Sulla relazione maestro/allievo
Nel budo, se nell'allievo non c'è la volontà di andare
lontano, è inutile insegnare. Se non c'è discepolo, non c'è maestro. Ma un
adepto non è necessariamente maestro o discepolo. La ricettività di un
discepolo è essenziale nella trasmissione. Egli deve essere pronto a impegnarsi
e a spingere la sua ricerca oltre un certo limite. Occorre dunque che il
rapporto tra il dare e il ricevere l'informazione sia sufficientemente
equilibrato.
Personalmente, ho investito molto tempo ed energie per
apprendere e studiare il metodo che pratico attualmente, e se trovo di fronte a
me un allievo che non ha un atteggiamento sufficientemente serio, e al quale
non mi sento per niente attaccato, non esiste alcuna ragione per la quale mi
affanni a spiegargli ciò che va oltre le sue aspettative. Non potrà
assimilarlo.
La trasmissione dell'essenza dell'arte mi sembra sia
molto selettiva. Fino ad un certo punto le cose si possono spiegare in modo
generale, ma se si entra nel profondo dell'arte, non si possono mettere in
luce, senza discriminazioni, davanti a tutti.
Il rapporto personale è obbligatoriamente presente
nell'insegnamento delle cose profonde.
Su Budō e Zen
Quanto a me, lo studio dello zen mi ha arricchito
molto, e questo si riflette inevitabilmente nella mia pratica del budo, che non
è ancora gran cosa. Credo che il grado della mia comprensione dello zen sia
proporzionale al mio avanzamento nel budō Al tempo stesso, penso anche che lo
zen non sia un cammino obbligatorio per andare verso la vetta del budō Non sono
d'accor o quando un adepto zen suggerisce che è indispensabile praticare lo zen
se si vuole progredire e andare a fondo nel budō, e che lo zen e il budō sono
la stessa cosa. Non è esatto, sono differenti, poiché il budo non può esistere
senza tecnica specifica.
Ma la tecnica non costituisce da sola il budō, anche lo spirito deve essere
orientato in un certo modo. In questo senso lo zen ed il budō coprono uno
stesso campo e possono fondersi ma non bisogna confonderli.
La Pratica marziale come Arte
Si. È un'arte. Oggi, anche se vi è un aspetto
efficace, non la si può ridurre ad una semplice preparazione al combattimento.
Per mezzo di tecniche pratiche, l'arte marziale ci per mette di esplorare le
nostre capacità potenziali. È una ricerca del significato dell'esistenza, della
vita e della morte.
Il budō permette di sviluppare le nostre capacità fisiche e mentali, mettendole
tutte in causa. È così che intendo la nozione di efficacia. Nel tiro con
l'arco, qualunque sia la riflessione e lo spirito, se la freccia non si pianta
nel bersaglio, non è budō. Ma non è nemmeno sufficiente piantare semplicemente
la freccia nel bersaglio. C'è un faccia a faccia con l'avversario in piena
luce; nel tiro con l'arco l'avversario è più astratto, il bersaglio media
questo avversario che è un riflesso di sé stessi. L'arte marziale è la ricerca
di un equilibrio tra il positivo e il negativo, Con queste due ruote si
percorre la via, il dō. Un lato vi spinge ad uccidere, l'altro ve lo impedisce.
Nel fondamento del budō c'è una volontà di esplorare i
limiti della capacità umana, un superamento di sé. La tendenza ad assimilare la
pratica del budō ad una forma di combattimento serio, che vi farà sfibrare come
prezzo da pagare per superare voi stessi, è un'involontaria deviazione di
quest'idea.
Ma il superamento di sé ha, credo, un significato
differente nelle culture occidentali ed in Giappone. Nel pensiero del budō esso
è basato sull'idea orientale, se non giapponese, di andare verso la perfezione
dell'essere umano, questa idea vi parrà probabilmente curiosa, ma l'idea che la
perfezione sia umana, e profondamente ancorata nella cultura giapponese; l'idea
del superamento di sé che fa parte del budō si riallaccia a questo sfondo
culturale.
È probabilmente la comprensione del significato del
supera mento di sé che forma il più grande ostacolo per gli europei nel dominio
del budō. Per la tecnica del corpo, gli europei sono sullo stesso piano. Ma si
tratta in fondo di una differenza di cosmogonia. Come possiamo conciliare le
cosmogonie di due culture in una pratica che passa per l’unico corpo di una
persona?
Nel pensiero del budō, c'è una forte volontà verso una fusione con il principio
universale della vita che include anche la morte, poiché, in questo pensiero,
la morte non è che un'altra fase della vita. L'uomo fa parte dell'universo
dinamico della creazione e della dissoluzione che si muove secondo il principio
dell'energia cosmica (…)
Il percorso di Miyamoto Musashi, romanzato ne «La
pietra e la spada», è impregnato di questa attitudine, ed è per questo che tale
romanzo ha trovato in Giappone una risonanza ed un successo popolare immenso.
Per il pensiero del budō, l'idea dell'energia universale, include gli uomini
come gli dei e la polvere; tutto è simile, e la fusione con il principio
universale è anche il nulla. È davanti a questa intuizione che appaiono l'empatia
e la compassione nei riguardi di tutta la vita, poiché il piccolo insetto come
l'essere umano fanno parte unica del principio universale.
È in questo il fondamento della morale «la spada non è per uccidere, ma per far
vivere».
In effetti il budō è la pratica dell'arte del combattimento che, concretamente,
ci riporta alle cose più serie della nostra esistenza, poiché fa intravedere la
vita e la morte, e la nozione di efficacia è per me come uno specchio ben
pulito che li riflette.
Tratto da ‘L’Arte del Combattere’ di Kenji Tokitsu, Luni editrice
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