“Lasciare qualcosa,
soprattutto l'intenzione di lasciare qualcosa, già ha contaminato quel che
poteva esser lasciato.
Povero illuso chi pensa che la sua mano 'cambi qualcosa che prima era
qualcos'altro'...
illuso ed arrogante.
Se penserai che è la 'tua' mano che cambia qualcosa allora avrai solo agito con
violenza ed arroganza.
Il momento in cui non è più la 'tua' mano a 'creare', 'toccare'... allora sarà
la mano dell'Universo intero a creare tramite te.
Allora anche tosare un prato e tagliare fieno diventa un'opera d'arte e non è
meno importante nell'economia del cosmo di chi scrive un libro o erige un
palazzo, anche se nessuno potrà mostrare apprezzamento.”
Pubblichiamo un
estratto da una lezione tenuta da Sensei Paolo Taigō Spongia presso il Tora Kan
Dōjō durante la Pratica Zen. Le lezioni hanno un carattere colloquiale del
quale tener conto durante la lettura.
Sono molto felice di vedervi tutti presenti nel Dōjō
questa mattina all'alba è una cosa molto importante, per tutti noi.
La tendenza oggi è quella di promuovere uno Zen
solitario, fai da te, che si può vendere on-line, ma in realtà l’essenza della
Pratica Zen non può essere trovata al di fuori della condivisione.
Non esiste uno “Zen fai da te”, non esiste
un’esperienza Zen che si può vivere in modo egoistico e solitario, una sorta di
‘autoerotismo spirituale’ come l’aveva definito Papa Ratzinger.
Bisogna stringersi gli uni agli altri, contaminarsi
con gli altri.
Bisogna uscire dal proprio isolamento, dal proprio essere autoreferenziali, dal
proprio egoismo, dall’arroganza del pensiero che si può bastare a sé stessi.
A tutti noi piace pensare che questi difetti non ci
appartengano, ma quando entriamo nel Dōjō ci accorgiamo immediatamente di
quanto siamo rozzi, presuntuosi, pieni di pregiudizi, di rigidità e
condizionamenti… e prendere coscienza di questo è veramente il primo passo
sulla Via, il primo passo della Pratica.
E’ una constatazione
dolorosa di fronte alla quale si è portati a reagire con la fuga.
Pasto formale ad Eiheiji
Non sono molti quelli che hanno il coraggio e la
determinazione sufficienti per rimanere di fronte all’immagine
del loro vero volto che nel Dōjō si riflette in ogni oggetto che
utilizziamo, in ogni sguardo o gesto dei compagni di pratica, in ogni
esortazione dell’insegnante.
Non fuggire e accettare di restare di fronte all’immagine riflessa di noi
stessi è l’unico vero modo per conoscersi davvero, profondamente, e per
scoprire che ci sono offerte altre possibilità, altre prospettive, al di là dei
condizionamenti e della paura che ci hanno guidato fino ad oggi.
La condivisione è fondamentale. E’ respirare
insieme, prenderci cura insieme del luogo che ci ospita, mangiare insieme,
esprimere parole di gratitudine recitando Sutra insieme, si tratta di un
nutrimento fondamentale per lo spirito.
Penso che in ogni pratica cosiddetta religiosa o
spirituale sia assolutamente necessaria la condivisione; diffidate di chi
promuove una pratica solitaria e autoreferenziale, di chi vuole
convincervi che potete praticare lo Zen isolandovi ‘comodamente’ nelle vostre
abitudini e rassicuranti certezze.
Allo stesso tempo questa esigenza primaria di
condivisione richiede una grande capacità critica, perché come ho tante volte
ripetuto, il riunirsi può anche diventare un modo per confortarsi a vicenda rinforzando
le proprie illusioni invece di essere occasione di liberazione, è facile
riunirsi solo in cerca di un conforto momentaneo, di conferme ai propri
pregiudizi e questo è molto pericoloso.
Conduce nella direzione diametralmente opposta alla
Liberazione verso la quale ci guida il Dharma di Buddha.
Si trasforma in quella follia o stupidità di gruppo dalla quale mette
continuamente in guarda Sawaki Roshi e che fa gioco alle cosiddette ‘guide
spirituali’ poco oneste e in cerca di autoaffermazione.
La vera esperienza religiosa, la vera Pratica,
inizia nel momento in cui sentiamo la necessità impellente di condividere e di
offrire ad altri quello che stiamo ricevendo, la necessità di condividere la
nostra pienezza. Non può essere soltanto una ricerca di conforto e di sostegno
personale come compensazione di una mancanza, se si riduce a questo non si
tratta di una Pratica religiosa e spirituale, è qualcos’altro.
Sedere insieme in silenzio, muoversi in sintonia,
respirare insieme avendo cura di sostenere gli altri senza essere di disturbo,
l’incoraggiare gli altri senza essere invadenti, sviluppa una sensibilità e una
delicatezza d’animo che sono molto rari oggi, molto preziosi proprio perché
rari.
Il Dōjō è un luogo in cui ci si ri-educa ad una
sensibilità e consapevolezza profonda.
Assumere responsabilità nel Dōjō , prendersi cura
degli altri con attenzione, concentrazione, sicurezza; questo tipo di approccio
alla Pratica, alla vita del Dōjō, trasforma la nostra vita… non può essere
altrimenti.
E dev’essere un ritrovarsi
gioioso ad ogni occasione di Pratica.
Samu (lavoro manuale) Monastero Zen Fudenji,1999
Per quanto la Pratica possa essere in alcune
occasioni severa, rigorosa, anche dura, ci deve essere un fondo di entusiasmo
gioioso quando ci si incontra per praticare.
Si deve incontrare una comunità di buoni amici, di fratelli, che condividono un
cammino comune, entusiasticamente e gioiosamente condiviso.
Come i primi frati-amici
che si riunirono attorno a Francesco d’Assisi nel ricostruire mattone su
mattone la chiesetta diroccata.
Cantando, scherzando, elemosinando pietre, condividevano tutto mentre
lavoravano duramente per ricostruire la Porziuncola e con essa ricostruire sé
stessi.
Quando ci dedichiamo ad
essi sinceramente, senza riserve,
il Kata ci insegna ad essere soddisfatti con la realtà di Heijo Shin (mente normale) di Mike Chodo Cross
traduzione di Paolo Taigō Spongia
Questo articolo è stato
pubblicato anni fa sulla rivista ‘Fighting Arts International’ a firma Mike
Cross. E’ interessante sapere che questo autore in seguito, continuando la sua
Pratica Zen con il suo insegnante Gudo Nishijima Roshi, ha contribuito
all’importante traduzione e commento in Inglese della preziosa opera di Dogen
Zenji lo ‘Shobogenzo’ pubblicata dalla Windbell.
I tre volumi della traduzione
sono firmati Gudo Nishijima e Chodo Cross.
In un freddo sabato
notte agli inizi del 1986 un'affollato treno delle sei partito da Ikebukuru
procedeva nella pianura del Kanto, attraverso i sobborghi della grande Tokyo,
verso le montagne del Chichibu.
Alla stazione di Kiyose, a trenta minuti da Ikebukuru, scesi per percorrere
camminando i circa 50 metri che mi separavano dal dojo di Kiyose e le farfalle
cominciarono a svolazzarmi intorno, come facevano sempre prima di una sessione
di allenamento con il Maestro di Karate Morio Higaonna, capo istruttore della
I.O.G.K.F. (International Okinawan Goju-Ryu Karate-Do Federation). Higaonna
Sensei era già lì e, come sempre, il nervosismo cominciò crescere appena entrai
nel dojo (Luogo di Pratica) e grugnii un sonoro saluto con "Onegaishimasu"
(Per favore insegnatemi!), a cui rispose un'amichevole "Hai" (si!). Era già lì anche Miko Peled, israeliano, che stava lavorando come
cameriere a Tokyo così da potersi allenare con Higaonna Sensei. E così fu,
Higaonna Sensei si era spostato a Kiyose nel freddo inverno solo per insegnare
a noi due.
L'allenamento di quel sabato notte non fu diverso dal solito: il riscaldamento
tradizionale stabilito dal fondatore del Goju-Ryu, Chojun Miyagi, fondamentali
che furono duri e senza pause (perché faceva freddo), seguiti come sempre dai
Kata. Quella notte rimase particolarmente memorabile per due cose che furono
dette dopo l'allenamento. Dapprima ci fu qualcosa che Miko disse sul treno
sulla via del ritorno a Tokyo: "Dopo una sessione di allenamento con
Sensei, mi sento completamente soddisfatto. Non desidero nient'altro".
Permettetemi una digressione di un minuto.
Nella notte precedente la sua morte il Buddha insegnò i seguenti 8 precetti:
1)Abbi piccoli
desideri.
2) Conosci la soddisfazione.
3) Apprezza la pace e la quiete.
4) Sii diligente.
5) Non perdere la consapevolezza.
6) Pratica l'equilibrata condizione di Zazen.
7) Pratica la saggezza.
8) Non ti lasciar coinvolgere in inutili discussioni.
Quando osservo il
secondo punto, "conosci la soddisfazione" ricordo le parole di Miko
di quella notte. La sua vita come cameriere a Tokyo poteva sembrare dura e
umile, ma lui era felice con le cose così come stavano e quando disse che si
sentiva completamente soddisfatto stava chiaramente dicendo la verità.
La seconda cosa che
ricordo è stata la replica di Higaonna Sensei alla mia osservazione che era una
vergogna che Lui perdesse il suo prezioso tempo per insegnare solo a due
allievi. Sensei rispose che no, questa non era una perdita di tempo, perché era
per il futuro.
Bene, nel caso di Miko,
Sensei era stato premonitore, perché in un paio d'anni, insieme al mio buon
amico Paul Enfield, avrebbe lasciato Tokyo con Sensei per aiutarlo ad avviare
il suo nuovo dojo a San Diego, USA.
Mentre io presto
abbandonai la pratica formale del Karate al fine di concentrarmi sulla pratica
dello Zazen (alla quale ancora dedico il più possibile di me stesso) ma allo
stesso tempo, ho continuato a credere che ci sia moltissimo terreno comune tra
la pratica tradizionale dello Zazen e il Karate di Higaonna Sensei.
Forse con questo
articolo io posso non solo "pubblicizzare" lo Zazen agli artisti
marziali ma anche contribuire in qualche modo alla missione di Sensei di
diffondere il Karate-do Tradizionale. Allora il suo sforzo verso il futuro, di
quella notte nel dojo di Kiyose e in molti altri come quello, non sarà stato
completamente vano. Quello che vorrei fare qui, allora, è sottolineare
brevemente alcuni dei punti che hanno in comune queste due tradizioni, Zazen e
Sanchin.
Zazen e Sanchin
sono entrambi Kata
Morio Higaonna Sensei
Nella prefazione del
suo libro (in giapponese) "Okinawa Goju-Ryu Karate-Do", Higaonna
Sensei scrive: "Il Karate inizia con il Kata e finisce con il Kata. Questo
e il mio principio guida nel Karate-do". Il termine giapponese Kata
letteralmente significa "Forma". Così qualcuno che non ne sappia più
di tanto potrebbe accusare Higaonna Sensei di formalismo, cioè, di enfatizzare
la forma piuttosto che la sostanza. Ma questo sarebbe inesatto, perché le forme
tradizionali contengono l'unità di forma e contenuto, o unità di corpo e mente. Allo stesso tempo, praticare con tutto il cuore le forme tradizionali, usando
le parole di un maestro buddista del passato, "è ottenere la libertà
(abbandonare) del corpo e della mente".
Tra i Kata del Goju
Ryu, Sanchin è il più fondamentale.
Higaonna Sensei lo descrive come "il più fondamentale dei
fondamentali", e aggiunge che mentre i movimenti del Kata Sanchin sono
lenti e relativamente semplici, la corretta coordinazione della postura,
respiro, e mente, sono estremamente difficili da padroneggiare.
Le forme tradizionali
di buddhismo includono la pratica della rasatura del capo, il metodo di cucire
e indossare il Kesa (abito), la pratica del ritiro estivo di novanta giorni e
la pratica delle prosternazioni. Ma tra le forme di Pratica del buddhismo, la
più fondamentale è lo Zazen, cioè, sedere nella posizione del loto. Il "Za" di "Zazen" è il termine giapponese per
"sedere" e "Zen" rappresenta la fonesi (il suono) della
parola sanscrita "Dhyana", che significa "concentrazione" o
"meditazione".
Ma è un errore pensare
che lo Zazen sia una qualche forma di concentrazione intenzionale o di
meditazione astratta.
Gli artisti marziali
possono comprendere più facilmente della maggior parte delle persone cosa sia
lo Zazen, perché lo Zazen è un Kata.
Come per tutti Kata, la
cosa fondamentale non è pensare qualcosa ma soltanto eseguire il Kata
correttamente. Da una parte, Zazen è un Kata più semplice di quanto sia il
Sanchin. In Zazen non c'è nessun genere di movimento che si deve padroneggiare,
e solo una posizione-la postura del loto. D'altro lato, sedere immobili della
corretta postura seduta e semplicemente gustare e osservare ciò che è già qui,
senza essere disturbati da preoccupazioni e attaccamenti, non è affatto facile.
L'importanza della
Tradizione
Con lo Zazen la
tradizione autentica è definitivamente stabilita.
Una trasmissione da
singolo a singolo va direttamente indietro nel tempo sino al Buddha stesso,
che visse nell'India del Nord nel VI secolo Avanti Cristo.
La pratica tradizionale
dello Zazen è stata trasmessa attraverso 28 patriarchi in India prima di
arrivare al Maestro Bodhidharma che viaggiò verso Occidente nel VI
secolo d.C. e divenne il primo patriarca della Cina. Il cinquantesimo patriarca
(23°in Cina) fu il Maestro Tendo Nyojo (Ju-Ching in cinese).
Eihei
Dōgen
Nel 1225, il monaco
giapponese Dogen incontrò il maestro Tendo, e apprese da lui il
metodo tradizionale del sedere in Zazen, divenne il 51°patriarca, e tornò in
Giappone nel 1227. La tradizione del Maestro Zen Dogen è ancora viva, in parte
perché egli registrò i suoi insegnamenti in una grande opera denominata
"Shobogenzo", e in parte perché la trasmissione da uomo a uomo di
questo metodo di Zazen è continuata fino giorno d'oggi. Il Maestro Zen che mi
ha introdotto allo Zazen e mi ha guidato attraverso lo
"Shobogenzo", Gudo Nishijima, incontrò il maestro Kodo
Sawakinel 1940 e ricevette il suo insegnamento fino alla morte del Maestro Kodo
avvenuta nel 1965. Dopo quell’anno, Nishijima Roshi ricevette la formale
trasmissione come Maestro buddista dall'anziano Maestro Renpo Niwa, abate
del Tempio di Eihei-ji... e così l'autentica tradizione continua.
Higaonna Sensei è ben
conosciuto per essere un tradizionalista.
La sua serie di libri in inglese, intitolati "Traditional Karate Do",
traccia la storia del Goju Ryu dal Maestro cinese Ryu Ryu Ko passando per i
Maestri di Okinawa Kanryo Higaonna e Chojun Miyagi, fino al
suo stesso insegnante An’ichi Miyagi Sensei. E, come raccontato in
questa stessa rivista (Fighting Arts International), Higaonna Sensei ha
visitato la Cina lui stesso per ricercare in dettaglio le radici e la storia
del Goju Ryu. Allo stesso tempo, il rispetto di Higaonna Sensei verso il suo
insegnante e verso la sua tradizione non è artificiale, estremo, o dogmatico. È
proprio il risultato naturale, così mi pare, di genuina gratitudine; ed è
l'umiltà di una persona che apprezza soprattutto le forme tradizionali che gli
sono state insegnante e che ha padroneggiato.
La prima volta che vidi
Higaonna Sensei e An’ichi Miyagi insieme, a Okinawa nel 1982, non fu in un dojo
ma durante il tragitto verso un cinema locale.
Non c'era niente di artificiale nella relazione tra i due insegnanti, soltanto
una grande amicizia ed un mutuo rispetto.
Alcuni suppongono un
diretto collegamento storico in Cina tra lo Zazen e il Sanchin, tracciando
l’origine di entrambe le tradizioni nel Tempio di Shaolin, dove il Maestro
Bodhidharma visse, e alcuni affermano anche che il Maestro Bodhidharma ebbe un
influsso sullo sviluppo dei Kata del Karate. Nello "Shobogenzo",
comunque, il Maestro Dogen rende chiaro che per il Maestro Bodhidharma
l'aspetto più portante era lo Zazen:
"Il primo
Patriarca, il venerabile Bodhidharma, dopo essere arrivato dall’Oriente,
trascorse nove anni rivolto verso il muro al tempio di Shaolin, sedendo in
Zazen nella postura del Loto. Da quel tempo ad oggi, i ‘cervelli’ (l’idea
Buddhista) e gli ‘occhi’ (la visione Buddhista) hanno pervaso la Cina. La linfa
vitale del Primo Patriarca è solo la pratica di sedere nella postura del loto
completo. Prima che il Primo Patriarca giungesse dall’Oriente le persone dei
territori d’Occidente non sapevano nulla circa il sedere nella postura del loto
completo. Grazie alla venuta dell’antico Maestro dall’Oriente ne sono venuti a
conoscenza. Essendo così che, solo semplicemente sedere nella postura del loto,
giorno e notte, dall’inizio alla fine di questa vita, e per decine di migliaia
di vite, senza abbandonare il territorio del Tempio e senza avere nessun’altra
occupazione, è il samadhi (stato di equilibrio) che è il Re dei samadhi".
Ma per me, almeno, le
due tradizioni sono perfettamente unite, perché la pratica del Sanchin mi
ha condotto direttamente allo Zazen del Maestro Bodhidharma.
Fu in una libreria ad
Okinawa, nell’Aprile 1982, dopo una sessione di allenamento con Higaonna
Sensei, che mi accadde di prendere tra le mani un libro intitolato: "Come
Praticare Zazen" che era stato scritto da Nishijima Roshi.
Un’altra cosa che mi
sono riportato indietro da quella trasferta ad Okinawa è l’importante
esortazione che An’ichi Miyagi Sensei mi aveva dato, non con le parole, ma con
le sue mani:
‘Tieni la schiena ben
diritta’.
La Postura Corretta,
Tenere la schiena diritta
Kodo Sawaki Roshi
Tenere la schiena ben
diritta è assolutamente essenziale sia nello Zazen che nel Sanchin. Per
ottenere questo noi spingiamo in su con la nuca, tirando leggermente il mento
in dentro e evitando di pendere in avanti o all’indietro a destra o a sinistra.
Inoltre, sia nello Zazen che nel Sanchin, le spalle devono rimanere basse, il petto è mantenuto
aperto, la lingua è spinta contro il palato superiore, e gli occhi sono tenuti
naturalmente aperti.
Higaonna Sensei
sottolinea che nel Sanchin dobbiamo essere saldamente radicati alla terra, con
le dita dei piedi il più aperte possibile e come se afferrassero il suolo (come
un polipo). Come nel Sanchin, così anche nello Zazen: la postura tradizionale
del loto completo (con entrambe le ginocchia che premono al suolo e i glutei su
di un cuscino) ci fa apparire e sentire radicati, ben diritti, e inamovibili -
come se nulla potesse recare disturbo alla postura stessa. Nello ‘Shobogenzo’,
il Maestro Dogen cita le parole del Buddha stesso:
"Dovremmo sedere come
dei dragoni avvolti a spirale! Nel vedere anche soltanto un’immagine disegnata
della postura del loto, anche il re dei demoni è impaurito. Quanto può esserlo
di più se vedesse una persona che sta realmente sperimentando lo stato di
realtà, sedendo immobile e senza vacillare ?".
Respirare dal Tanden
Nel suo libro in
Inglese: " Karate-do tradizionale" vol.2: ‘esecuzione dei kata’,
Higaonna Sensei scrive, "Quando esegui il Kata Sanchin, devi
immaginare che l’aria non si fermi ai polmoni, ma continui il suo percorso giù
fino al basso addome. La respirazione del Sanchin (come quella del bambino) è
addominale e non fa sollevare il petto."
Poi continua "Dopo che avrai praticato il Kata Sanchin per un certo
periodo di tempo sarai capace di concentrare tutta la tua potenza nel
Tanden (circa tre dita sotto l’ombelico). Questo traguardo, io credo, non
solo ti aiuterà a vivere una vita più lunga, ma ti aiuterà a fronteggiare le
situazioni stressanti con un atteggiamento più calmo."
Il maestro Zen Dogen
non fa menzione del Tanden nel "Metodo dello Zazen" nello
‘Shobogenzo’(essendo il suo principio che il respiro debba essere naturale, non
oggetto di uno sforzo intenzionale), ma fa menzione del respiro Tanden in
un altro libro intitolato "Eihei Koroku". Afferma, "Nello Zazen di un monaco, solo il sedere con una postura diritta sarebbe la
cosa principale. Dopo di ciò, regoliamo il respiro e realizziamo la mente. (Non
solo nel Piccolo Veicolo ma) anche nel Grande Veicolo (Buddhismo Mahayana),
esiste un metodo di regolare il respiro; cioè, essere consapevoli, questo
respiro è lungo, questo respiro è breve, questo è il metodo di regolare il
respiro nel Grande Veicolo. Il respiro va al Tanden e se ne va dal Tanden.
L’espirazione e l’inspirazione sono differenti, ma entrambe sono eseguite dal Tanden
- è facile così comprendere l’impermanenza, e facile ottenere una mente
equilibrata."
Il Tanden sembra essere
strettamente correlato al sistema nervoso autonomo, che governa i processi
fisiologici e mentali che sono al di là del nostro controllo cosciente. Il
sistema nervoso autonomo ha due settori principali: il sistema nervoso
simpatico che stimola il corpo e la mente e risveglia (per esempio
nell’affrontare una situazione d’emergenza) e il sistema nervoso parasimpatico
che si occupa di recuperare le energie e la salute. Mentre il sistema nervoso
simpatico si dirama dal sistema nervoso centrale all’altezza della nuca e del
petto, il sistema nervoso parasimpatico diparte dal sistema nervoso centrale in
due punti: alla base del cervello, e alla fine della spina dorsale. Parrebbe
che il respiro naturale dal Tanden sia strettamente correlato con la funzione
dei nervi sacrali parasimpatici - quelli che emergono dalla base della spina
dorsale, e che si innervano densamente nella bassa regione addominale. A parte le spiegazioni
fisiologiche, il Maestro Dogen ci ricorda nello ‘Shobogenzo’ che respirare è la
nostra vita:
"Il passato è stato espirazione ed inspirazione, ed il
presente è espirazione ed inspirazione. Questo dobbiamo sostenere e su questo
dobbiamo fondarci, come il Fiore del dharma (la meravigliosa realtà) che è
troppo bella da poter essere oggetto del pensiero."
Heijo Shin (La Mente
Normale)
Heijo Shin
(calligrafia di Nishijima Roshi)
Il concetto di Heijo
Shin, o ‘mente normale’ viene dal Buddhismo cinese. Indietro fino alla Dinastia
Tang nel 9° secolo Dopo Cristo, il Maestro Zen Joshu chiese al suo
Maestro Nansen "Cos’è la verità?" il Maestro Nansen
rispose "La Mente Normale è la Verità stessa."
Hei significa
‘livello’ o ‘ equilibrato’ o ‘ordinario’ o ‘medio’, e jo significa
‘costante’. Insieme heijo significa ‘normale’ o ‘ordinario’.
Shin significa
‘mente’. Nel libro ‘Okinawa Goju-Ryu Karate-Do’ (in giapponese). Higaonna
Sensei scrive circa l’ Heijo Shin o ‘mente normale’ come segue:
"Quello che coordina la postura del Sanchin ed il suo metodo respiratorio
è la mente. ‘Mente’ significa il giusto atteggiamento mentale. Per esempio, non
dovremmo portare le nostre preoccupazioni quotidiane durante la pratica del
Kata Sanchin. Le preoccupazioni e le ansie provocano il rilassamento dei
muscoli del corpo che invece dovrebbero essere mantenuti in tensione durante
l’esecuzione del Kata Sanchin. Le preoccupazioni disturbano anche il ritmo del
respiro. Il corretto atteggiamento mentale che evita questi problemi non è
altro che Heijo Shin (la mente normale). E la continua, perseverante,
giornaliera pratica del Kata Sanchin costruisce la forte costituzione mentale
che ci permette di mantenere la mente normale."
Nel considerare il
significato di ‘Mente Normale’, è di nuovo interessante considerare la funzione
del sistema nervoso autonomo. Come detto prima, un forte sistema nervoso
simpatico ci rende pronti ad ogni evenienza, o a situazioni inattese. Così
quando il sistema nervoso simpatico è troppo forte, ci rende anormali, non
equilibrati. E quasta relazione si manifesta anche all’inverso: voler divenire
qualcosa di speciale eccita il sistema nervoso simpatico rendendolo troppo
forte. E’ per questo che gli insegnamenti del Maestro Dogen pongono molta
enfasi nel praticare solo gustando la pratica, praticare solo per praticare,
non tentare di divenire un Buddha, non cercare di divenire nulla. Nelle sue
parole il Maestro Dogen dice,
"Lo stato dell’autentica esperienza non ha
scopo, ed è comunque sforzo."
La pratica quotidiana di
Zazen e del kata Sanchin ci insegnano il valore del fare uno sforzo senza
scopo. Quando ci dedichiamo ad essi sinceramente, senza riserve, il Kata ci
insegna ad essere soddisfatti con la realtà della mente normale - essere
soddisfatti con ciò che è già qui, davanti a noi.
Se qualcuno vuole fare
il pugile, non lo buttate sul ring dicendogli: "Datti da fare!".
Deve
imparare. Se qualcuno vuole diventare uno spadaccino, dovrà allenarsi per anni,
altrimenti non saprà neppure tenere in mano una spada, gli sarà impossibile
usarla e combattere. Come prima cosa dovrà imparare come tirarla fuori dal
fodero, come tenerla in mano.
Si deve allenare. Non date in mano una chitarra o
un sitar a qualcuno che non ne ha mai vista una, aspettandovi che suoni come
Andrès Segovia o come Ravi Shankar.
Ebbene, è proprio questo il vostro errore.
Avete mai istruito le persone che oggi sono al governo? Qualcuno ha mai pensato
che le persone nelle cui mani è accumulato un potere tanto grande devono avere
qualità particolari, che impediscano loro di abusare di tale forza? Non è colpa
loro se questo avviene.
Ecco perché io propongo che in ogni università nascano
due nuovi istituti: il primo sarà un istituto per la deprogrammazione.
Chiunque
ottenga una laurea dovrà, come prima cosa, ottenere un diploma che ne attesti
la deprogrammazione in quanto cristiano, in quanto hindu, in quanto tedesco, in
quanto americano, comunista, musulmano, ebreo, che elimini qualsiasi altro
marchio di fabbrica gli sia stato stampato addosso. Sarà la prova che siete
stati ripuliti da ogni pattume, perché questo è stato finora il vostro guaio.
Quando si è creduto in qualcosa per cinquanta, sessant'anni, se a un tratto io
dico che è solo un'assurdità, è inevitabile che vi irritiate, che vi
irrigidiate, perché vorrebbe dire che per tanti anni siete stati stupidi. Ma se
avete fegato e intelligenza, è ancora possibile uscire da questo baratro. La
mia religiosità non è altro che scienza della deprogrammazione.
Deprogrammare
vuol dire lasciarti semplicemente privo di qualsiasi programma: privo di
religione, razza, casta, nazionalità... vieni lasciato solo, ti è concesso di
essere te stesso, di essere un individuo. Bastano quattro anni.
La
deprogrammazione non richiede molto tempo: bastano poche ore al mese, per
quattro anni, e ti troverai deprogrammato. E non verrà rilasciato nessun
certificato di laurea se prima l'istituto di deprogrammazione non dichiara che:
"Questa persona non ha più etichette.
Ora è un semplice essere
umano".
Il secondo istituto sarà l'istituto per la meditazione perché la
semplice deprogrammazione non è sufficiente. Questa ti ripulisce da ogni
contaminazione, ma restare vuoti è difficile: di nuovo tornerai a raccogliere
immondizie.
Da solo non sei capace di imparare a vivere felice nel tuo vuoto
interiore, e l'arte della meditazione è proprio questo. Per cui il secondo
istituto ti fornirà l'aiuto della meditazione. Non sono necessarie cose
complesse: le università, l'intellighenzia, hanno la tendenza a complicare le
cose.
E' sufficiente un semplice metodo di osservazione del proprio respiro:
ogni giorno, per un ora, dovrai andare a quell'istituto per stare semplicemente
seduto in silenzio a osservare il processo della tua mente, mentre la tua
attenzione resta focalizzata sul respiro.
Non occorre fare nulla. Sii un semplice
testimone, un osservatore, uno scrutatore, guarda il movimento della mente, lo
scorrere dei pensieri, desideri, ricordi, sogni e fantasie.
Resta semplicemente
distaccato, tranquillo, senza criticare, senza giudicare.
Una volta che ne
afferri il meccanismo, diventa la cosa più facile del mondo.
Il giorno in cui
una persona inizia a godersi il proprio vuoto, la propria solitudine, il nulla,
è uno dei giorni più belli della sua vita, perché da quel punto in poi potrà
vivere in meditazione: e con questo intendo dire vivere in amore, con
attenzione, essere un testimone.
Questi processi di deprogrammazione e di
meditazione si sviluppano di pari passo. Un istituto continua a purificarti, a
svuotarti; l'altro a riempirti, non di cose, ma di qualità: beatitudine, amore,
compassione, un'incredibile sensazione di avere valore, senza alcuna ragione.
Il semplice vivere, respirare, è una prova che l'esistenza ti considera degno
di essere qui.
Tu sei indispensabile all'esistenza. Qualsiasi cosa fai, falla
con gioia e totalità: come se in quel momento fosse la cosa più importante del
mondo.
Quando fai una cosa qualsiasi con tanta intensità, con tanto amore e
rispetto, ne vieni trasformato. E ciò che neri ti trasforma, non è meditazione.
La meditazione ti renderà un essere umano nuovo, ti darà una consapevolezza
nuova che non conoscerà paura alcuna, né sarà austera, avida, colma di odio. A
quel punto nessuno potrà più riprogrammarti; nessuno, nel mondo intero, sarà in
grado di farlo.
Se l'istituto di meditazione non ti rilascerà il suo diploma,
l'università non ti concederà nessuna laurea. La laurea verrà solo quando avrai
conseguito un certificato di "pulizia" da parte dell'istituto di
deprogrammazione e un diploma da parte dell'istituto di meditazione. Dipenderà
da te: potrai essere promosso in un anno, in due, in tre oppure quattro.
Ma
quattro anni basteranno e saranno d'avanzo: qualsiasi imbecille, se solo sta
seduto un ora ogni giorno senza far nulla per quattro anni, scoprirà
inevitabilmente ciò che scoprirono Buddha o Lao Tsu, ciò che ho scoperto io.
Non è questione di intelligenza, di talento o di genio.
Si deve solo aver
pazienza. Sono requisiti obbligatori per qualsiasi studio; in questo modo,
quando uscirai dall'università, non sarai solo una persona intelligente e istruita,
sarai anche una persona che medita: rilassata, felice, silente, tranquilla, in
pace, capace di osservare, attenta, intuitiva.
E non sarai più un cristiano, né
un hindu, né sarai più un americano o un russo: ti sarai liberato completamente
da questi pesi. In questo modo, mentre vieni istruito, al tempo stesso e in
maniera molto sottile, vieni preparato a gestire il potere, in modo tale che
questo non ti possa più corrompere, che tu non ne possa più abusare.
C’è un’espressione
bellissima nello Zen che è I Shin den Shin, da cuore a cuore, da mente a mente.
Questa espressione, spesso inflazionata, indica proprio la connessione, il
dialogare tra Maestro e discepolo e questo link, questa comunicazione
interpersonale diretta da cuore a cuore, passa attraverso canali altri, che non
sono la razionalità, la mente duale, la parola. Quando sono in Giappone accanto
al mio Maestro, anche se non capisco bene la sua lingua, che poi è un
giapponese molto colto, molto difficile da comprendere, capisco però cosa dice
ogni suo gesto, cosa dice il suo muoversi nel Tempio. È un Insegnamento
profondo, che arriva alla radice del mio essere. Un mio discorso a Shinnyoji ha
creato grande scompiglio nel Sangha. Mi è stato detto che è stato come avessi
gettato una bomba, e diverse persone si sono allontanate, hanno lasciato il
Tempio. Devo dire che evidentemente, come Maestro, ho colto nel segno, che ho
fatto un colpo… da Maestro. Se le mie parole sono servite a fare chiarezza, a
rimuovere polvere e confusione nei praticanti, sono state parole sante. Dico
comunque che è fondamentale capirsi oltre le parole, capire l'essenza
dell'insegnamento, cogliere quel quid che fa fare il salto quantico,
abbandonando il razionale, il giudizio, la separazione, il me e l’altro-da-me,
e fa toccare il cuore della Pratica, il cuore dello Zen, il cuore del Dharma. Così quando leggiamo un testo, quando sentiamo un insegnamento, fondamentale è
quel momento in cui on va à se reconnaître, ci si riconosce. La parola, il
suono, riconosce l'udito, l'orecchio. Scatta quella vibrazione di diapason,
quell’eco del Buddha che risuona eterna nella valle, senza inizio né fine. È il
ruggito del leone, il Dharma che si risveglia nel nostro cuore-mente, nel
nostro kokoro.
Allora assolvere i
compiti al Tempio, venire al Tempio e tenerlo aperto per permettere a chi suona
il campanello di trovare un luogo di Pratica che lo accolga, questi momenti,
questi sforzi, porteranno gioia. Non diventano più un atto dovuto, un obbligo. Je ne suis pas obligé: svolgere un servizio al Tempio non è un obbligo, è la
gioia di praticare. È il riconoscersi, il riconnettersi. Religere, questo è il
senso religioso nella Pratica, ricollegarsi alla NaturaBuddha universale. Allora diventa un piacere, come andare a incontrare l'amato, l'amante. Non è
più un obbligo, non è più una fatica, non è più qualcosa che ci obera e ci fa
accollare un peso in più. Diventa la gioia di venire al Tempio, di pulirlo, di
raccogliere le foglie in giardino, di annaffiare i fiori, di semplicemente
sedersi sullo zafu con chi arriva. Se non si attiva questa connessione
primaria, questo ri-conoscersi, tutto diventa faticoso e fastidioso, tutto
diventa un obbligo e forse diventa opportuno chiedersi se sia necessario venire
al Tempio, se non è quello che vogliamo, se non ci dà gioia. Durante un
colloquio, un praticante mi ha detto che per lui “venire al Tempio è gioia”. Un
altro mi ha detto che non sarebbe potuto venire a Zazen e l’ho rassicurato che
non era un problema... Mi ha allora spiegato che “il suo era dispiacere per non
poter essere presente, perché avrebbe sentito la mancanza della Pratica al
Tempio”. Una mancanza non data da un attaccamento, ma dalla consapevolezza
della gioia nel “ritrovare l'amato”, del semplicemente essere seduti insieme ad
altri che credono, sperimentano e percorrono la nostra stessa Via. A qualunque
livello pratichiamo, dobbiamo sempre ricordare che nel nostro naturale compito
di Bodhisattva, c'è quello di servire la Casa Spirituale come la nostra casa,
la Famiglia Spirituale come la nostra famiglia. Il Tempio non è qualcosa di
estraneo, non è qualcosa che possiamo vivere come un'associazione ricreativa
spirituale o come un centro benessere. È qualcosa che richiede comunque un
grande impegno, un grande sforzo, ma è anche qualcosa a cui vogliamo dedicarci.
Ci impegniamo perché ci interessa, perché ci crediamo, perché sperimentiamo
ogni giorno i doni infiniti della Pratica e ne beneficiamo. Ci impegniamo
perché ci riconosciamo nella Via del Buddha, ripercorrendo i passi degli
Antichi Maestri, degli Antichi Patriarchi.
È molto difficile
Praticare Zen oggi, in un mondo in cui vale solo ciò che si ha voglia di fare,
ciò che ci piace fare. È difficile abbandonare il concetto di “ciò che ho
voglia di fare” e “fare ciò che è buono per me”, per la mia vita, per ciò che
semplicemente sono chiamato a fare. Lo Zen come ogni Arte richiede disciplina.
Ogni Religione, ogni Dottrina, ogni Filosofia, ogni Arte, richiede disciplina. Ogni volta che mi pongo la domanda “Cosa voglio fare?”, il mio ego mi dice che
voglio tutto ciò che è profitto, tutto ciò che è semplice da realizzare , tutto
ciò che è più facile. Per portare avanti la nostra Pratica dobbiamo decidere se
vogliamo seguire il nostro “ego” e il nostro karma, oppure affrontare un
cambiamento. Sicuramente il nostro karma non ci aiuta in questa spinosa scelta,
per questo ci vuole una forte determinazione. E’ importante anche comprendere
come la nostra Pratica non possa rivolgersi solamente a noi, ma a tutti gli esseri,
senza dimenticare l'importanza di sostenere il luogo di Pratica. Se non lo si
sostiene, se non lo si ama, se non lo si cura, il Luogo di Pratica non può
esistere. Se non cooperiamo per far nascere una comunità, il Luogo si spegne. Importante è ricordare che siamo arrivati Qua e siamo stati accolti da chi ha
operato, e continua a operare, per tenere aperto questo Luogo. Questo Bene non
è qualcosa che cade dal cielo. Nasce da uno sforzo comune, da un dovere comune:
una volontà rivolta agli altri, per il bene degli altri. Impegno che
sicuramente comporta delle rinunce e porta a delle scelte. Ognuno di noi ha
tanti impegni nella vita, ma se capiamo l’importanza di ciò che abbiamo
incontrato, la Via del Buddha, un Luogo dove Praticare, allora troveremo la forza
di sostenerci insieme nella nostra Pratica.
Rev. Shinnyo Marradi
Shinnyoji, estate 2018
Tratto da EKIZEN, Notiziario del Sangha di
Shinnyoji, autunno 2018.
There’s a lovely saying in Zen: I Shin den Shin
– from heart to heart, from mind to mind. Often overworked and misused, it
clearly identifies that particular connection, that link that binds together a
Master and a student. Such interpersonal communication that goes from heart to
heart flows through channels that are beyond words, rationality and the dual
mind. When I’m visiting my Master who speaks to me in his sophisticated
Japanese that’s so hard to understand, I’m nevertheless able to comprehend the
meaning of his gestures, and of his movements around the Temple. It’s a
profound teaching that reaches deep within me. One of my speeches at Shinnyoji
created much concern within the Sangha. I’ve been told that it was like letting
off a bomb and, as a consequence, many people distanced themselves from the
Temple. I must say that, evidently, I hit the mark and delivered a true master
stroke. If my words helped to clarify things, to remove the dust and confusion
that was blinding practitioners, then they were words of wisdom. I would like
to emphasize the importance of comprehension beyond words, getting to the core
of the teaching and catching the clue that triggers a quantum leap forward. We
need to abandon rationality, judgement, separation, what’s me and what’s
other-than-me, touching the very heart of practice, the heart of Zen and of
Dharma. When we read a text or hear a teaching, fundamental is the moment when
on va à se reconnaître, when we identify. The word, the sound, recognises
hearing, our ear.
Like a tuning fork it vibrates – a Buddha’s echo eternally
reverberating in the valley.
It’s the lion’s roar, the awakening of Dharma in
our heart-mind, our kokoro. In this way our efforts to fulfil the assigned
tasks at the Temple, to keep it open, thus allowing anyone that rings the
doorbell to find a place of practice, will bring joy and will not be seen as an
obligation. Je ne suis pas obligé: service at the Temple is not a duty, it’s
the joy of practice. It’s recognising oneself, re-connecting. Religere: this is
the true religious sense of practice; re-connecting with the universal
Buddha-nature.
Then everything becomes pleasant, like meeting with someone’s
own lover. It’s not a chore, a burden; it no longer requires effort, it’s the
joy of coming to the Temple to clean it, to pick up the fallen leaves in the
garden, to water the plants, to simply sit on a zafu with whomever arrives. If we do not activate this
primary connection, this mutual recognition, everything becomes tiring and
irritating.
When everything is seen as a “must do”, if it’s not what we want,
what brings us joy then it might be worth asking ourselves if it’s necessary to
come to the Temple at all. During an interview, a student said to me that to
him, coming to the Temple meant joy.
When another told me that he could not
come to zazen, I reassured him that it was not a problem. He then told me that
he felt sorrow for not being able to attend, that he would miss not being able
to come to that week’s practice.
He was longing for the joy of finding what one
values highly: just sitting together with others that like him believe,
experience and walk on the same Path. Whatever is the level reached in our
practice, we must not forget that one of the duties we have as Bodhisattvas is
to serve the Spiritual House like our own home, the Spiritual Family like our
own family. The Temple is not something estranged from us, we cannot relate to
it as if it was a club or a wellness centre. Although it demands great effort
on our part, it’s something we want to dedicate ourselves to. We commit because
we believe in it, because every day we benefit from the precious gifts of our
practice. We commit because we identify in Buddha’s path and we walk in the
footsteps of the ancient Masters. It’s very difficult to practice Zen today in
a world where the only thing that counts is doing what we like.
It’s very
difficult to rid our minds of concepts such as “doing what I like to do” and
“doing what is best for me, for my life. Doing just what I’ve been called to
do”. Zen, like all forms of art, requires discipline. Every religion,
philosophy or art, requires discipline. Every time that we ask ourselves “what
do I want to do”, our Self replies that we want what brings us profit, what is
easy to achieve. To carry on with our practice we need to decide whether we
want to listen to our Self and our karma, or face change.
Our karma will surely
not help us in making such a difficult choice and therefore we need to be very
determined. It’s similarly important to understand that our practice should not
be directed inwards but must turn to all beings and should also include
supporting the place where we practice. If we do not love it, care for it,
support it, such place cannot exist. If we do not work together to create a
sense of community, the Place will fade away.
We must keep in mind that when we
arrived, we were welcomed by those who dedicated their efforts, and still do,
to keep this place open and functioning. This precious resource is not godsend.
It is the end result of a committed effort, a common responsibility towards
others and their wellbeing, and such commitment implies that we make some
choices and give up something.
We all live very intense lives and we have many
responsibilities but if we understand the importance of what we have come
across, of Buddha’s Path, of the Place where we can practice, we will then find
the necessary energy to support each other in our practice.