noi. Gratitudine è rilancio, scommessa verso il futuro. Si tratta di raccogliere un’eredità d’amore, conoscere la provvisorietà della tenda e darsi all’esistenza come qualcosa che ci supera: è la comune appartenenza a renderci fratelli. L’esistenza universale, esistenza ferita, è occasione di legame. Non si dà posizione – dove sono? – se non in relazione all’altro. Soltanto in questa prospettiva diventa possibile quel dare non perché tu mi restituisca, ma perché tu dia ad altri.

È questo che ci insegna il mito di Filemone e Bauci, raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi. I due vecchietti, insieme sin dalla giovinezza, accolgono Giove e Mercurio nella loro povera casa, li accolgono nelle loro sembianze umane, di sperduti viandanti. La povertà in cui i due hanno vissuto rende loro possibile mettere in rapporto la propria condizione alla condizione dello straniero. Dividono ogni cosa, offrono il niente che hanno. Ed è l’ospitalità agli dei sotto mentite spoglie che permette il compiersi del prodigio: la casa si fa tempio e loro ne diventano i custodi. Zeus rivela così la sua identità. Un solo desiderio esprimono al potente dio: non sopravvivere l’uno alla morte dell’altro. Così, la metamorfosi: Filemone e Bauci diventano albero, pianta, mondo; fanno ritorno a quel Tutto che li ricomprende.

Etty Hillesum

Clicca qui per il link al testo originale

© Tora Kan Dōjō


lunedì 22 aprile 2019

La Vita è terribile e splendida insieme



La vita è piena di sofferenza, ma è anche piena  di meraviglie: l’azzurro del cielo, la luce del sole, lo sguardo di un bimbo.
Soffrire non basta, dobbiamo anche essere in contatto con le cose stupende della vita, dentro di noi e attorno a noi, ovunque, ad ogni istante.
Se non siamo felici, se non siamo in pace, non abbiamo pace e felicità da condividere con gli altri, nemmeno con coloro che amiamo, con le persone che vivono sotto il nostro stesso tetto.
Se siamo felici, se siamo in pace, possiamo sorridere e sbocciare come un fiore e la nostra famiglia e tutta la società trarranno beneficio dalla nostra pace. C’è bisogno di fare uno sforzo particolare per gioire della bellezza del cielo azzurro? Abbiamo bisogno di qualche pratica per goderne? No, semplicemente ne ricaviamo gioia.
Ogni minuto, ogni secondo della nostra vita possono essere così. Dovunque ci troviamo in qualunque momento, possiamo gioire della luce del sole, della compagnia degli altri, della sensazione del nostro respiro. Non abbiamo bisogno di andare in Cina per gioire del cielo azzurro, non dobbiamo viaggiare nel futuro per gioire del nostro respiro. Possiamo essere in contatto con tutto ciò, qui ed ora. 

Sarebbe un peccato limitare la consapevolezza solo alla sofferenza.
Siamo così occupati, che troviamo a fatica il tempo di guardare noi stessi e le persone che amiamo anche quando siamo a casa. La società è strutturata in modo che, anche quando disponiamo di tempo libero, non sappiamo come impiegarlo per ristabilire il contatto con noi stessi. Abbiamo milioni di modi per sprecare questo tempo prezioso: accendere il televisore, sollevare la cornetta del telefono, salire in macchina per andare chissà dove.
Non siamo abituati a stare con noi e ci comportiamo come se non ci piacessimo, come se volessimo sfuggirci.
Meditazione significa essere consapevoli di quello che sta accadendo nel nostro corpo, nelle sensazioni, nella mente, e nel mondo. Ogni giorno muoiono di fame quarantamila bambini. Le superpotenze dispongono di oltre cinquantamila testate nucleari, abbastanza per distruggere l’intero pianeta, e non una volta sola. 

Eppure, il sole che sorge è splendido e la rosa sbocciata stamattina sul muro è un miracolo... 
La vita è terribile e splendida insieme. Meditare è entrare in contatto con tutti e due gli aspetti. Non pensate che occorra assumere un atteggiamento solenne: quello che invece ci serve è sorridere molto.
Una volta facevo meditazione con un gruppo di bambini. Ce n’era uno che si chiamava Tim e che sorrideva meravigliosamente.
“Tim” gli dissi, “hai un sorriso meraviglioso”.
“Grazie”, rispose. Ed io: “Non devi ringraziarmi, sono io che devo ringraziare te. Con il tuo sorriso rendi la vita più bella. Invece di dire ‘Grazie’, dovresti dire ‘Prego’.
Il sorriso di un bambino, il sorriso di un adulto, sono cose molto importanti. Se nella vita quotidiana riusciamo a sorridere, se sappiamo essere in pace e felici, non solo noi, ma tutti quanti ne avranno beneficio. Se chi sorride sapesse che sta rendendo felice un altro, potrebbe dire davvero: ‘Prego’.


Thich Nhat Hanh
Tratto da "L'Energia della Preghiera"  

© Tora Kan Dōjō




sabato 20 aprile 2019

Un Roshi





Pubblichiamo lo scritto che un’allieva di Shunryu Suzuki Roshi ha dedicato al suo Maestro.

Nonostante l'ingenuità con cui è rappresentata la figura del Roshi (che altro non significa che 'prete anziano' in Giappone ma che l'autrice utilizza come l'equivalente di Maestro) l'immagine che ne deriva da l'idea dell'impatto che si ha incontrando un uomo della Via, un Maestro Zen che incarna i principi della Pratica.
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Un Roshi è una persona che ha realizzato quella perfetta libertà che costituisce la potenzialità di tutti gli esseri umani.
Egli vive libero nella pienezza di tutto il suo essere, il flusso della sua coscienza non
è fatto di strutture fisse e ripetitive come la nostra consueta coscienza egocentrica, ma sorge anzi spontaneo e naturale dalle effettive circostanze del presente.
Tutto ciò comporta una vita dalle caratteristiche straordinarie: capacità di rimanere sempre a galla con le proprie risorse, vigore, spontaneità, semplicità, umiltà, serenità, allegria, incredibile perspicacia e incommensurabile compassione.
Il suo intero essere attesta che cosa significhi vivere nel presente.
Anche senza che si dica o faccia nulla, l'impatto puro e semplice dell'incontro con una personalità così evoluta può essere sufficiente perché cambi l'intero sistema di vita di
un'altra persona.
Ma in definitiva non è la straordinarietà del maestro a creare nello studente perplessità, curiosità e profondità, anzi è proprio la sua totale ordinarietà.
Siccome egli è semplicemente se stesso, funge da specchio per i suoi studenti.
Quando stiamo con lui, avvertiamo nitidamente le nostre forze e le nostre debolezze senza alcun senso di approvazione o di critica da parte sua.
In sua presenza vediamo la nostra faccia originaria, e ciò che vediamo come una cosa tanto straordinaria non è altro che la nostra vera natura.
Quando impariamo a lasciar libera la nostra intima natura, i confini tra maestro e discepolo scompaiono in un profondo flusso di essere e di gioia al dischiudersi della mente di Buddha"

Trudi Dixon
Kyoto 1970

Tratto da ‘Mente Zen Mente di Principiante’ ed. Ubaldini

© Tora Kan Dōjō




mercoledì 17 aprile 2019

Vivere senza fuggire




Indubbiamente una vita senza il divino è incompleta. Per questo hai questa sensazione di incompletezza. Tuttavia, questa consapevolezza del vuoto, questo renderti conto di quanto la vita sia incompleta, è una cosa positiva, perché da questa realizzazione e per causa sua… Athato brahman jigyasa: adesso ha inizio la ricerca del Trascendente. È sufficiente che eviti di sfuggire quel senso di vuoto, che non scappi dalla comprensione che hai avuto; perché la mente ti suggerirà di scappare, e la fuga è rappresentata dal mondo. Il mondo è una fuga, il mondo con tutti i suoi trambusti non è altro che una fuga: è un modo futile di riempire quel vuoto. Da quella fuga non nascerà altro che angoscia. Il divino è ciò che occorre; purtroppo, noi riempiamo quel vuoto con oggetti. La religiosità è necessaria, ma noi riempiamo quel vuoto con il denaro. Ciò che serve è il Sé, mentre noi ci riempiamo di altre persone. In questo modo si accumula di tutto e di più e non si consegue nulla: il senso di vuoto diventa sempre più opprimente. Questi momenti sono preziosi, perché sono i momenti in cui si sceglie e si decide. Puoi scegliere di fuggire o di non farlo. Se scegli di fuggire, otterrai lo stesso risultato di sempre: vita dopo vita, il risultato è stato sempre lo stesso. Smetti ora, non scegliere la fuga, non sfuggire al senso di vuoto; al contrario, assestati in quel vuoto. Non cercare di riempirlo, al contrario, permetti al vuoto di riempirti completamente. A quel punto, accadrà la trasformazione chiamata sannyas: una comprensione del Vero. E giungerai al punto in cui tutto quel vuoto si dissolverà. Ma ricorda: tutto questo non accade a livello intellettuale. Non pensare, conoscilo ora, fanne esperienza adesso. Non hai forse già pensato e ponderato abbastanza?

Osho
Da ‘Lettere d’Amore all’Esistenza’





mercoledì 10 aprile 2019

Non più in me, ma in ogni cosa


"E l'aria è nuova.

E tutto, attimo per attimo, è com'è, che s'avviva per apparire. 

Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. 

Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. 

Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.

La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. 

Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, 

che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, 

in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridio delle rondini o nel vento nuvoloso,

pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensare alla morte, pregare. 

C'è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. 

Io non l'ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi:

vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa."

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila



© Tora Kan Dōjō



domenica 7 aprile 2019

Il Maestro di dattilografia

L'articolo che segue, di Sensei Tetsuji Nakamura, è tratto dall'International Newsletter Iogkf dell'inverno 2003 e  pubblicato in Italia sul giornalino Tora Kan Dojo anno 9 n. 30 (numero invernale del 2003 traduzione a cura di D.Di Perna). Risale al 1997, anno in cui Sensei Nakamura si trasferì in Canada, all'età di 32 anni. 
Oggi come allora siamo in attesa di Sensei Nakamura per il Gasshuku invernale, non mancate!

Questo è l’articolo che ho scritto per gli studenti canadesi quando mi sono trasferito in Canada nel 1997. Lo scopo dell’articolo è quello d’introdurre una idea generale sul significato dell’insegnamento del karate tradizionale agli studenti nord americani che hanno un background culturale diverso rispetto a quello degli studenti giapponesi. L’argomento principale dell’articolo “Il maestro di dattilografia” è un confronto fra il karate tradizionale ed il karate sportivo moderno. Nella storia, Paul ha seguito la sua strada personale, mentre Jamie ha scelto un percorso più tradizionale. Cos’è che rende qualcosa tradizionale, da dove deriva ed attraverso quali mezzi? Il metodo dattilografico seguito da Jamie non è stato progettato dalla sua insegnante. Il sistema da lui studiato era il risultato di numerosi anni di ricerca e le esperienze di numerose persone. Le arti marziali hanno un passato che va indietro fino all’inizio della storia scritta. Come esseri umani, noi possediamo sia la storia sia la cultura che è passata da una generazione all’altra attraverso vari mezzi. Lo studio delle esperienze passate ci permette di vivere e di migliorare su aspetti differenti delle nostre vite. Tutto quello che utilizziamo oggi nelle nostre vite è stato costruito sulla crescita incrementale e sulle esperienze dei nostri avi. Le nostre esperienze e le nostre idee individuali sono estremamente limitate se le confrontiamo alla vasta conoscenza collettiva dei nostri predecessori. Noi, comunque, abbiamo il vantaggio di evitare gli errori del passato e di migliorare su tutti gli aspetti attraverso lo studio delle culture passate. Ad esempio: se desideri diventare un grande matematico, devi studiare le scoperte di coloro che ti hanno preceduto. Se non hai nessuna conoscenza della matematica, devi cominciare attraverso la scoperta e la verifica di concetti base come 1 + 1 = 2. Senza avere la padronanza della conoscenza fondamentale di 1 + 1 = 2, la grandezza non è possibile, poiché tutti gli sforzi saranno dedicati alla scoperta delle conoscenze di base. Utilizzando il sapere dei nostri predecessori ed ‘addestrando’ ripetutamente le basi, possiamo costruire delle solide fondamenta per il nostro personale sviluppo nel karate. Lo stesso accade con la musica, Miles Davis, John Coltrane e Chet Baker, i più grandi suonatori di tromba, tutti hanno dedicato il loro tempo di pratica a ripetere le scale. Al di là di questo, c’è il modo in cui studiare, passo dopo passo. Come esseri umani, con una cultura ed una storia, tutto quello che noi sviluppiamo deriverà dallo studio delle esperienze precedenti. Il lato sfortunato di quello che noi pratichiamo è che la maggior parte delle scuole di karate hanno perso il loro metodo tradizionale, che è stato sviluppato da seri maestri attraverso molte generazioni. La nostra organizzazione, una delle rare eccezioni, ha conservato la ricerca e le idee dei grandi maestri del nostro passato. Questo è dovuto fondamentalmente alla volontà di ferro di An'ichi Miyagi Sensei e Morio Higaonna Sensei, entrambi decisi a proteggere la nostra eredità per le prossime generazioni.
Vorrei sfiorare l’argomento ‘come studiare il karate tradizionale’. Ci sono diversi punti importanti, che sostengono la vostra ricerca:
1. Perché l’insegnante ha detto a Jamie di non provare delle nuove cose da solo, poi un anno dopo lei gli ha detto d’iniziare a praticare sulle lettere da solo? Perché lei ha detto NO la prima volta ed in seguito ha detto SI?
2. Perché Paul è progredito così velocemente da solo e poi ad un certo punto il suo progresso si è arrestato?
3. Perché l’insegnante ha negato a Jamie la possibilità di ascoltare la musica, che invece avrebbe potuto aiutarlo a rilassarsi?
4. Perché non è di nessun beneficio chiedere all’insegnante “perché”?
Sensei Nakamura durante un incontro di Iri Kumi Go

C’erano una volta due amici che erano fortemente competitivi. Tutto quello che facevano insieme diventava una competizione. Paul era un atleta di natura, con un’eccellente agilità e controllo muscolare. Jamie aveva i riflessi lenti e perdeva sempre tutte le competizioni contro Paul.
Un giorno decisero di cominciare a dattilografare, per migliorare le loro abilità con la tastiera. Speravano che questo li avrebbe portati entrambi ad ottenere una promozione nel loro lavoro di inserimento dati. Discussero la questione e Paul arrivò alla conclusione che lui avrebbe migliorato di più la sua abilità di digitare studiando da solo. Jamie chiese ai suoi amici se conoscevano un buon insegnate di dattilografia. Uno dei suoi amici gli disse di una vecchia signora che aveva la reputazione di essere una eccellente insegnante, anche se un po' eccentrica e molto rigida. Jamie decise che questa volta avrebbe battuto Paul, non importava quello che gli sarebbe costato. Cercò la vecchia signora. Quando le chiese di insegnargli, la vecchia signora rispose “Il mio metodo d’insegnamento non è semplice, t’insegnerò, ma tu devi seguire le mie istruzioni esattamente e senza fare domande.” Jamie non sapeva bene cosa intendesse, ma fu d’accordo con le sue condizioni.
Durante la prima lezione a Jamie fu mostrato come sedere correttamente sulla sedia e come posizionare le mani sulla tastiera – questo fu tutto. La vecchia signora disse, “tieni la schiena dritta, non farle toccare la sedia e rilassa le spalle” “i palmi delle mani non devono toccare la tastiera”. Alla fine della prima lezione lo ammonì di praticare solo quello che gli aveva mostrato e di non provare nuove cose da solo.
Il giorno successivo la vecchia signora mostrò a Jamie come digitare otto lettere, usando le quattro dita di ogni mano. Le lezioni dell’intera settimana consistettero solo nel digitare queste otto lettere – e continuare a ripetere. Lo ammoniva, “Concentrati sulla punta del dito che sta premendo il singolo tasto”. Ogni volta che la postura di Jamie cambiava, lei lo colpiva sulle nocche con il righello che teneva sempre in mano. Ogni settimana insegnava a Jamie alcune lettere in più; ogni volta lo correggeva con dolorosi ammonimenti provenienti dal righello.
Un giorno Jamie chiese alla sua insegnante se poteva ascoltare la musica durante la pratica. La vecchia signora rispose “No. Durante la pratica, non ascoltare musica, non sgranocchiare cibo, non fare niente altro che non sia concentrarti sul tuo allenamento”.
Paul, avendo cominciato il suo nuovo impegno da solo, si sedette di fronte alla macchina da scrivere e cominciò a digitare utilizzando solo gli indici, affidandosi come guida alla sua naturale destrezza manuale e al buon coordinamento degli occhi con le mani. Lavorava ogni giorno per migliorare la velocità e la struttura delle frasi.
Alla fine del mese i due amici si incontrarono per confrontare e testare le loro abilità. Paul batté facilmente Jamie. Paul, dopo un mese di pratica, era diventato molto veloce ad usare gli indici, Jamie dall’altra parte aveva praticato solo le nozioni di base e la sua velocità non era migliorata.
Trascorsero sei mesi, ogni volta che i due si affrontavano, Paul batteva facilmente Jamie, che in questo momento stava solo praticando le basi ed era progredito fino ad arrivare a scrivere solo poche parole. La sua insegnante gli faceva sempre ridigitare la stessa frase. Ogni volta che faceva un errore o comprometteva la sua postura la vecchia lo colpiva sulle nocche con il righello.
Le abilità dattilografiche di Paul progredivano notevolmente, adesso sapeva digitare alla stessa velocità di qualsiasi altro impiegato del suo ufficio. Jamie stava diventando piuttosto frustrato e alla fine chiese a Paul quale fosse il suo segreto. Paul spiegò “Ciò che faccio ogni volta che pratico, è digitare varie lettere così da abituarmi ai diversi tipi di documenti e lettere con le quali abbiamo a che fare ogni giorno al lavoro”. Jamie ne aveva abbastanza! Disse alla sua insegnante che voleva praticare allo stesso modo di Paul o non sarebbe mai migliorato nel suo lavoro. La vecchia signora replicò severamente, “No! Ciò di cui hai bisogno adesso è pazientare e seguire le mie istruzioni. Non farmi domande, fallo e basta!” Jamie era confuso e si sentiva battuto, ma qualcosa in lui gli fece seguire quelle istruzioni. Erano trascorsi altri sei mesi, Paul praticava molto duramente, aveva sviluppato il suo stile attraverso il suo personale metodo di pratica.
Jamie a questo punto dattilografava al livello medio dei suoi colleghi d’ufficio.
Trascorso un anno dal momento in cui i due avevano cominciato, si rese disponibile un posto nel loro ufficio per il quale sarebbe stata indetta una competizione professionale di inserimento dati. Entrambi parteciparono alla competizione. Paul era incredibilmente veloce con la sua insolita tecnica che utilizzava un solo dito, tutti erano meravigliati dalla sua strana abilità. Vinse la competizione e si guadagnò un buon aumento di salario.
Jamie adesso era oltre ogni frustrazione, chiese ancora alla sua insegnane sul perché loro non indirizzavano le sue abilità di data entry, e ripetevano all’infinito esercizi che intorpidivano solo la mente senza che si potesse notare alcun miglioramento. Questa volta l’insegnante non rispose. Si sedette alla scrivania ed accese la radio alla stazione con le notizie. Iniziò a dattilografare. Il modo in cui scriveva era meraviglioso, i suoi movimenti sembravano quelli di un pianista ad un concerto piuttosto che quelli di un dattilografo. La sua postura era perfetta, i movimenti delle sue dita dolci e aggraziati sembravano completamente privi di qualsiasi sforzo. Alcuni minuti dopo tolse il foglio dalla macchina da scrivere e porse la pagina a Jamie.
Sul foglio c’erano tutte le parole che il radiocronista aveva detto dal momento in cui la radio era stata accesa, senza nemmeno un errore. Jamie rimase molto impressionato e decise da quel momento di seguire le istruzioni della sua insegnante senza porre più nessuna domanda. Jamie continuò la sua pratica sotto la tutela della ‘donna drago’, e continuò a perdere contro Paul ad ogni competizione che venisse indetta, amichevole o professionale – ma non se ne preoccupava più, cominciò ad apprezzare il suo regime di dattilografia. Gradualmente la vecchia signora cominciò a dargli lettere e documenti, gli diceva “scrivi con il cuore”, “devi sentire la macchina da scrivere come una parte del tuo corpo”, gli disse “puoi cominciare a scrivere delle lettere da solo”.
Erano trascorsi due anni, la macchina da scrivere era diventata una estensione del suo corpo, adesso era in grado di scrivere i dialoghi del più veloce cronista della TV senza quasi ascoltare, solo rilassandosi e mettendo le mani sulla tastiera. Adesso poteva comprendere il metodo di pratica della vecchia signora.
Finalmente, un giorno, dopo tre anni, Jamie batté Paul per un lavoro in una competizione d’ufficio e non perse mai più da quel momento in poi, infatti Paul non era in grado nemmeno di avvicinarsi alla nuova abilità di Jamie, avendo già da tempo raggiunto una stabilizzazione nella sua abilità di dattiloscrittura. Paul cominciò a praticare ancora più duramente di prima ma trovò impossibile migliorare il suo livello di abilità. Jamie scalò velocemente i gradini dell’infrastruttura della sua società e diventò un direttore di dipartimento, controllava 20 impiegati che inserivano dati.
La sua insegnante di dattilografia gli disse “Non c’è più niente che io possa insegnarti ora, sei libero di andare”. Jamie ringraziò a lungo la vecchia signora e continuò a praticare nel modo che gli era stato insegnato ed anche più duramente.
Il Vice Presidente della DATA ENTRY R US, la corporazione multinazionale per la quale Jamie e Paul lavoravano, riconobbe gli sforzi di Jamie e le sue avanzate abilità, così lo assegnò alla posizione di Coordinatore Regionale per il Training e le Risorse per il Canada dell’est. La nuova posizione di Jamie includeva il controllo del training che facevano i nuovi impiegati per l’inserimento dati. Un giorno un impiegato molto giovane lo avvicinò e gli chiese se lo poteva aiutare personalmente con le sue abilità di data entry. Jamie rispose, “Il mio metodo d’insegnamento non è facile, t’insegnerò, ma se vuoi veramente imparare devi seguire le mie istruzioni esattamente e senza fare domande”.


© Tora Kan Dōjō




















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