mercoledì 30 gennaio 2019

La mano dell'Universo


Lasciare qualcosa, soprattutto l'intenzione di lasciare qualcosa, già ha contaminato quel che poteva esser lasciato.

Povero illuso chi pensa che la sua mano 'cambi qualcosa che prima era qualcos'altro'...
illuso ed arrogante.

Se penserai che è la 'tua' mano che cambia qualcosa allora avrai solo agito con violenza ed arroganza.

Il momento in cui non è più la 'tua' mano a 'creare', 'toccare'... allora sarà la mano dell'Universo intero a creare tramite te.

Allora anche tosare un prato e tagliare fieno diventa un'opera d'arte e non è meno importante nell'economia del cosmo di chi scrive un libro o erige un palazzo, anche se nessuno potrà mostrare apprezzamento.



Taigō Sensei

© Tora Kan Dōjō



domenica 27 gennaio 2019

Ricostruire se stessi

Pubblichiamo un estratto da una lezione tenuta da Sensei Paolo Taigō Spongia presso il Tora Kan Dōjō durante la Pratica Zen. Le lezioni hanno un carattere colloquiale del quale tener conto durante la lettura.

Sono molto felice di vedervi tutti presenti nel Dōjō questa mattina all'alba è una cosa molto importante, per tutti noi.
La tendenza oggi è quella di promuovere uno Zen solitario, fai da te, che si può vendere on-line, ma in realtà l’essenza della Pratica Zen non può essere trovata al di fuori della condivisione.
Non esiste uno “Zen fai da te”, non esiste un’esperienza Zen che si può vivere in modo egoistico e solitario, una sorta di ‘autoerotismo spirituale’ come l’aveva definito Papa Ratzinger.
Bisogna stringersi gli uni agli altri, contaminarsi con gli altri.
Bisogna uscire dal proprio isolamento, dal proprio essere autoreferenziali, dal proprio egoismo, dall’arroganza del pensiero che si può bastare a sé stessi.
A tutti noi piace pensare che questi difetti non ci appartengano, ma quando entriamo nel Dōjō ci accorgiamo immediatamente di quanto siamo rozzi, presuntuosi, pieni di pregiudizi, di rigidità e condizionamenti… e prendere coscienza di questo è veramente il primo passo sulla Via, il primo passo della Pratica.
E’ una constatazione dolorosa di fronte alla quale si è portati a reagire con la fuga.
Pasto formale ad Eiheiji
Non sono molti quelli che hanno il coraggio e la determinazione sufficienti per rimanere di fronte all’immagine del  loro vero volto che nel Dōjō si riflette in ogni oggetto che utilizziamo, in ogni sguardo o gesto dei compagni di pratica, in ogni esortazione dell’insegnante.
Non fuggire e accettare di restare di fronte all’immagine riflessa di noi stessi è l’unico vero modo per conoscersi davvero, profondamente, e per scoprire che ci sono offerte altre possibilità, altre prospettive, al di là dei condizionamenti e della paura che ci hanno guidato fino ad oggi.
La condivisione è fondamentale. E’ respirare insieme, prenderci cura insieme del luogo che ci ospita, mangiare insieme, esprimere parole di gratitudine recitando Sutra insieme, si tratta di un nutrimento fondamentale per lo spirito.
Penso che in ogni pratica cosiddetta religiosa o spirituale sia assolutamente necessaria la condivisione; diffidate di chi promuove una pratica  solitaria e autoreferenziale, di chi vuole convincervi che potete praticare lo Zen isolandovi ‘comodamente’ nelle vostre abitudini e rassicuranti certezze.
Allo stesso tempo questa esigenza primaria di condivisione richiede una grande capacità critica, perché come ho tante volte ripetuto, il riunirsi può anche diventare un modo per confortarsi a vicenda rinforzando le proprie illusioni invece di essere occasione di liberazione, è facile riunirsi solo in cerca di un conforto momentaneo, di conferme ai propri pregiudizi e questo è molto pericoloso.
Conduce nella direzione diametralmente opposta alla Liberazione verso la quale ci guida il Dharma di Buddha.
Si trasforma in quella follia o stupidità di gruppo dalla quale mette continuamente in guarda Sawaki Roshi e che fa gioco alle cosiddette ‘guide spirituali’ poco oneste e in cerca di autoaffermazione.
La vera esperienza religiosa, la vera Pratica, inizia nel momento in cui sentiamo la necessità impellente di condividere e di offrire ad altri quello che stiamo ricevendo, la necessità di condividere la nostra pienezza. Non può essere soltanto una ricerca di conforto e di sostegno personale come compensazione di una mancanza, se si riduce a questo non si tratta di una Pratica religiosa e spirituale, è qualcos’altro.
Sedere insieme in silenzio, muoversi in sintonia, respirare insieme avendo cura di sostenere gli altri senza essere di disturbo, l’incoraggiare gli altri senza essere invadenti, sviluppa una sensibilità e una delicatezza d’animo che sono molto rari oggi, molto preziosi proprio perché rari.
Il Dōjō è un luogo in cui ci si ri-educa ad una sensibilità e consapevolezza profonda.
Assumere responsabilità nel Dōjō , prendersi cura degli altri con attenzione, concentrazione, sicurezza; questo tipo di approccio alla Pratica, alla vita del Dōjō, trasforma la nostra vita… non può essere altrimenti.
E dev’essere un ritrovarsi gioioso ad ogni occasione di Pratica.

Samu (lavoro manuale) Monastero Zen Fudenji,1999
Per quanto la Pratica possa essere in alcune occasioni severa, rigorosa, anche dura, ci deve essere un fondo di entusiasmo gioioso quando ci si incontra per praticare.
Si deve incontrare una comunità di buoni amici, di fratelli, che condividono un cammino comune, entusiasticamente e gioiosamente condiviso.
Come i primi frati-amici che si riunirono attorno a Francesco d’Assisi nel ricostruire mattone su mattone la chiesetta diroccata.
Cantando, scherzando, elemosinando pietre, condividevano tutto mentre lavoravano duramente per ricostruire la Porziuncola e con essa ricostruire sé stessi.




© Tora Kan Dōjō








mercoledì 23 gennaio 2019

Zazen e Kata Sanchin


Quando ci dedichiamo ad essi sinceramente, senza riserve, 
il Kata ci insegna ad essere soddisfatti con la realtà di Heijo Shin 
(mente normale)

di Mike Chodo Cross
traduzione di Paolo Taigō Spongia



Questo articolo è stato pubblicato anni fa sulla rivista ‘Fighting Arts International’ a firma Mike Cross. E’ interessante sapere che questo autore in seguito, continuando la sua Pratica Zen con il suo insegnante Gudo Nishijima Roshi, ha contribuito all’importante traduzione e commento in Inglese della preziosa opera di Dogen Zenji lo ‘Shobogenzo’ pubblicata dalla Windbell. 
I tre volumi della traduzione sono firmati Gudo Nishijima e Chodo Cross.


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Kōdō Sawaki Roshi
In un freddo sabato notte agli inizi del 1986 un'affollato treno delle sei partito da Ikebukuru procedeva nella pianura del Kanto, attraverso i sobborghi della grande Tokyo, verso le montagne del Chichibu.
Alla stazione di Kiyose, a trenta minuti da Ikebukuru, scesi per percorrere camminando i circa 50 metri che mi separavano dal dojo di Kiyose e le farfalle cominciarono a svolazzarmi intorno, come facevano sempre prima di una sessione di allenamento con il Maestro di Karate Morio Higaonna, capo istruttore della I.O.G.K.F. (International Okinawan Goju-Ryu Karate-Do Federation). Higaonna Sensei era già lì e, come sempre, il nervosismo cominciò crescere appena entrai nel dojo (Luogo di Pratica) e grugnii un sonoro saluto con "Onegaishimasu" (Per favore insegnatemi!), a cui rispose un'amichevole "Hai" (si!).

Era già lì anche Miko Peled, israeliano, che stava lavorando come cameriere a Tokyo così da potersi allenare con Higaonna Sensei. E così fu, Higaonna Sensei si era spostato a Kiyose nel freddo inverno solo per insegnare a noi due.
L'allenamento di quel sabato notte non fu diverso dal solito: il riscaldamento tradizionale stabilito dal fondatore del Goju-Ryu, Chojun Miyagi, fondamentali che furono duri e senza pause (perché faceva freddo), seguiti come sempre dai Kata. 

Quella notte rimase particolarmente memorabile per due cose che furono dette dopo l'allenamento. Dapprima ci fu qualcosa che Miko disse sul treno sulla via del ritorno a Tokyo: "Dopo una sessione di allenamento con Sensei, mi sento completamente soddisfatto. Non desidero nient'altro".
Permettetemi una digressione di un minuto.  
Nella notte precedente la sua morte il Buddha insegnò i seguenti 8 precetti:

1) Abbi piccoli desideri.
2) Conosci la soddisfazione.
3) Apprezza la pace e la quiete.
4) Sii diligente.
5) Non perdere la consapevolezza.
6) Pratica l'equilibrata condizione di Zazen.
7) Pratica la saggezza.
8) Non ti lasciar coinvolgere in inutili discussioni.

Quando osservo il secondo punto, "conosci la soddisfazione" ricordo le parole di Miko di quella notte. La sua vita come cameriere a Tokyo poteva sembrare dura e umile, ma lui era felice con le cose così come stavano e quando disse che si sentiva completamente soddisfatto stava chiaramente dicendo la verità.

La seconda cosa che ricordo è stata la replica di Higaonna Sensei alla mia osservazione che era una vergogna che Lui perdesse il suo prezioso tempo per insegnare solo a due allievi. Sensei rispose che no, questa non era una perdita di tempo, perché era per il futuro.

Bene, nel caso di Miko, Sensei era stato premonitore, perché in un paio d'anni, insieme al mio buon amico Paul Enfield, avrebbe lasciato Tokyo con Sensei per aiutarlo ad avviare il suo nuovo dojo a San Diego, USA.

Mentre io presto abbandonai la pratica formale del Karate al fine di concentrarmi sulla pratica dello Zazen (alla quale ancora dedico il più possibile di me stesso) ma allo stesso tempo, ho continuato a credere che ci sia moltissimo terreno comune tra la pratica tradizionale dello Zazen e il Karate di Higaonna Sensei.

Forse con questo articolo io posso non solo "pubblicizzare" lo Zazen agli artisti marziali ma anche contribuire in qualche modo alla missione di Sensei di diffondere il Karate-do Tradizionale. Allora il suo sforzo verso il futuro, di quella notte nel dojo di Kiyose e in molti altri come quello, non sarà stato completamente vano. Quello che vorrei fare qui, allora, è sottolineare brevemente alcuni dei punti che hanno in comune queste due tradizioni, Zazen e Sanchin.

Zazen e Sanchin
sono entrambi Kata



Morio Higaonna Sensei
Nella prefazione del suo libro (in giapponese) "Okinawa Goju-Ryu Karate-Do", Higaonna Sensei scrive: 
"Il Karate inizia con il Kata e finisce con il Kata. Questo e il mio principio guida nel Karate-do". 
Il termine giapponese Kata letteralmente significa "Forma". 
Così qualcuno che non ne sappia più di tanto potrebbe accusare Higaonna Sensei di formalismo, cioè, di enfatizzare la forma piuttosto che la sostanza. Ma questo sarebbe inesatto, perché le forme tradizionali contengono l'unità di forma e contenuto, o unità di corpo e mente. 
Allo stesso tempo, praticare con tutto il cuore le forme tradizionali, usando le parole di un maestro buddista del passato, "è ottenere la libertà (abbandonare) del corpo e della mente".

Tra i Kata del Goju Ryu, Sanchin è il più fondamentale.
Higaonna Sensei lo descrive come "il più fondamentale dei fondamentali", e aggiunge che mentre i movimenti del Kata Sanchin sono lenti e relativamente semplici, la corretta coordinazione della postura, respiro, e mente, sono estremamente difficili da padroneggiare.

Le forme tradizionali di buddhismo includono la pratica della rasatura del capo, il metodo di cucire e indossare il Kesa (abito), la pratica del ritiro estivo di novanta giorni e la pratica delle prosternazioni. Ma tra le forme di Pratica del buddhismo, la più fondamentale è lo Zazen, cioè, sedere nella posizione del loto. 
Il "Za" di "Zazen" è il termine giapponese per "sedere" e "Zen" rappresenta la fonesi (il suono) della parola sanscrita "Dhyana", che significa "concentrazione" o "meditazione".
Ma è un errore pensare che lo Zazen sia una qualche forma di concentrazione intenzionale o di meditazione astratta.

Gli artisti marziali possono comprendere più facilmente della maggior parte delle persone cosa sia lo Zazen, perché lo Zazen è un Kata.
Come per tutti Kata, la cosa fondamentale non è pensare qualcosa ma soltanto eseguire il Kata correttamente. 
Da una parte, Zazen è un Kata più semplice di quanto sia il Sanchin. In Zazen non c'è nessun genere di movimento che si deve padroneggiare, e solo una posizione-la postura del loto. D'altro lato, sedere immobili della corretta postura seduta e semplicemente gustare e osservare ciò che è già qui, senza essere disturbati da preoccupazioni e attaccamenti, non è affatto facile.


L'importanza della Tradizione

Con lo Zazen la tradizione autentica è definitivamente stabilita.

Una trasmissione da singolo a singolo va direttamente indietro nel tempo sino al Buddha stesso, che visse nell'India del Nord nel VI secolo Avanti Cristo.

La pratica tradizionale dello Zazen è stata trasmessa attraverso 28 patriarchi in India prima di arrivare al Maestro Bodhidharma che viaggiò verso Occidente nel VI secolo d.C. e divenne il primo patriarca della Cina. Il cinquantesimo patriarca (23°in Cina) fu il Maestro Tendo Nyojo (Ju-Ching in cinese).

Eihei Dōgen
Nel 1225, il monaco giapponese Dogen incontrò il maestro Tendo, e apprese da lui il metodo tradizionale del sedere in Zazen, divenne il 51°patriarca, e tornò in Giappone nel 1227. 
La tradizione del Maestro Zen Dogen è ancora viva, in parte perché egli registrò i suoi insegnamenti in una grande opera denominata "Shobogenzo", e in parte perché la trasmissione da uomo a uomo di questo metodo di Zazen è continuata fino giorno d'oggi.
Il Maestro Zen che mi ha introdotto allo Zazen e mi ha guidato attraverso lo "Shobogenzo", Gudo Nishijima, incontrò il maestro Kodo Sawaki nel  1940 e ricevette il suo insegnamento fino alla morte del Maestro Kodo avvenuta nel 1965. 
Dopo quell’anno, Nishijima Roshi ricevette la formale trasmissione come Maestro buddista dall'anziano Maestro Renpo Niwa, abate del Tempio di Eihei-ji... e così l'autentica tradizione continua.

Higaonna Sensei è ben conosciuto per essere un tradizionalista.
La sua serie di libri in inglese, intitolati "Traditional Karate Do", traccia la storia del Goju Ryu dal Maestro cinese Ryu Ryu Ko passando per i Maestri di Okinawa Kanryo Higaonna e Chojun Miyagi, fino al suo stesso insegnante An’ichi Miyagi Sensei.
 
E, come raccontato in questa stessa rivista (Fighting Arts International), Higaonna Sensei ha visitato la Cina lui stesso per ricercare in dettaglio le radici e la storia del Goju Ryu. 
Allo stesso tempo, il rispetto di Higaonna Sensei verso il suo insegnante e verso la sua tradizione non è artificiale, estremo, o dogmatico. È proprio il risultato naturale, così mi pare, di genuina gratitudine; ed è l'umiltà di una persona che apprezza soprattutto le forme tradizionali che gli sono state insegnante e che ha padroneggiato.

La prima volta che vidi Higaonna Sensei e An’ichi Miyagi insieme, a Okinawa nel 1982, non fu in un dojo ma durante il tragitto verso un cinema locale.
Non c'era niente di artificiale nella relazione tra i due insegnanti, soltanto una grande amicizia ed un mutuo rispetto.


Alcuni suppongono un diretto collegamento storico in Cina tra lo Zazen e il Sanchin, tracciando l’origine di entrambe le tradizioni nel Tempio di Shaolin, dove il Maestro Bodhidharma visse, e alcuni affermano anche che il Maestro Bodhidharma ebbe un influsso sullo sviluppo dei Kata del Karate. 
Nello "Shobogenzo", comunque, il Maestro Dogen rende chiaro che per il Maestro Bodhidharma l'aspetto più portante era lo Zazen:

"Il primo Patriarca, il venerabile Bodhidharma, dopo essere arrivato dall’Oriente, trascorse nove anni rivolto verso il muro al tempio di Shaolin, sedendo in Zazen nella postura del Loto. Da quel tempo ad oggi, i ‘cervelli’ (l’idea Buddhista) e gli ‘occhi’ (la visione Buddhista) hanno pervaso la Cina. La linfa vitale del Primo Patriarca è solo la pratica di sedere nella postura del loto completo. Prima che il Primo Patriarca giungesse dall’Oriente le persone dei territori d’Occidente non sapevano nulla circa il sedere nella postura del loto completo. Grazie alla venuta dell’antico Maestro dall’Oriente ne sono venuti a conoscenza. 
Essendo così che, solo semplicemente sedere nella postura del loto, giorno e notte, dall’inizio alla fine di questa vita, e per decine di migliaia di vite, senza abbandonare il territorio del Tempio e senza avere nessun’altra occupazione, è il samadhi (stato di equilibrio) che è il Re dei samadhi".

Ma per me, almeno, le due tradizioni sono perfettamente unite, perché la pratica del Sanchin mi ha condotto direttamente allo Zazen del Maestro Bodhidharma.

Fu in una libreria ad Okinawa, nell’Aprile 1982, dopo una sessione di allenamento con Higaonna Sensei, che mi accadde di prendere tra le mani un libro intitolato: "Come Praticare Zazen" che era stato scritto da Nishijima Roshi.

Un’altra cosa che mi sono riportato indietro da quella trasferta ad Okinawa è l’importante esortazione che An’ichi Miyagi Sensei mi aveva dato, non con le parole, ma con le sue mani:
‘Tieni la schiena ben diritta’.


La Postura Corretta,

Tenere la schiena diritta



Kodo Sawaki Roshi 

Tenere la schiena ben diritta è assolutamente essenziale sia nello Zazen che nel Sanchin. 
Per ottenere questo noi spingiamo in su con la nuca, tirando leggermente il mento in dentro e evitando di pendere in avanti o all’indietro a destra o a sinistra.

Inoltre, sia nello Zazen che nel Sanchin, le spalle devono rimanere basse, il petto è mantenuto aperto, la lingua è spinta contro il palato superiore, e gli occhi sono tenuti naturalmente aperti.

Higaonna Sensei sottolinea che nel Sanchin dobbiamo essere saldamente radicati alla terra, con le dita dei piedi il più aperte possibile e come se afferrassero il suolo (come un polipo). Come nel Sanchin, così anche nello Zazen: la postura tradizionale del loto completo (con entrambe le ginocchia che premono al suolo e i glutei su di un cuscino) ci fa apparire e sentire radicati, ben diritti, e inamovibili - come se nulla potesse recare disturbo alla postura stessa. 
Nello ‘Shobogenzo’, il Maestro Dogen cita le parole del Buddha stesso:

"Dovremmo sedere come dei dragoni avvolti a spirale! Nel vedere anche soltanto un’immagine disegnata della postura del loto, anche il re dei demoni è impaurito. Quanto può esserlo di più se vedesse una persona che sta realmente sperimentando lo stato di realtà, sedendo immobile e senza vacillare ?".


Respirare dal Tanden 


Nel suo libro in Inglese: " Karate-do tradizionale" vol.2: ‘esecuzione dei kata’, Higaonna Sensei scrive,

"Quando esegui il Kata Sanchin, devi immaginare che l’aria non si fermi ai polmoni, ma continui il suo percorso giù fino al basso addome. La respirazione del Sanchin (come quella del bambino) è addominale e non fa sollevare il petto."



Poi continua "Dopo che avrai praticato il Kata Sanchin per un certo periodo di tempo sarai capace di concentrare tutta la tua potenza nel Tanden (circa tre dita sotto l’ombelico). 

Questo traguardo, io credo, non solo ti aiuterà a vivere una vita più lunga, ma ti aiuterà a fronteggiare le situazioni stressanti con un atteggiamento più calmo."

Il maestro Zen Dogen non fa menzione del Tanden nel "Metodo dello Zazen" nello ‘Shobogenzo’(essendo il suo principio che il respiro debba essere naturale, non oggetto di uno sforzo intenzionale), ma fa menzione del respiro Tanden in un altro libro intitolato "Eihei Koroku". Afferma, 
"Nello Zazen di un monaco, solo il sedere con una postura diritta sarebbe la cosa principale. Dopo di ciò, regoliamo il respiro e realizziamo la mente. (Non solo nel Piccolo Veicolo ma) anche nel Grande Veicolo (Buddhismo Mahayana), esiste un metodo di regolare il respiro; cioè, essere consapevoli, questo respiro è lungo, questo respiro è breve, questo è il metodo di regolare il respiro nel Grande Veicolo. Il respiro va al Tanden e se ne va dal Tanden. L’espirazione e l’inspirazione sono differenti, ma entrambe sono eseguite dal Tanden - è facile così comprendere l’impermanenza, e facile ottenere una mente equilibrata."

Il Tanden sembra essere strettamente correlato al sistema nervoso autonomo, che governa i processi fisiologici e mentali che sono al di là del nostro controllo cosciente. 
Il sistema nervoso autonomo ha due settori principali: il sistema nervoso simpatico che stimola il corpo e la mente e risveglia (per esempio nell’affrontare una situazione d’emergenza) e il sistema nervoso parasimpatico che si occupa di recuperare le energie e la salute. Mentre il sistema nervoso simpatico si dirama dal sistema nervoso centrale all’altezza della nuca e del petto, il sistema nervoso parasimpatico diparte dal sistema nervoso centrale in due punti: alla base del cervello, e alla fine della spina dorsale. 
Parrebbe che il respiro naturale dal Tanden sia strettamente correlato con la funzione dei nervi sacrali parasimpatici - quelli che emergono dalla base della spina dorsale, e che si innervano densamente nella bassa regione addominale.
A parte le spiegazioni fisiologiche, il Maestro Dogen ci ricorda nello ‘Shobogenzo’ che respirare è la nostra vita: 

"Il passato è stato espirazione ed inspirazione, ed il presente è espirazione ed inspirazione. Questo dobbiamo sostenere e su questo dobbiamo fondarci, come il Fiore del dharma (la meravigliosa realtà) che è troppo bella da poter essere oggetto del pensiero."


Heijo Shin (La Mente Normale)


Heijo Shin
(calligrafia di Nishijima Roshi)

Il concetto di Heijo Shin, o ‘mente normale’ viene dal Buddhismo cinese. 
Indietro fino alla Dinastia Tang nel 9° secolo Dopo Cristo, il Maestro Zen Joshu chiese al suo Maestro Nansen "Cos’è la verità?" il Maestro Nansen rispose "La Mente Normale è la Verità stessa."

Hei significa ‘livello’ o ‘ equilibrato’ o ‘ordinario’ o ‘medio’, e jo significa ‘costante’. Insieme heijo significa ‘normale’ o ‘ordinario’.

Shin significa ‘mente’. Nel libro ‘Okinawa Goju-Ryu Karate-Do’ (in giapponese).
Higaonna Sensei scrive circa l’ Heijo Shin o ‘mente normale’ come segue:

"Quello che coordina la postura del Sanchin ed il suo metodo respiratorio è la mente. ‘Mente’ significa il giusto atteggiamento mentale. Per esempio, non dovremmo portare le nostre preoccupazioni quotidiane durante la pratica del Kata Sanchin. Le preoccupazioni e le ansie provocano il rilassamento dei muscoli del corpo che invece dovrebbero essere mantenuti in tensione durante l’esecuzione del Kata Sanchin. Le preoccupazioni disturbano anche il ritmo del respiro. Il corretto atteggiamento mentale che evita questi problemi non è altro che Heijo Shin (la mente normale). E la continua, perseverante, giornaliera pratica del Kata Sanchin costruisce la forte costituzione mentale che ci permette di mantenere la mente normale."

Nel considerare il significato di ‘Mente Normale’, è di nuovo interessante considerare la funzione del sistema nervoso autonomo. Come detto prima, un forte sistema nervoso simpatico ci rende pronti ad ogni evenienza, o a situazioni inattese. Così quando il sistema nervoso simpatico è troppo forte, ci rende anormali, non equilibrati. E quasta relazione si manifesta anche all’inverso: voler divenire qualcosa di speciale eccita il sistema nervoso simpatico rendendolo troppo forte.
E’ per questo che gli insegnamenti del Maestro Dogen pongono molta enfasi nel praticare solo gustando la pratica, praticare solo per praticare, non tentare di divenire un Buddha, non cercare di divenire nulla.
Nelle sue parole il Maestro Dogen dice,

"Lo stato dell’autentica esperienza non ha scopo, ed è comunque sforzo."

La pratica quotidiana di Zazen e del kata Sanchin ci insegnano il valore del fare uno sforzo senza scopo. Quando ci dedichiamo ad essi sinceramente, senza riserve, il Kata ci insegna ad essere soddisfatti con la realtà della mente normale - essere soddisfatti con ciò che è già qui, davanti a noi.




© Tora Kan Dōjō






domenica 20 gennaio 2019

Deprogrammarsi






Se qualcuno vuole fare il pugile, non lo buttate sul ring dicendogli: "Datti da fare!". 
Deve imparare. Se qualcuno vuole diventare uno spadaccino, dovrà allenarsi per anni, altrimenti non saprà neppure tenere in mano una spada, gli sarà impossibile usarla e combattere. Come prima cosa dovrà imparare come tirarla fuori dal fodero, come tenerla in mano. 
Si deve allenare. Non date in mano una chitarra o un sitar a qualcuno che non ne ha mai vista una, aspettandovi che suoni come Andrès Segovia o come Ravi Shankar. 
Ebbene, è proprio questo il vostro errore. 
Avete mai istruito le persone che oggi sono al governo? Qualcuno ha mai pensato che le persone nelle cui mani è accumulato un potere tanto grande devono avere qualità particolari, che impediscano loro di abusare di tale forza? Non è colpa loro se questo avviene. 
Ecco perché io propongo che in ogni università nascano due nuovi istituti: il primo sarà un istituto per la deprogrammazione. 
Chiunque ottenga una laurea dovrà, come prima cosa, ottenere un diploma che ne attesti la deprogrammazione in quanto cristiano, in quanto hindu, in quanto tedesco, in quanto americano, comunista, musulmano, ebreo, che elimini qualsiasi altro marchio di fabbrica gli sia stato stampato addosso. Sarà la prova che siete stati ripuliti da ogni pattume, perché questo è stato finora il vostro guaio. 
Quando si è creduto in qualcosa per cinquanta, sessant'anni, se a un tratto io dico che è solo un'assurdità, è inevitabile che vi irritiate, che vi irrigidiate, perché vorrebbe dire che per tanti anni siete stati stupidi. Ma se avete fegato e intelligenza, è ancora possibile uscire da questo baratro. La mia religiosità non è altro che scienza della deprogrammazione. 
Deprogrammare vuol dire lasciarti semplicemente privo di qualsiasi programma: privo di religione, razza, casta, nazionalità... vieni lasciato solo, ti è concesso di essere te stesso, di essere un individuo. Bastano quattro anni. 
La deprogrammazione non richiede molto tempo: bastano poche ore al mese, per quattro anni, e ti troverai deprogrammato. E non verrà rilasciato nessun certificato di laurea se prima l'istituto di deprogrammazione non dichiara che: "Questa persona non ha più etichette. 
Ora è un semplice essere umano". 
Il secondo istituto sarà l'istituto per la meditazione perché la semplice deprogrammazione non è sufficiente. Questa ti ripulisce da ogni contaminazione, ma restare vuoti è difficile: di nuovo tornerai a raccogliere immondizie. 
Da solo non sei capace di imparare a vivere felice nel tuo vuoto interiore, e l'arte della meditazione è proprio questo. Per cui il secondo istituto ti fornirà l'aiuto della meditazione. Non sono necessarie cose complesse: le università, l'intellighenzia, hanno la tendenza a complicare le cose. 
E' sufficiente un semplice metodo di osservazione del proprio respiro: ogni giorno, per un ora, dovrai andare a quell'istituto per stare semplicemente seduto in silenzio a osservare il processo della tua mente, mentre la tua attenzione resta focalizzata sul respiro. 
Non occorre fare nulla. Sii un semplice testimone, un osservatore, uno scrutatore, guarda il movimento della mente, lo scorrere dei pensieri, desideri, ricordi, sogni e fantasie. 
Resta semplicemente distaccato, tranquillo, senza criticare, senza giudicare. 
Una volta che ne afferri il meccanismo, diventa la cosa più facile del mondo. 
Il giorno in cui una persona inizia a godersi il proprio vuoto, la propria solitudine, il nulla, è uno dei giorni più belli della sua vita, perché da quel punto in poi potrà vivere in meditazione: e con questo intendo dire vivere in amore, con attenzione, essere un testimone. 
Questi processi di deprogrammazione e di meditazione si sviluppano di pari passo. Un istituto continua a purificarti, a svuotarti; l'altro a riempirti, non di cose, ma di qualità: beatitudine, amore, compassione, un'incredibile sensazione di avere valore, senza alcuna ragione. 
Il semplice vivere, respirare, è una prova che l'esistenza ti considera degno di essere qui. 
Tu sei indispensabile all'esistenza. Qualsiasi cosa fai, falla con gioia e totalità: come se in quel momento fosse la cosa più importante del mondo. 
Quando fai una cosa qualsiasi con tanta intensità, con tanto amore e rispetto, ne vieni trasformato. E ciò che neri ti trasforma, non è meditazione. 
La meditazione ti renderà un essere umano nuovo, ti darà una consapevolezza nuova che non conoscerà paura alcuna, né sarà austera, avida, colma di odio. A quel punto nessuno potrà più riprogrammarti; nessuno, nel mondo intero, sarà in grado di farlo. 
Se l'istituto di meditazione non ti rilascerà il suo diploma, l'università non ti concederà nessuna laurea. La laurea verrà solo quando avrai conseguito un certificato di "pulizia" da parte dell'istituto di deprogrammazione e un diploma da parte dell'istituto di meditazione. Dipenderà da te: potrai essere promosso in un anno, in due, in tre oppure quattro. 
Ma quattro anni basteranno e saranno d'avanzo: qualsiasi imbecille, se solo sta seduto un ora ogni giorno senza far nulla per quattro anni, scoprirà inevitabilmente ciò che scoprirono Buddha o Lao Tsu, ciò che ho scoperto io. 
Non è questione di intelligenza, di talento o di genio. 
Si deve solo aver pazienza. Sono requisiti obbligatori per qualsiasi studio; in questo modo, quando uscirai dall'università, non sarai solo una persona intelligente e istruita, sarai anche una persona che medita: rilassata, felice, silente, tranquilla, in pace, capace di osservare, attenta, intuitiva. 
E non sarai più un cristiano, né un hindu, né sarai più un americano o un russo: ti sarai liberato completamente da questi pesi. In questo modo, mentre vieni istruito, al tempo stesso e in maniera molto sottile, vieni preparato a gestire il potere, in modo tale che questo non ti possa più corrompere, che tu non ne possa più abusare.


Osho Rajneesh



© Tora Kan Dōjō





mercoledì 16 gennaio 2019

Momenti di Pratica, Servire il Tempio - Moments of Pratice, Serving the Temple Ita/Eng






C’è un’espressione bellissima nello Zen che è I Shin den Shin, da cuore a cuore, da mente a mente. Questa espressione, spesso inflazionata, indica proprio la connessione, il dialogare tra Maestro e discepolo e questo link, questa comunicazione interpersonale diretta da cuore a cuore, passa attraverso canali altri, che non sono la razionalità, la mente duale, la parola. Quando sono in Giappone accanto al mio Maestro, anche se non capisco bene la sua lingua, che poi è un giapponese molto colto, molto difficile da comprendere, capisco però cosa dice ogni suo gesto, cosa dice il suo muoversi nel Tempio.
È un Insegnamento profondo, che arriva alla radice del mio essere. Un mio discorso a Shinnyoji ha creato grande scompiglio nel Sangha. Mi è stato detto che è stato come avessi gettato una bomba, e diverse persone si sono allontanate, hanno lasciato il Tempio. 
Devo dire che evidentemente, come Maestro, ho colto nel segno, che ho fatto un colpo… da Maestro. Se le mie parole sono servite a fare chiarezza, a rimuovere polvere e confusione nei praticanti, sono state parole sante. Dico comunque che è fondamentale capirsi oltre le parole, capire l'essenza dell'insegnamento, cogliere quel quid che fa fare il salto quantico, abbandonando il razionale, il giudizio, la separazione, il me e l’altro-da-me, e fa toccare il cuore della Pratica, il cuore dello Zen, il cuore del Dharma. 
Così quando leggiamo un testo, quando sentiamo un insegnamento, fondamentale è quel momento in cui on va à se reconnaître, ci si riconosce. 
La parola, il suono, riconosce l'udito, l'orecchio. Scatta quella vibrazione di diapason, quell’eco del Buddha che risuona eterna nella valle, senza inizio né fine. È il ruggito del leone, il Dharma che si risveglia nel nostro cuore-mente, nel nostro kokoro.
Allora assolvere i compiti al Tempio, venire al Tempio e tenerlo aperto per permettere a chi suona il campanello di trovare un luogo di Pratica che lo accolga, questi momenti, questi sforzi, porteranno gioia. Non diventano più un atto dovuto, un obbligo. 
Je ne suis pas obligé: svolgere un servizio al Tempio non è un obbligo, è la gioia di praticare. È il riconoscersi, il riconnettersi. Religere, questo è il senso religioso nella Pratica, ricollegarsi alla NaturaBuddha universale. 
Allora diventa un piacere, come andare a incontrare l'amato, l'amante. Non è più un obbligo, non è più una fatica, non è più qualcosa che ci obera e ci fa accollare un peso in più. Diventa la gioia di venire al Tempio, di pulirlo, di raccogliere le foglie in giardino, di annaffiare i fiori, di semplicemente sedersi sullo zafu con chi arriva. 
Se non si attiva questa connessione primaria, questo ri-conoscersi, tutto diventa faticoso e fastidioso, tutto diventa un obbligo e forse diventa opportuno chiedersi se sia necessario venire al Tempio, se non è quello che vogliamo, se non ci dà gioia. 
Durante un colloquio, un praticante mi ha detto che per lui “venire al Tempio è gioia”. Un altro mi ha detto che non sarebbe potuto venire a Zazen e l’ho rassicurato che non era un problema... Mi ha allora spiegato che “il suo era dispiacere per non poter essere presente, perché avrebbe sentito la mancanza della Pratica al Tempio”. 
Una mancanza non data da un attaccamento, ma dalla consapevolezza della gioia nel “ritrovare l'amato”, del semplicemente essere seduti insieme ad altri che credono, sperimentano e percorrono la nostra stessa Via. A qualunque livello pratichiamo, dobbiamo sempre ricordare che nel nostro naturale compito di Bodhisattva, c'è quello di servire la Casa Spirituale come la nostra casa, la Famiglia Spirituale come la nostra famiglia. 
Il Tempio non è qualcosa di estraneo, non è qualcosa che possiamo vivere come un'associazione ricreativa spirituale o come un centro benessere. È qualcosa che richiede comunque un grande impegno, un grande sforzo, ma è anche qualcosa a cui vogliamo dedicarci. Ci impegniamo perché ci interessa, perché ci crediamo, perché sperimentiamo ogni giorno i doni infiniti della Pratica e ne beneficiamo. 
Ci impegniamo perché ci riconosciamo nella Via del Buddha, ripercorrendo i passi degli Antichi Maestri, degli Antichi Patriarchi.
È molto difficile Praticare Zen oggi, in un mondo in cui vale solo ciò che si ha voglia di fare, ciò che ci piace fare. È difficile abbandonare il concetto di “ciò che ho voglia di fare” e “fare ciò che è buono per me”, per la mia vita, per ciò che semplicemente sono chiamato a fare. 
Lo Zen come ogni Arte richiede disciplina. Ogni Religione, ogni Dottrina, ogni Filosofia, ogni Arte, richiede disciplina. 
Ogni volta che mi pongo la domanda “Cosa voglio fare?”, il mio ego mi dice che voglio tutto ciò che è profitto, tutto ciò che è semplice da realizzare , tutto ciò che è più facile. Per portare avanti la nostra Pratica dobbiamo decidere se vogliamo seguire il nostro “ego” e il nostro karma, oppure affrontare un cambiamento. Sicuramente il nostro karma non ci aiuta in questa spinosa scelta, per questo ci vuole una forte determinazione. 
E’ importante anche comprendere come la nostra Pratica non possa rivolgersi solamente a noi, ma a tutti gli esseri, senza dimenticare l'importanza di sostenere il luogo di Pratica. Se non lo si sostiene, se non lo si ama, se non lo si cura, il Luogo di Pratica non può esistere. Se non cooperiamo per far nascere una comunità, il Luogo si spegne. 
Importante è ricordare che siamo arrivati Qua e siamo stati accolti da chi ha operato, e continua a operare, per tenere aperto questo Luogo. 
Questo Bene non è qualcosa che cade dal cielo. Nasce da uno sforzo comune, da un dovere comune: una volontà rivolta agli altri, per il bene degli altri. 
Impegno che sicuramente comporta delle rinunce e porta a delle scelte.
Ognuno di noi ha tanti impegni nella vita, ma se capiamo l’importanza di ciò che abbiamo incontrato, la Via del Buddha, un Luogo dove Praticare, allora troveremo la forza di sostenerci insieme nella nostra Pratica.

    
Rev. Shinnyo Marradi 
Shinnyoji, estate 2018


Tratto da EKIZEN
Notiziario del Sangha di Shinnyoji, autunno 2018.


MOMENTS OF PRACTICE
SERVING THE TEMPLE


There’s a lovely saying in Zen: I Shin den Shin – from heart to heart, from mind to mind. Often overworked and misused, it clearly identifies that particular connection, that link that binds together a Master and a student. Such interpersonal communication that goes from heart to heart flows through channels that are beyond words, rationality and the dual mind. When I’m visiting my Master who speaks to me in his sophisticated Japanese that’s so hard to understand, I’m nevertheless able to comprehend the meaning of his gestures, and of his movements around the Temple. It’s a profound teaching that reaches deep within me. One of my speeches at Shinnyoji created much concern within the Sangha. I’ve been told that it was like letting off a bomb and, as a consequence, many people distanced themselves from the Temple. I must say that, evidently, I hit the mark and delivered a true master stroke. If my words helped to clarify things, to remove the dust and confusion that was blinding practitioners, then they were words of wisdom. I would like to emphasize the importance of comprehension beyond words, getting to the core of the teaching and catching the clue that triggers a quantum leap forward. We need to abandon rationality, judgement, separation, what’s me and what’s other-than-me, touching the very heart of practice, the heart of Zen and of Dharma. When we read a text or hear a teaching, fundamental is the moment when on va à se reconnaître, when we identify. The word, the sound, recognises hearing, our ear. 
Like a tuning fork it vibrates – a Buddha’s echo eternally reverberating in the valley. 
It’s the lion’s roar, the awakening of Dharma in our heart-mind, our kokoro. In this way our efforts to fulfil the assigned tasks at the Temple, to keep it open, thus allowing anyone that rings the doorbell to find a place of practice, will bring joy and will not be seen as an obligation. Je ne suis pas obligé: service at the Temple is not a duty, it’s the joy of practice. It’s recognising oneself, re-connecting. Religere: this is the true religious sense of practice; re-connecting with the universal Buddha-nature. 
Then everything becomes pleasant, like meeting with someone’s own lover. It’s not a chore, a burden; it no longer requires effort, it’s the joy of coming to the Temple to clean it, to pick up the fallen leaves in the garden, to water the plants, to simply sit on a zafu with whomever arrives. If we do not activate this primary connection, this mutual recognition, everything becomes tiring and irritating. 
When everything is seen as a “must do”, if it’s not what we want, what brings us joy then it might be worth asking ourselves if it’s necessary to come to the Temple at all. During an interview, a student said to me that to him, coming to the Temple meant joy. 
When another told me that he could not come to zazen, I reassured him that it was not a problem. He then told me that he felt sorrow for not being able to attend, that he would miss not being able to come to that week’s practice. 
He was longing for the joy of finding what one values highly: just sitting together with others that like him believe, experience and walk on the same Path. Whatever is the level reached in our practice, we must not forget that one of the duties we have as Bodhisattvas is to serve the Spiritual House like our own home, the Spiritual Family like our own family. The Temple is not something estranged from us, we cannot relate to it as if it was a club or a wellness centre. Although it demands great effort on our part, it’s something we want to dedicate ourselves to. We commit because we believe in it, because every day we benefit from the precious gifts of our practice. We commit because we identify in Buddha’s path and we walk in the footsteps of the ancient Masters. It’s very difficult to practice Zen today in a world where the only thing that counts is doing what we like. 
It’s very difficult to rid our minds of concepts such as “doing what I like to do” and “doing what is best for me, for my life. Doing just what I’ve been called to do”. Zen, like all forms of art, requires discipline. Every religion, philosophy or art, requires discipline. Every time that we ask ourselves “what do I want to do”, our Self replies that we want what brings us profit, what is easy to achieve. To carry on with our practice we need to decide whether we want to listen to our Self and our karma, or face change. 
Our karma will surely not help us in making such a difficult choice and therefore we need to be very determined. It’s similarly important to understand that our practice should not be directed inwards but must turn to all beings and should also include supporting the place where we practice. If we do not love it, care for it, support it, such place cannot exist. If we do not work together to create a sense of community, the Place will fade away. 
We must keep in mind that when we arrived, we were welcomed by those who dedicated their efforts, and still do, to keep this place open and functioning. This precious resource is not godsend. It is the end result of a committed effort, a common responsibility towards others and their wellbeing, and such commitment implies that we make some choices and give up something. 
We all live very intense lives and we have many responsibilities but if we understand the importance of what we have come across, of Buddha’s Path, of the Place where we can practice, we will then find the necessary energy to support each other in our practice.


Rev. Shinnyo Marradi 
Shinnyoji, summer 2018


From EKIZEN
Shinnyoji Sangha Newsletter, autumn 2018.



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