domenica 2 gennaio 2022

L'Arte del Combattere

 



Sulla relazione maestro/allievo

Nel budo, se nell'allievo non c'è la volontà di andare lontano, è inutile insegnare. Se non c'è discepolo, non c'è maestro. Ma un adepto non è necessariamente maestro o discepolo. La ricettività di un discepolo è essenziale nella trasmissione. Egli deve essere pronto a impegnarsi e a spingere la sua ricerca oltre un certo limite. Occorre dunque che il rapporto tra il dare e il ricevere l'informazione sia sufficientemente equilibrato.

Personalmente, ho investito molto tempo ed energie per apprendere e studiare il metodo che pratico attualmente, e se trovo di fronte a me un allievo che non ha un atteggiamento sufficientemente serio, e al quale non mi sento per niente attaccato, non esiste alcuna ragione per la quale mi affanni a spiegargli ciò che va oltre le sue aspettative. Non potrà assimilarlo.

La trasmissione dell'essenza dell'arte mi sembra sia molto selettiva. Fino ad un certo punto le cose si possono spiegare in modo generale, ma se si entra nel profondo dell'arte, non si possono mettere in luce, senza discriminazioni, davanti a tutti.

Il rapporto personale è obbligatoriamente presente nell'insegnamento delle cose profonde.

 

Su Budō e Zen

Quanto a me, lo studio dello zen mi ha arricchito molto, e questo si riflette inevitabilmente nella mia pratica del budo, che non è ancora gran cosa. Credo che il grado della mia comprensione dello zen sia proporzionale al mio avanzamento nel budō Al tempo stesso, penso anche che lo zen non sia un cammino obbligatorio per andare verso la vetta del budō Non sono d'accor o quando un adepto zen suggerisce che è indispensabile praticare lo zen se si vuole progredire e andare a fondo nel budō, e che lo zen e il budō sono la stessa cosa. Non è esatto, sono differenti, poiché il budo non può esistere senza tecnica specifica.
Ma la tecnica non costituisce da sola il budō, anche lo spirito deve essere orientato in un certo modo. In questo senso lo zen ed il budō coprono uno stesso campo e possono fondersi ma non bisogna confonderli.

 


La Pratica marziale come Arte

Si. È un'arte. Oggi, anche se vi è un aspetto efficace, non la si può ridurre ad una semplice preparazione al combattimento. Per mezzo di tecniche pratiche, l'arte marziale ci per mette di esplorare le nostre capacità potenziali. È una ricerca del significato dell'esistenza, della vita e della morte.
Il budō permette di sviluppare le nostre capacità fisiche e mentali, mettendole tutte in causa. È così che intendo la nozione di efficacia. Nel tiro con l'arco, qualunque sia la riflessione e lo spirito, se la freccia non si pianta nel bersaglio, non è budō. Ma non è nemmeno sufficiente piantare semplicemente la freccia nel bersaglio. C'è un faccia a faccia con l'avversario in piena luce; nel tiro con l'arco l'avversario è più astratto, il bersaglio media questo avversario che è un riflesso di sé stessi. L'arte marziale è la ricerca di un equilibrio tra il positivo e il negativo, Con queste due ruote si percorre la via, il dō. Un lato vi spinge ad uccidere, l'altro ve lo impedisce.

Nel fondamento del budō c'è una volontà di esplorare i limiti della capacità umana, un superamento di sé. La tendenza ad assimilare la pratica del budō ad una forma di combattimento serio, che vi farà sfibrare come prezzo da pagare per superare voi stessi, è un'involontaria deviazione di quest'idea.

Ma il superamento di sé ha, credo, un significato differente nelle culture occidentali ed in Giappone. Nel pensiero del budō esso è basato sull'idea orientale, se non giapponese, di andare verso la perfezione dell'essere umano, questa idea vi parrà probabilmente curiosa, ma l'idea che la perfezione sia umana, e profondamente ancorata nella cultura giapponese; l'idea del superamento di sé che fa parte del budō si riallaccia a questo sfondo culturale.

È probabilmente la comprensione del significato del supera mento di sé che forma il più grande ostacolo per gli europei nel dominio del budō. Per la tecnica del corpo, gli europei sono sullo stesso piano. Ma si tratta in fondo di una differenza di cosmogonia. Come possiamo conciliare le cosmogonie di due culture in una pratica che passa per l’unico corpo di una persona?
Nel pensiero del budō, c'è una forte volontà verso una fusione con il principio universale della vita che include anche la morte, poiché, in questo pensiero, la morte non è che un'altra fase della vita. L'uomo fa parte dell'universo dinamico della creazione e della dissoluzione che si muove secondo il principio dell'energia cosmica (…)

 

Il percorso di Miyamoto Musashi, romanzato ne «La pietra e la spada», è impregnato di questa attitudine, ed è per questo che tale romanzo ha trovato in Giappone una risonanza ed un successo popolare immenso. Per il pensiero del budō, l'idea dell'energia universale, include gli uomini come gli dei e la polvere; tutto è simile, e la fusione con il principio universale è anche il nulla. È davanti a questa intuizione che appaiono l'empatia e la compassione nei riguardi di tutta la vita, poiché il piccolo insetto come l'essere umano fanno parte unica del principio universale.
È in questo il fondamento della morale «la spada non è per uccidere, ma per far vivere».
In effetti il budō è la pratica dell'arte del combattimento che, concretamente, ci riporta alle cose più serie della nostra esistenza, poiché fa intravedere la vita e la morte, e la nozione di efficacia è per me come uno specchio ben pulito che li riflette.

Tratto da ‘L’Arte del Combattere’ di Kenji Tokitsu,  Luni editrice

 
















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