domenica 31 maggio 2020

Accogliere l'inaccettabile, abbandonarsi alla corrente

Non cerco un percorso per essere lasciata in pace e, se anche lo conoscessi, non lo insegnerei mai. È meraviglioso lasciarci disturbare dalla vita, dagli altri e nello stesso tempo non restarne schiacciati. Non si tratta di essere imperturbabili, ma imperturbati dal turbamento, accogliere ogni visitatore, e si sa, i piú scomodi e molesti hanno grandi doni in tasche nascoste. E accogliere non è accettare, si può accogliere l’inaccettabile, e poi ci si può piú efficacemente ribellare, spingere via, scappare, denunciare, quando è necessario. Si è vivi e saper dire o urlare: «No!» è una delle facoltà umane piú onorevoli. C’è una bellissima parola negli scritti del Buddha: nibbidā. Significa “sereno disincanto”. Di solito, noi siamo sereni quando siamo incantati, illusi, e quando ci ridestiamo, ci disincantiamo, diventiamo amari, cinici, sfiduciati. Ma in questa parola c’è un invito che, come in tutte le parole del Buddha, è anche un percorso e una visione. Il disincanto può essere sereno perché ci aspetta l’incantevole realtà, la serenità profonda dell’abbandonarsi a e non dell’essere abbandonati da. Tutto scorre e posso abbandonarmi allo scorrere, anziché costantemente lottare con la corrente, posso entrare nella corrente, farne parte.


tratto da: Candiani, Chandra Livia. Il silenzio è cosa viva: L'arte della meditazione. Einaudi.





© Tora Kan Dōjō







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venerdì 29 maggio 2020

Il tempo degli altri



Uno scambio di domande e risposte con  Giangiorgio Pasqualotto sull'Oriente e il Buddhismo tratto da gianfrancobertagni.it



"..La lentezza non vuol dire abbandono all'ozio totale.  Vuol dire attenzione al momento. Allora ciascun momento diventa immenso, dal punto di vista psicologico, e tu lo puoi vivere assolutamente, pienamente, senza più confrontarlo con quello che vivevi prima (per vedere se era più cattivo o più buono) e senza vederlo in rapporto ad un futuro..."

PASQUALOTTO: Buongiorno, sono Giangiorgio Pasqualotto, insegno Storia della Filosofia all'Università di Padova e mi interesso da molti anni di buddhismo, di taoismo in particolare, e penso che voi, giovani, sappiate già qualcosa di questi argomenti.
STUDENTE: L'esperienza raggiunta da molti occidentali delle filosofie e della cultura orientale, grazie ad una sempre maggiore diffusione della conoscenza del mondo orientale, è il diretto effetto dei sempre più fitti scambi che sono stati intrattenuti tra il nostro mondo e quello orientale. Penso che una differenza sostanziale tra l'occidente e l'oriente sia evidente nel modo di vivere il tempo e lo spazio. Infatti il nostro tempo e il nostro spazio sono comunque più delimitati rispetto a quello orientale, mentre la loro vita è come se fosse un eterno fluire del tempo in cui si materializzano i mutevoli fenomeni della realtà. E da ciò risulta che la nostra vita è più schematizzata, mentre la loro è più legata ai riti, alle tradizioni, che evidenziano un'armonia dell'uomo con la natura. Alla luce di tutto questo vorrei leggere una citazione di Schopenhauer, tratta da Il mondo come volontà e rappresentazione: "In India non potranno mai mettere radici le nostre religioni. La sapienza originaria dell'uman genere, non sarà soppiantata dagli accidenti successi in Galilea. Viceversa torna l'indiana sapienza a fluire verso l'Europa e produrrà una fondamentale mutazione nel nostro sapere e pensare". Quindi, alla base delle precedenti considerazioni, possiamo dire che Schopenhauer aveva ragione oppure che la situazione si è invertita?
PASQUALOTTO: Schopenauer ha ragione ma ha anche torto. Effettivamente l'Oriente - in particolare la civiltà tradizionale indiana e quella buddhista - hanno conosciuto, recentemente, delle enormi "espansioni" in Occidente. Però è altrettanto vero che le civiltà tradizionali orientali, direi soprattutto l'India, ma ormai anche la Cina, in maniera massiccia, stanno subendo una forte influenza da parte dell'Occidente. Quindi il fenomeno ha una portata reciproca. Schopenhauer sognava sostanzialmente un'orientalizzazione dell'Occidente, proprio quando, invece, stava proprio cominciando una occidentalizzazione dell'Oriente. Detto questo è assolutamente necessario fare alcune precisazioni di fondo. Il concetto di tempo, e soprattutto lo stile di vita, il modo di vivere il tempo, in Oriente, tradizionalmente è sempre stato qualcosa di completamente opposto, radicalmente diverso da quello nostro. Vorrei dire rapidamente due o tre caratteri di questo modo di vivere il tempo. Allora, innanzi tutto, il tempo orientale è sempre stato, (e questo lo vediamo persino nella Grecia classica, sino, praticamente, a Platone), di carattere ciclico, con una forma ciclica, perché il modello fondamentale a cui fa riferimento l'Oriente è la Natura. Penso, in particolare, al taoismo. Quindi, come la Natura ha i propri cicli, sempre regolari (le stagioni si susseguono, il giorno segue la notte) nello stesso modo la vita umana dovrebbe regolarsi, seguendo un ritmo ciclico. Qui bisognerebbe fare subito un'altra precisazione, perché noi occidentali, quando pensiamo alla ciclicità, pensiamo subito all’immobilità, e quindi alla stasi. Non è affatto vero, come non è affatto vero che, poiché la Natura, nell'anno solare procede per stagioni, le stagioni siano sempre le stesse. Avvengono dei mutamenti, ma all'interno di un ritmo che è sempre uguale. Quindi nessuna primavera è uguale all'altra, ma ci sono sempre delle primavere. Quindi la forma della ciclicità per gli orientali garantisce la stabilità, ma anche l'innovazione. Anche nei momenti più forti della storia cinese, anche di rottura rivoluzionaria della storia, noi troviamo questa compresenza di stabilità e di mutamento. Questa è la prima cosa da chiarire. La seconda cosa è che spazio e tempo, nella tradizione cinese, hanno sempre rappresentato un binomio molto stretto, e non sono mai state viste come due cose in opposizione. Per cui un oggetto, una cosa, una persona, un evento non sono mai classificabili solo geometricamente o spazialmente o solo cronologicamente, ossia soltanto sulla base del tempo tecnicamente misurato. Ma una cosa, nella loro visione della realtà, è vista come un evento, come, possiamo dire, un'attività. Faccio un esempio: quelli che noi nella tradizione occidentale chiamiamo "elementi classici": acqua, aria, fuoco, terra, per i Cinesi sono non quattro elementi, ma quattro agenti, ossia quattro attività, perché queste quattro cose sono in quanto agiscono. Queste sono i due concetti principali, poi ve ne sono anche altri che vertono sulla vita quotidiana, ma su questo forse sarebbe meglio introdurre un contributo filmato, che ci mostra esattamente che cosa vuol dire questo modo di intendere il tempo nella vita quotidiana secondo le culture orientali.
MAESTRO ZEN: Ci sono due estremi con i quali dobbiamo confrontarci in continuazione. Il Buddha - il Buddha storico - ha insegnato la via di mezzo, che è appunto un equilibrio tra l'estremismo della lentezza e quello della velocità. Nello Zen, la nostra Scuola, si insegna ad essere capaci di adattarsi a tutte le situazioni, perché questo è possibile soltanto nel momento in cui noi essendo costantemente attenti, presenti, a noi stessi, sviluppiamo la retta presenza mentale. In quel momento, quando noi siamo presenti, siamo attenti, siamo capaci di essere veloci, se vogliamo esserlo e se la situazione lo richiede, e di essere lenti, addirittura immobili, se, appunto, decidiamo di fermarci a pensare o a meditare. Possiamo accedere, attraverso la pratica ascetica, ad un tempo che possiamo definire infinito. Noi viviamo tutti i giorni nel tempo finito, quello misurabile, dagli orologi, dai calendari, dalla nostra forza, dalla nostra età, dalla quantità di denaro che abbiamo e da tante altre unità di misura. E' importante che esistano questi metri che misurano, però, nello stesso tempo, dobbiamo riuscire ad entrare nell'infinito, perché se noi non assaporiamo mai l'infinito, non siamo capaci neanche di vivere nel finito. Quando sono entrato nel Monastero giapponese, ovviamente, avevo un'idea cristiana del Monastero, e quindi di una persona che entra in un luogo di culto e ci rimane per tutta la vita. Immediatamente mi sono accorto che il Monastero giapponese prepara alla vita, come una palestra, dove noi andiamo a scoprire le nostre capacità. Tutte le azioni che si compiono durante la giornata si rifanno ancora al detto di un maestro cinese dell'Ottocento: "Un giorno senza lavoro è un giorno senza mangiare". Il monaco sa che, dopo un certo periodo di anni, dovrà ritornare nella società, e quindi è capace di vivere, una volta rientrato nel mondo sociale, nella vita alla velocità delle stagioni, alla velocità che la società richiede e, naturalmente, adattandosi, perché conosce, ormai, perfettamente se stesso.
STUDENTE: Il linguaggio esprime sempre le basi di una civiltà. Secondo Lei si può dire che il nostro linguaggio risulti più statico rispetto a quello degli orientali, visto che il linguaggio orientale esprime già di per sé una visione della vita più movimentata, più veloce?
PASQUALOTTO: Per quanto riguarda il linguaggio verbale, non ci sono dubbi, perché il linguaggio verbale è scansione di parole nel tempo e quindi sia le parole delle lingue occidentali che di quelle orientali si consumano. La questione si fa più interessante per quanto riguarda il linguaggio scritto. Questo per vari motivi. Innanzi tutto, i caratteri cinesi, come voi sapete, non sono dei segni in sequenza lineare. Sono dei segni, dei disegni, che danno compattamente, simultaneamente, l'idea di una cosa. Quindi il tempo, psicologico necessario per passare da una parola che deve essere letta all'idea, al significato mentale, di questa parola, al contenuto di questa parola, è completamente diverso dal tempo che si impiega nelle lingue occidentali. Perché, ad esempio, nella parola "cane", nelle lingue orientali, è necessario seguire la scansione delle lettere che compongono quella parola, poi effettuare un riferimento acustico che poi diviene mentale. Nel cinese, come nel giapponese, questa idea si disloca immediatamente nella mente, senza la mediazione acustica,. Molte volte è suggerita, addirittura, da alcuni segni di questo carattere. Quindi, in queste lingue orientali, i tempi di lettura e quelli percettivi sono completamente diversi rispetto ai nostri. Questo è il primo fatto fondamentale. Poi, in particolare, nella lingua cinese, è prevalente il riferimento all'agire, all'azione, all'attività. Come dicevo prima, qualsiasi cosa che per noi è inerte, (si pensi al legno o al metallo, che sono solo alcuni tra i cinque agenti) nell'ontologia orientale ha un'attività nei confronti di qualcosa e una passività nei confronti di un altro elemento. Comunque non c'è nulla al mondo che sia puramente statico. Né i cinque elementi, né tutti quegli elementi che risultano composti di quelli basilari, perché tutto è attività.
STUDENTE: Considerando la vita come un attimo dell'eternità non c'è il rischio che l'uomo perda la sua importanza come individuo?
PASQUALOTTO: È proprio questo uno degli scopi fondamentali sia del buddhismo che del taoismo. Tutti i mali, per così dire, o tutta la sofferenza degli uomini deriva dal fatto che l'uomo si è sempre concentrato sul proprio io, fino a farne una specie di centro, e questo io è diventato ipertrofico ed è cresciuto talmente, ed ha assunto dimensioni narcisistiche tali, da sostituirsi al mondo steso, diventando il centro del mondo. Ora questa non è una cosa puramente teorica. In particolare il buddhismo sostiene che tutte le sofferenze sono fondate su questo accentramento all'io, su questo "ego-centrismo" per così dire. Ora questo con il tempo che cosa ha a che fare? Vi voglio offrire alcuni elementi emblematici molto concreti. Quando si sta attenti alle cose, a ciò che si fa, non si sta mai attenti a sé stessi, ma si sta attenti all'azione che viene compiuta. Questo è il primo punto fondamentale, che è, come dire, presente nella meditazione. È un concetto decisivo anche nel "tai-chi". Pensate a quei movimenti lentissimi che vengono compiuti in quegli esercizi. Il "tai-chi" è una delle attività migliori che ci siano per depurare la mente dal ritmo frenetico della vita quotidiana, ma, nello stesso tempo, come diceva il maestro, è uno dei migliori esercizi esistenti per non abbandonare sé stessi alla lentezza di chi non fa assolutamente niente, di chi vive come una specie di ameba invertebrata, di chi è bloccato nel non fare nulla. Esso consiste nell'allentare i movimenti, in modo che di quei movimenti si sia perfettamente consapevoli, stando attenti a tutto quello che si fa. Tutta la cerimonia del tè è una cerimonia di autoaddestramento psichico per rallentare i tempi e intensificare la qualità dell'attenzione.
STUDENTE: Che cosa l'affascina del mondo orientale?
PASQUALOTTO: In genere proprio tutte quelle cose che io detesto del mondo occidentale e che, purtroppo, vedo che si stanno allargando anche al mondo orientale. E una di queste è proprio la concezione del tempo. Secondo me noi siamo letteralmente strappati via dalla vita con questa visione del tempo che ci siamo imposti, e per vari motivi: storici, politici, economici, e credo che in questo tipo di civiltà tradizionali si possa ritrovare un concetto di tempo, in una parola, qualitativo, ritrovando l'intensità della qualità dei momenti che si vivono. Facciamo un esempio. A nessun orientale, tradizionalmente, veniva in mente che un lavoro deve essere fatto in un tempo stabilito astrattamente, in due o tre ore. Ogni lavoro ha il proprio compimento in base al tempo interno di quel lavoro. Ossia quando una cosa ha bisogno di dieci ore per essere compiuta perfettamente, ci si mette dieci ore. Non c'è una imposizione dall'esterno. Ecco, questo è un esempio. Un altro esempio sono le rappresentazioni teatrali nell'antica Cina e nell'antico Giappone, che duravano tutta la giornata. Questo cosa vuol dire? Che non esistevano gli orari degli spettacoli, ma ognuno entrava e usciva come se si trattasse di una festa popolare, indipendentemente dall'inizio e dalla fine, perché l'importante è partecipare con le emozioni, con i sentimenti, ad un avvenimento. Se solo pensate a che cosa sia la televisione, vedete a cosa stiamo andando incontro. Il problema fondamentale di tutti i mezzi televisivi ad alta tecnologia è quello dei tempi.
Questo può essere visto come una fuga verso il passato, ma certamente può servire da antidoto per non diventare vittime di questi tempi imposti, di queste temporalità assolutamente frenetiche.
STUDENTE: Cosa simboleggiano quegli oggetti che si trovano sullo sgabello?
PASQUALOTTO: Una è una semplice campana. La campana in tutte le scuole buddhiste, sta a indicare anjincha (mujo in giapponese), che significa "impermanenza", ed è una cosa abbastanza semplice da capire, perché il suono nasce, si sviluppa e poi muore. E questo è il simbolo di qualsiasi cosa, perché nel Dhamapada, in un famoso brano che può riassumere benissimo questa concezione del tempo del buddhismo, si dice: "Tutte le realtà sono anjincha", ovvero:"Tutte le realtà sono impermanenti". Questa affermazione può sembrare una banalità, ma se voi l'applicate a tutte le realtà, non solo materiali, ma anche psichiche, sentimentali e ideali, allora capite che viene ad essere sconvolto completamente tutto il nostro orizzonte di pensiero. Perché noi soffriamo, perché siamo travolti dalla morte, dalla malattia, dalla vecchiaia, da tutte le forme dell'impermanenza. Perché? Perché pensiamo che esista qualcosa in qualche posto che sia permanente, che sia Dio, una verità laica o qualcosa di fondato, e che, viceversa, noi si sia condannati a questo deserto della transitorietà. Nel buddhismo (e anche nel taoismo) questa concezione non esiste. Esiste il tentativo di far fronte a questa realtà, che è una realtà di impermanenza. Non c'è nulla che non sia impermanente. Quindi la campana non è, come dire, il simbolo un po' decadente di qualcosa che se ne va, e noi non dovremmo essere malinconici, per questo qualcosa che se ne va, pensando a qualcosa, che di contro, non se ne va, perché tutto se ne va, tutto passa. E, quindi, voi potete capire che tutto questo comporta una visione completamente diversa della morte, della malattia, della vecchiaia, di tutto! L'altro simbolo è il simbolo del "tai-chi", il tai-chi-tou. È costituito da due cosiddetti pesci. In realtà la colorazione di questi esemplari di tai-chi-tou, spesso, non è perfetta, perché il colore dell'occhio di uno dei due pesci, dovrebbe essere del colore dell'altro occhio. In questo caso, l'occhio del pesce verde dovrebbe essere blu, e l'occhio del pesce blu dovrebbe essere verde. Anche i colori sono diversi, perché di solito c'è il rosso e il blu o il nero e il bianco. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che tutto l'universo, sia interiore, sia esteriore, è condizionato da due principi: "yin" e "yang". Sono due principi complementari che si danno l'alternanza. La cosa principale qual è? È che nessun principio può mai vincere completamente sull'altro, proprio perché nell'altro principio c'è un elemento di quello opposto.
STUDENTESSA: Volevo chiederLe se tutte le religioni orientali, di cui Lei sta parlando, credono nella reincarnazione.
PASQUALOTTO: Dunque, questo è un problema abbastanza complicato. Vorrei fare una distinzione di questo tipo: come anche nelle religioni occidentali esistono due livelli: un livello popolare o naturale e un livello più profondo, mistico, teologico e dogmatico. Nelle religioni orientali, a livello di convinzione popolare, si crede nella reincarnazione perché è un sistema molto rassicurante, molto più di altri sistemi, per poter pensare che noi esseri umani siamo immortali. In realtà, se noi andiamo a consultare i testi, sia del buddhismo che del taoismo, di reincarnazione non se parla affatto. Anzi, il problema fondamentale del buddhismo è proprio quello di superare e di distruggere la paura della morte e quindi di non avere più bisogno di nessun sistema escatologico, né della reincarnazione né dell'immortalità dell'anima, né di nient'altro, per potersi consolare che di fatto noi moriamo. Quando il buddhismo parla di nirvana, esso introduce un concetto che vuol dire "estinzione", non nel senso di, scomparsa di tutto ciò che esiste, ma estinzione del nostro desiderio di sopravvivere, quindi estinzione della nostra mania, per così dire, di essere legati al Dio. Perché, se ci pensiamo attentamente, la reincarnazione non è altro che una proiezione interiore per poter sopravvivere, finalizzata a garantire a chiunque il futuro, nel miglior modo possibile.
STUDENTE: Che legame c'è fra le arti marziali e le religioni orientali.
PASQUALOTTO: Tutti i legami pensabili, fuorché quelli che sono stati tramandati in Occidente. Mi spiego: qui voi avete visto il "tai-chi", che è praticamente il prototipo di tutte le arti marziali che sono venute dopo. Il "tai-chi", in realtà, che cos'era? Era, chiamiamola così, una ginnastica, un esercizio fisico, che aveva due scopi: lo scopo di mettere in armonia le singole parti del corpo con la respirazione, (perché la difficoltà di chi pratica il "tai-chi" sta proprio nel dover stare attento a tutti i movimenti degli arti e nel doverli mettere in sintonia con il respiro; per questo motivo i movimenti sono rallentati). Questa è la prima cosa. La seconda cosa è che il "tai-chi" mima i movimenti delle foglie del vento, o delle fronde di alberi o i movimenti degli animali: la scimmia, l'orso, la tigre. Questo era un altro movente per mettere in rapporto l'armonia individuale raggiunta, o in via di raggiungimento, con l'armonia della natura, che, per i taoisti è il modello generale dell'universo interiore. Dopo di che è successo di tutto, perché qualcuno ha sempre bisogno di "dare legnate" ad un altro. Allora alcune scuole successive hanno assunto come importante questa capacità di "stare attenti", di essere sempre presenti alla situazione, e l'hanno, diciamo così, articolata in una serie di arti cosiddette marziali. State attenti però che questo nome "arti marziali" è totalmente occidentale. In Oriente, sia in Cina e poi in Giappone, è do, cioè via. È una via di realizzazione completa, spirituale, fisica e spirituale.
STUDENTESSA: Volevo chiederLe se con la meditazione si può arrivare all'Illuminazione.
PASQUALOTTO: Provalo da solo. Questa è una domanda a cui nessun maestro dà risposta, perché il processo di Illuminazione è un processo che ciascuno deve provare da solo, autonomamente. È un'esperienza assolutamente individuale. È come se un mistico cristiano fosse investito da questa domanda: "Chi è Dio?". Un mistico non te lo direbbe mai. È un'esperienza che si può fare solo in prima persona. Ovviamente detto questo, non vuol dire che non si possa dire nulla su questo. Si può parlare delle tappe che conducono all'Illuminazione. E allora ci sono vari sistemi, ci sono varie scuole, quella tibetana come quella Zen, ma del culmine, dell'esito finale, dovrai parlarne tu o chiunque si cimenti con esso.
STUDENTESSA: Ma la meditazione può essere una via per arrivare all'Illuminazione.
PASQUALOTTO: Non posso darti la definizione di che cosa sia Illuminazione. Posso dirti che la meditazione è sicuramente la via maestra, lo strumento principale per arrivarci. Anche qui, per esempio, per ritornare al discorso relativo al tempo degli altri, il problema della meditazione è chiarissimo per noi occidentali, perché fa scoppiare letteralmente i tempi normali, perché per meditare bisogna rallentare il respiro. Rallentando il respiro, bisogna rallentare l'attività. Bisogna, in parole povere, stare seduti e stare perfettamente attenti all'andamento del respiro, dentro e fuori. E quanto più è lento, meglio è. Allora capisci che la meditazione in questo senso è proprio una specie di antitesi.
STUDENTE:Senta, professore, io volevo farLe una domanda: Lei ci ha detto che le arti marziali sono un'armonizzazione fra il corpo e lo spirito e, l'accezione "arte marziale" è un termine di origine occidentale. Però è vero che esse sono nate come un sistema di difesa dei monaci dagli attacchi ai monasteri, sempre come coordinazione fra il corpo e lo spirito, o, comunque come un sistema di difesa. C'è stata o non c'è stata una fusione fra la figura del monaco e quella del guerriero?
PASQUALOTTO: Sì. Effettivamente le arti marziali sono nate in questo modo, e poi, date le contingenze storiche, (come delle grosse lotte tra i diversi monasteri) questa originaria manifestazione di armonizzazione dello spirito è arrivata ad avere anche uno scopo pratico, ossia quello di difendere i monasteri da altri monaci, che li attaccavano. Devo dire che queste lotte rappresentano un periodo molto breve della storia del Giappone. Diciamo che, in generale, io non voglio negare che il "tai-chi" non si sia evoluto, poi, in arti marziali, ma devo sottolineare che qualsiasi maestro voi troviate, di origine giapponese, a meno che non sia letteralmente pagato miliardi per dire il contrario, nella sua più profonda convinzione sa perfettamente che essa è una via di realizzazione. Non ha scopi di difesa o di offesa. Di offesa assolutamente no. Caso mai, se proprio deve essere un'arte marziale, di difesa.
STUDENTESSA: Gli orientali, secondo Lei, spiritualmente, sono più elevati rispetto a noi occidentali, anche per il fatto che noi siamo sempre sotto stress, facciamo sempre tutto con molta velocità, e quindi questo fa sì che noi non si possa mai arrivare al loro livello?
PASQUALOTTO: Anche qui bisogna distinguere accuratamente tra coloro che si dedicano a queste cose in un modo o in un altro, perché oggi, ripeto, l'Oriente è sempre più invaso dall'Occidente. Quindi queste distinzioni vanno fatte. Detto questo, certamente una caratteristica antropologica e psicologica tipica, in genere, dell'orientale, dall'India, voglio dire, al Tibet, al Giappone, è una tendenza all'introspezione. Mentre noi siamo più superficiali, più portati alla estroversione. Però, detto questo, noi abbiamo all'interno della nostra tradizione ebraica o cristiana, o islamica degli altissimi esempi di introspezione. Pensate a Sant'Agostino, a Meister Eckhart, ai mistici islamici, ai mistici del monte Athos. Cioè, non è che abbiamo il monopolio dell'estroversione e gli orientali hanno quello dell'introversione. Certamente il buddhismo, in particolare, ha accentuato moltissimo questa tendenza all'autoanalisi di carattere psicologico.
STUDENTESSA: Secondo Lei, chi è che, in realtà, si gode veramente la vita? Noi, che siamo molto più attaccati (forse) alle cose materiali, o gli orientali, che vivono tutto in base ad un futuro, che non si sa, poi, cosa sarà in realtà.
PASQUALOTTO: Attenzione! In base a quello che noi leggiamo nei testi buddhisti il futuro non esiste, nel senso che il futuro esiste solo nel presente come aspettativa. Il passato non esiste perché è nel presente solo come ricordo. Se andate a leggere le Confessioni di Sant'Agostino anche in quell'opera Agostino svolge un ragionamento molto simile a questo. Neanche il presente esiste, perché nel momento in cui tu lo vuoi afferrare scorre via, ci scivola dalle mani, passa. Quindi in realtà il tempo non esiste. Non esiste anche per un fatto molto semplice, che per il buddhismo e anche per il taoismo non c'è un inizio e una fine. Mentre, di contro, noi siamo all'interno di una prospettiva lineare, complicata quanto vogliamo, ma lineare. Qualcuno ha creato il mondo, qualcuno lo distruggerà.
STUDENTE: Perché in Oriente, esistevano le lotte fra i monasteri?
PASQUALOTTO: Ma più che altro per questioni come l'onore o, all'opposto, come il denaro. I monasteri dovevano sopravvivere, e allora era necessario che il signorotto, il feudatario locale, desse loro delle concessioni. Anche per questioni d'onore, nel senso che esistendo questa rappresentazione del maestro come figura eminente, di spicco,. Allora potevano scoppiare delle vere e proprie battaglie tra i vari maestri. Queste battaglie, certe volte, consistevano in scontri puramente verbali, ma altre volte (pochissime al dire il vero ci sono stati tre casi in tutta la storia del Giappone) se le davano di santa ragione. Ma se andiamo a leggere nei testi buddhisti, anche nei testi Zen, tutto questo non è ammesso. Anzi è ciò che bisogna evitare, perché, se ci pensi, uno dei temi principali, proposti dal buddhismo, è quello del non attaccamento. Non attaccamento vuol dire: non attaccamento all'io, ma anche ai beni materiali e quindi, anche al monastero, all'onore, al potere, che uno dovrebbe mettere in discussione.
STUDENTE: Volevo riprendere l'argomento del confronto tra la società occidentale e quella orientale. Non pensa che questa dinamizzazione della società occidentale non sia altro che un processo di adattamento alle necessità mondiali? Le faccio un esempio: nelle società antiche, per produrre una spada si impiegavano dei giorni, ma non credo che ci fossero tante persone in un solo villaggio ad avere bisogno di una spada al giorno. Oggi la produzione si è dovuta accelerare, anche grazie alla necessità mondiale. Faccio un altro esempio banale: la produzione di tetrapak di latte. Quante persone, ogni giorno, hanno bisogno di tetrapak di latte nel mondo? Tantissime. Siamo circa sei miliardi di esseri umani nel mondo. Quindi non pensa che sia, intanto, un processo di adattamento la necessità mondiale?
PASQUALOTTO: Si potrebbe dire esattamente il contrario ossia: un certo modo di impostare lo sviluppo economico ha adattato il mondo a sé. Capisci? Non è che sia stata una realtà oggettiva ad imporre delle reali esigenze al nostro stile di produzione. Ci sono stati alcuni uomini che hanno avuto alcune esigenze, come quella di produrre di più, di consumare di più, per guadagnare di più, e tutto questo, ad un certo punto (lo vedrete voi stessi molto meglio di noi, nei prossimi cinquanta, cento anni, in quello che diventerà l'economia mondiale) ha contribuito a creare questo rapporto esistente tra tempo di produzione e realtà quotidiana. Ciò che noi vediamo qui, in Occidente, sarà quello che verrà esportato nella Cina, nel Sud-Est asiatico. Già ci sono tutti i presupposti per questa espansione. Ma non è che il mondo reale volesse questo. Il mondo non è un soggetto metafisico, che esige questo. Se in un certo momento gli uomini sospendessero questo tipo di attività produttiva e dicessero: "Non vogliamo più consumare dieci paia di calzoni l'anno, venti paia di scarpe all'anno, non vogliamo più questo tipo di consumo, non vogliamo più i frigoriferi", il mondo cambierebbe. Se ci pensate bene questa enorme accelerazione del consumismo occidentale da quanto tempo dura? Cento anni? Non di più. Per migliaia, milioni di anni il mondo ha fatto a meno del frigorifero, delle Timberland, delle t-shirt.
STUDENTE: Come è possibile che dei divi del cinema o dello spettacolo, che, comunque, bene o male conducono dei ritmi di vita abbastanza frenetica riescano, comunque, a conciliare i loro ritmi con delle scelte esistenziali come il buddhismo?
PASQUALOTTO: Anch'io penso che siano degli stili di vita difficilmente conciliabili. Il buddhismo è una scelta semplice, perché non ha particolari dogmi, ma, al tempo stesso, è anche difficile, perché comporta una trasformazione della vita quotidiana. Non vorrei che fosse usato come un equivalente di un'ora di tennis o di un'ora di bowling. Come avvenne anni fa, con la meditazione trascendentale. Il supermanager o, in questo caso, l'attore stressato da ritmi pazzeschi, si ritaglia un'ora per ricaricare le sue famose "batterie" e quindi per ricominciare poi ancora più velocemente con il ritmo della sua vita. Questo certamente non fa male, però non c'entra proprio niente con la meditazione, vista come via per l'Illuminazione, di cui parlavamo prima. Non c'entra niente.
STUDENTE: Dal momento che il buddhismo e le filosofie orientali in genere, tendono ad annullare il tempo relativo, come il presente o il passato o il futuro, non c'è il rischio che magari queste concezioni portino, ad un annullamento del concetto di attimo e quindi al condurre una vita fatta d'attesa?
PASQUALOTTO: No, semmai il contrario. Una vita d'attesa sicuramente no, perché nel buddhismo viene abbandonato il concetto di speranza. Non essendoci "futuro" non c'è "speranza". La vita d'attesa è solo quella perfetta, secondo la tradizione giudaica. Nel buddhismo è esattamente il contrario anche per un secondo motivo, perché l'attimo può diventare immenso, eterno. Anche quel discorso che faceva il maestro, della lentezza. La lentezza non vuol dire abbandono all'ozio totale. Vuol dire attenzione al momento. Allora ciascun momento diventa immenso, con un ragionamento, se vuoi, molto semplice, dal punto di vista psicologico. Tu pensa che questo momento, che stiamo vivendo ora, oppure qualsiasi momento della tua vita, sia l'ultimo. Questo pensiero si intensifica enormemente, fino a diventare la migliore possibilità immaginabile, e tu lo puoi vivere assolutamente, pienamente, ovvero in maniera assolutamente piena, senza più confrontarlo con quello che vivevi prima, per vedere se era più cattivo o più buono e senza vederlo in rapporto ad un futuro. Se tu, per esempio, in questo momento stessi pensando di fare una ricchissima colazione o di giocare una partita a calcio, cosa accadrebbe, che ti rovinassi questo momento? Te lo rovineresti, perché giungeresti a confrontarlo con qualcosa che speri sia migliore.
STUDENTE: A quale età, in genere, può capitare di scegliere questa religione, ossia il Buddhismo?
PASQUALOTTO: In nessuna in particolare e in tutte. In queste religioni non c'è un'iniziazione, non c'è una forma di battesimo. Esiste una forma di inizio, che però non ha un rito proprio, che viene detta "Prendo rifugio". È la presa di rifugio nei tre gioielli. I tre gioielli sono appunto il sanga, la comunità, il Buddha e il dharma. Il dharma sono gli insegnamenti del Buddha. Prendere rifugio nel Buddha non vuol dire: "Credo in", nel senso cristiano del termine, perché il Buddha non è Dio, e non è neppure un profeta. "Prendo rifugio nel Buddha" vuol dire: "Ho fiducia che quella strada che lui ha trovato sia una buona strada". Tutto qui. Fiducia nel sanga significa avere fiducia nella comunità, ossia nella comunità intesa non solo in senso monastico, bensì nel fatto che questa strada la puoi percorrere insieme ad altri individui che l'hanno già scelta, come se fosse una gita. E allora si può dire: "Ho fiducia che questa compagnia arrivi al rifugio". L'iniziazione buddhista è sostanzialmente questa. E non c'è nessuna età specifica o più indicata di altre. Uno può entrare a cinque anni come a novanta. Poi una cosa caratteristica del monachesimo buddhista è che uno può uscire da esso quando vuole, ossia l'inesistenza , in esso, di voti perenni. L'unico voto che si fa nel buddhismo e che viene recitato proprio all'inizio della giornata è il voto con il quale si promette di salvare tutti gli esseri vivventi.
STUDENTE: Professore, mi scusi, vorrei sapere se il buddhismo professa di vivere la giornata o alla giornata.
PASQUALOTTO: Interessante questa domanda. Direi la giornata. Perché? Perché vivere alla giornata sembrerebbe un lasciarsi vivere. O no? Vivo alla giornata, mi lascio condizionare dagli avvenimenti, mi lascio trascinare, trasportare. Io invece direi che quello buddhista è un vivere la giornata, proprio perché questa formula indica quella attenzione a tutti i momenti, anche i minimi momenti, della giornata. Quindi esso corrisponde al vivere la giornata il più intensamente possibile. E questo ci fa ritornare al discorso sulla diversità dei tempi, quando, facevo riferimento ad una diversa qualità del tempo, una qualità che non sia scandita dall'orologio, bensì scandita dalla cosa che dobbiamo fare. Se dobbiamo zappare, lo "zappare" ha quel tempo. È inutile dire che dobbiamo dirlo o farlo in un'ora. Se dobbiamo pigiare l'uva, dobbiamo farlo. Ma anche se dobbiamo fare delle cose artigianali. Capite? Per esempio, qui, prima, avevo visto questa bellissima capanna, che in Giappone è il simbolo dell'impermanenza. Ecco, per fare un oggetto del genere, ci vuole molta attenzione, ci vuole tempo. Se Lei chiedesse ad un artigiano di fartelo in due ore, lui Le potrebbe rispondere : "Vada da un altro". E giustamente! Almeno i vecchi artigiani facevano così. Ecco, pensate al semplice fatto che queste cose, in Giappone, sono state talmente radicate, per centinaia e centinaia di anni, che, addirittura, nella grande industria tecnologica (questa è una apparente assurdità) ciascun operaio produce il proprio pezzo ancora con questa mentalità, nonostante ci siano i tempi di lavoro, ci siano i cottimi, ci siano tutte queste condizioni. Ma, psicologicamente, il concetto è questo: il bullone della moto Honda deve essere calibrato nella maniera più perfetta.
STUDENTE: In Occidente abbiamo un ritmo di vita molto più frenetico rispetto all'Oriente, anche se adesso l'Oriente si sta adattando ad esso, proprio a causa di questa occidentalizzazione. Però noi viviamo continuamente pensando al futuro, anche quando stiamo vivendo quello che avevamo progettato, anche quando stiamo progettando altre cose, che si realizzeranno in un altro tempo. Mentre in Oriente si vive attimo per attimo, ponderando di più qualsiasi piccolo particolare che sta per essere affrontato. Quindi la cultura orientale permette di vivere molto meglio di quella occidentale, poiché considera molto di più la vita e la gode molto di più. È del mio stesso avviso?
PASQUALOTTO: Guardi, queste sono domande difficili, perché io dovrei conoscere personalmente un miliardo e mezzo di cinesi, 125 milioni di giapponesi, 750 milioni di indiani, e poi fare una statistica su tutto questo. Non lo so. Io penso che si viva sia bene che male, sia in Oriente che in Occidente. Ma vedo pure che le cose più vicine a me, ossia questo incremento frenetico della vita quotidiana provoca sofferenza. E, quindi, questo diverso modo di affrontare il tempo, che ci viene offerto dalla tradizione orientale, può servire da antidoto, non credo per rivolgere completamente al meglio la nostra storia, che è tutta fatta di progetti, di futuro, di programmazione, di tempi ristretti. Non penso che la possa sconvolgere, ma per lo meno potrà fare da antidoto ad un suo peggioramento.
STUDENTE: Lei prima ha detto che gli orientali vivono ogni momento come un eterno presente. E che quindi non vi è la presenza di un futuro e di un passato nella loro scansione della vita. Questa caratteristica non può contribuire al generare un annullamento, delle speranze, dei sogni, delle attese, che potrebbero offrire un beneficio nei momenti di tristezza, nei momenti di depressione dell'uomo?
PASQUALOTTO: Sì, però tu potresti fare, provocatoriamente, anche un ragionamento completamente opposto, affermando che l'attesa sia qualcosa di doloroso. Se tu stai male ma nello stesso tempo pensi che "potresti stare meglio", ebbene, non è che questo pensare di stare meglio ti faccia automaticamente stare meglio. Il problema consiste nel trovare un sistema per stare completamente meglio, ma, dal punto di vista psicologico, questa continua tensione alla speranza di stare meglio provoca continua sofferenza, mentre una scelta migliore è assumere, invece, questo atteggiamento, che può si leggere nei testi buddhisti: il dolore (come anche in Epicuro) passa come passa il piacere, ossia è impermanente e quindi non si deve dare troppa importanza ad esso, cercando di farlo passare più velocemente. E' chiaro? Perché questo tentativo di farlo passare più velocemente provoca ancora più dolore, più tensione, se non, addirittura, maggior dolore fisico, e più tensione nervosa.
STUDENTE: Quindi, secondo Lei, questi momenti negativi che occorrono nella vita di ognuno di noi occorre accettarli così come si presentano?
PASQUALOTTO: Certamente! Questa è la cosa più difficile a farsi, perché noi abbiamo in noi stessi due poli opposti e complementari. Il  polo mentale del progetto oppure, di contro, quello dell'accettazione fatalistica, la quale consiste nel dire: "mi capiti quello che mi capiti". È il discorso che faceva prima il maestro Zen sulla fretta e sulla lentezza. La via di mezzo è quella di avere una capacità per essere presente in qualsiasi situazione. C'è un dolore fisico in questo momento? Ho un dolore alla mano. Né bene né male. Lo osservo e osservo il suo andamento. Naturalmente dal punto di vista farmacologico, posso anche assumere dei rimedi, ma è dal punto di vista psicologico che deve esserci il mutamento, perché se io, invece, cominciassi a irrigidirmi continuamente, dicendo: "Devo eliminare questo dolore, devo eliminarlo"! È, questo, il caso classico delle emicranie, di cui non io, bensì i medici occidentali, dicono esattamente la stessa cosa. L'emicrania è uno di quei casi in cui, quanto più uno è attento alla propria emicrania, tanto più essa aumenta.
STUDENTE: Professore, scusi, ma in questo non c'è una contraddizione? Per esempio, prendiamo il Giappone. I giapponesi hanno una mentalità che è sicuramente orientale, però hanno anche, nel loro sistema economico e nel loro modello di lavoro, delle produzioni industriali molto accelerate.
PASQUALOTTO: Il Giappone, come società, è tutta una contraddizione, però è anche un paese, un popolo, che è riuscito ad affrontare, in modo coraggioso, tutte queste contraddizioni. Voi sapete come i ritmi produttivi industriali siano frenetici, mentre dall'altro canto, i ritmi del proseguimento per una via spirituale siano l'esatto opposto. Eppure in qualche modo, in qualche forma, essi riescono a conciliarli, anche nella forma, secondo me terribile, di cui parlavo prima, consistente nel dire: "facciamo un'ora di meditazione, tra due ore di produzione". Ma anche questo è un modo per affrontare una diversa forma di temporalità nel mondo contemporaneo.


© Tora Kan Dōjō







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lunedì 25 maggio 2020

Sull’insegnamento della Cerimonia del Tè / On Teaching Tea Ceremony

Mitsu Suzuki è stata la moglie di Shunryu Suzuki, negli anni ’60 lo seguì negli Stati Uniti quando vi si trasferì dal Giappone. Quando suo marito morì nel 1971, Mitsu rimase al San Francisco Zen Center dove insegnò la cerimonia del tè e la poesia Haiku per altre due decadi. Il brano che segue è un estratto da un discorso che tenne ai suoi studenti allo Zen Center un paio di anni prima del suo ritorno in Giappone. Nel discorso descrive la sua vita in America, cosa ha imparato e cosa è riuscita a trasmettere nel suo sforzo di far comprendere la cerimonia del tè agli studenti americani, con particolare riguardo alla relazione Ospite/Ospitato.
Non avrei  veramente potuto insegnare la cerimonia del tè in maniera prettamente formale. Non ho i giusti utensili o la stanza da tè adatta. E io stessa non ho la conoscenza necessaria per insegnare la cerimonia formale del tè. Ma dato che studio Zen, volevo che i miei studenti afferrassero il cuore dello Zen. Che è, in uno spazio molto stretto, una stanza da una o massimo due stuoie, fare posto a un universo intero. Dove regna un’armonia fra Ospite e Ospitato. Chi ospita è sempre attento a chi viene ospitato, pensa a come fare e a come servire un delizioso tè. Chi è ospitato, anziché cercare l'errore di chi ospita, osserva e desidera che chi ospita faccia un tè delizioso. Quindi c'è una vera e calda armonia; questo è lo spirito della cerimonia del tè. In questo paese, le persone tendono a pensare alle proprie cose e non si preoccupano degli affari degli altri. Volevo che le persone qui imparassero questo spirito di armonia.
Sono molto fortunata perché tutti i miei studenti sono studenti Zen. Probabilmente capiscono lo spirito del tè molto più degli altri americani. Tra gli insegnanti di tè, anche in Giappone, pochi vogliono studiare lo Zen, che è una cosa molto strana perché la cerimonia del tè parte proprio dalla pratica Zen. Dogen Zenji disse: “Il portamento dignitoso è esso stesso Buddha Dharma”. Lui insegnò che ogni cosa noi facciamo nel quotidiano, come conversiamo con gli altri, come mangiamo, come andiamo in bagno, come usiamo l’acqua – tutto è Zen. La Cerimonia del Tè è proprio questo, comunque e dovunque incontriamo qualcun altro, essere pienamente premurosi nei suoi confronti, questo è molto importante, questa è la Maestria della Cerimonia del Tè.
I miei studenti hanno dovuto studiare forse più duramente degli studenti giapponesi, sebbene abbiano molte difficoltà come il dolore alle gambe sedendo in seiza. A causa dell’età, Issan (Issan Dorsey, defunto Abate dello Zen Center di Hartford Street) dimenticava spesso i movimenti. Lo colpivo sulle mani per correggerlo, chiedendo cosa seguisse. Lui rispondeva “Non lo so!”. Così dovevo rispondergli “Te l’ho ripetuto milioni di volte, per favore dì che lo hai dimenticato, non che non lo sai!”. Uno studente giapponese cui capitasse di versare del tè direbbe semplicemente “oh sono estremamente dispiaciuto, è un mio errore!”. Qui invece dovrei ripulire io al posto dei miei studenti. E non mi ringrazierebbero nemmeno. Penserebbero probabilmente ad un incidente, non ad un loro errore. Sono sempre scioccata dalle loro reazioni. Se chiedessi loro di chiedere scusa, mi guarderebbero perplessi, domandandosi perché mai gli sto chiedendo una cosa del genere.
La vera sfida è che qui le persone non sono realmente allenate dall’infanzia a movimenti fisici precisi, come usare la mano destra o la mano sinistra. Nell’educazione americana non avete bisogno di imparare questo. Mentre nella Cerimonia del Tè tutti i movimenti hanno a che fare con la destra e la sinistra. Ma i miei studenti sono veramente aperti ai suggerimenti e alle istruzioni, e seguono i miei insegnamenti in modo fedele.
Mitsu Suzuki (1914-2016)
Da: – Wind Bell: Teachings from the San Francisco Zen Center 1968-2001
English Version
Mitsu Suzuki was the wife of Shunryu Suzuki who accompanied him when he moved to the United States from Japan in the 1960s. After her husband passed away in 1971, Mitsu stayed on at San Francisco Zen Center where she taught tea ceremony and haiku poetry for another two decades. This excerpt is from a talk she gave to students at Zen Center a couple of years before she left to go back to Japan. In the talk, she describes her life in America and goes on to say what she learned and what she was able to transmit in her efforts to teach tea ceremony to American students, especially with regards to the relationship of host and guest.
I could not really teach tea ceremony in a formal way—I didn’t have the correct tea utensils or formal tea room. And I didn’t have enough knowledge myself to teach formal tea ceremony. But because I was studying Zen, I wanted my students to grasp the heart of Zen. That is, in a very narrow space, a one mat room or two mat room, you establish a universe. Here there is harmony between host and guest. The host is always thoughtful of the guest, thinking how to create and serve delicious tea to the guest. The guest, instead of trying to look for the host’s mistake, watches and wishes for the host to make delicious tea. So there is a real warm harmony; this is the spirit of tea ceremony. In this country, people tend to think of their own matters and not worry about others’ business. I wanted people here to learn this spirit of harmony.
I’m very fortunate that my students are all Zen students. They probably understand the spirit of tea more than other Americans. Among tea teachers, even in Japan, few people want to study Zen, which is very strange because tea ceremony started from Zen practice. Dogen Zenji said, “Dignified bearing is itself Buddha Dharma.” He taught that everything we do in our daily life—how we converse with each other and how we take meals, go to the bathroom, how we use water—all is Zen. Tea ceremony is just like that: however and wherever you meet someone else, being fully thoughtful of the other is most important. That is the mastery of tea ceremony.
My students have been studying, maybe harder than Japanese students, although they have many difficulties like pain in their legs sitting seiza. Because of his age, Issan (Issan Dorsey, late Abbot Of Hartford Street Zen Center) would often forget the movements. I would just hit his hand to correct him, asking him what was next. He would say, “I don’t know.” So I would say “I’ve told you this a million times—please say you forgot, not that you don’t know!” A Japanese student who spilled tea would say, “Oh, I’m extremely sorry, my mistake.” Here I would just clean up for my students. They wouldn’t even say thank you. They might have thought that this was some accident, not their mistake. I was often shocked with their reactions. If I asked them to say they were sorry, they would look puzzled, wondering why I’m asking them this.
One real challenge is that people here are not really trained from childhood in precise physical movements like using right hand or left hand. In American education you don’t need to learn this. All movements in tea ceremony involve right and left. But my students are really open for suggestions and instructions, and they have been following my instructions in a faithful way.
Mitsu Suzuki (1914-2016)
From – Wind Bell: Teachings from the San Francisco Zen Center 1968-2001
© Tora Kan Dōjō
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