Pubblichiamo
l'estratto di un Insegnamento offerto da Paolo Taigō Kōnin Sensei durante la
Pratica Zen.
Semplice
dire cosa bisogna fare in Zazen, tanto facile quanto è difficile poi metterlo
in pratica. Nella tradizione Zen si dice 'Shikantaza', solo totalmente seduti,
solo semplicemente seduti. Difficile da comprendere e da mettere in pratica per
l'uomo contemporaneo, forse lo è sempre stato ma adesso è ancora più difficile
proprio per la sua essenzialità, difficile perché la nostra mente complicata e
condizionata è abituata a pensare che se non ci agitiamo in tutte le direzioni
e ci teniamo impegnati in qualcosa non siamo noi, non esistiamo.
Allora
lo Zazen ci propone: stai solo seduto !
Il
modo per restare solo seduti è essere totalmente implicati nell'azione del
sedere. Richiede che si sia completamente assorbiti nella postura e nel
respiro, nel contatto con la terra, nella spinta che dalla terra si riversa nella
schiena, nella nuca che è ben distesa e il mento un po' rientrato che slancia
il corpo tra terra e cielo.
Il
respiro è la vita che fluisce in noi, nient'altro... e allora c'è posto per
tutti... non rifiutiamo, non scegliamo, non tratteniamo.
Quello
che viene a trovarci mentre siamo seduti diventa parte del nostro zazen, come
la pioggia in questo momento. La pioggia è pienamente il nostro Zazen. Fra le
gocce di pioggia che cadono e la nostra postura non c'è nessuna separazione.
Lasciate che il suono dell'acqua e il canto della pioggia scivolino attraverso i vostri pensieri. Godetevi questo momento.
"In
altre parti del mondo i giovani partono per lunghi viaggi lontani, in cerca di
un futuro promettente.
Il
loro viaggiare è spesso sospinto dal sogno di trionfare sul bene, di trovare un
grande amore, o dalla speranza di fare facilmente fortuna.
Qui,
nel Tempio dell'altrove, si arriva solo traslocando, sognando. L'unico motivo
per cui puoi arrivare, è saperti orfano.
Puoi
sperare di diventare un eroe, ma qui non esiste una tale possibilità. Nel mondo
freddo, arido e pieno di solitudine di chi si è perduto, non c'è posto per gli
eroi.
Ma
qui, prima o poi, puoi scoprirti a guida di molti, e vederti adulto. E forse,
di qualcuno, padre, madre, fratello, sorella."
Questo è l'incipit, la descrizione che ha scelto il mio primo Maestro per definire il monastero da lui
fondato.
Qualcuno
ha affermato che tra le grida della battaglia e l'eccitazione, il
coinvolgimento emotivo, diventa facile anche morire. Magari si è anche convinti
di morire da eroi, eppure nel silenzio dello Zazen noi scopriamo che cosa
significa essere pienamente umani, comprendiamo che non c'è bisogno di azioni
eccezionali per onorare la nostra piena umanità. Se già siamo capaci di essere
totalmente seduti, pienamente implicati nell'azione di sedere, stiamo già
portando avanti il nostro compito di esseri umani nel miglior modo possibile.
Pascal
diceva: tutti i problemi dell'uomo derivano dal fatto che non è capace di stare
seduto nella sua stanza. Sembra una banalità ma per chi siede in Zazen è
davvero un'affermazione profonda e assai condivisibile. Nel Dōjō Zen, in tutto
quello che accade in questo spazio ricco di simboli, di miti, dove possiamo
vedere seduti tra noi i Buddha e i Patriarchi, sentirne il profumo, condividere un pasto
con loro, richiede ad ognuno di noi la capacità di essere completamente soli e
nello stesso tempo indivisibili dagli altri. L'educazione Zen passa
dall'imparare a 'fare corpo', diventare 'uno', una cosa sola.
Chi
entra nel Dōjō Zen pensando di trovare lì l'occasione per una propria
autoaffermazione, chi entra pieno di idee, verrà immediatamente smentito dalla
stessa postura di Zazen.
Comprenderà che se non lega il proprio destino a quello degli altri, la propria azione a quella degli altri, è destinato a soffrire.
Quello
che accade nel Dōjō Zen è quello che accade abitualmente nella nostra vita
quotidiana e non ce ne rendiamo conto, mentre nel Dōjō abbiamo gli strumenti
e le occasioni, i linguaggi e le forme che ci permettono di rettificare il
nostro comportamento, la nostra percezione.
Un
altro aspetto molto importante nella Pratica Zen è la relazione con un Maestro,
con qualcuno che possiamo riconoscere come un Insegnante. È un aspetto
fondamentale che oggi in qualche modo si cerca di scavalcare per semplificarsi
la vita.
Il
rapporto con un insegnante è necessario, non tanto perché qualcuno più esperto
di noi possa impartirci delle nozioni, come siamo portati a pensare quando
pensiamo in Occidente all'insegnamento, ma perché un vero insegnante, ovvero che ha esperienza e che
ha praticato davvero sotto la guida di un altro insegnante assorbendone il
carattere e le strategie educative, è capace di essere il nostro specchio.
Non
è affatto scontato che entrando in una classe si diventi degli allievi, nemmeno
dopo anni di frequentazione. Essere degli allievi significa non perdere
occasione per provocare il nostro Maestro ad insegnarci.
Un
vero Maestro (appellativo che non ha nulla a che vedere con qualifiche, gradi…),
e vale per qualsiasi ambito, insegna solo se è chiamato, con una certa
insistenza, con una grande passione, ad insegnare. Un vero Maestro non insegna perchè vuole
affermare sé stesso o perché vuole esibire una qualche conoscenza o abilità, insegna perché è sollecitato a rispondere ad
una domanda alla quale non può sottrarsi, e la sua risposta non va mai al di là
della qualità della domanda.
Anche solo uno sguardo o un gesto del discepolo possono diventare una domanda impellente per il maestro.
In
un Dōjō Zen il rapporto con un insegnante è sempre uno ad uno, non si insegna
mai ad una classe.
Non ci si può nascondere nel 'gruppo'.
Uno a uno, 'I shin den shin', da cuore a cuore.
Si
deve essere in grado di esporsi e di affidarsi, di far percepire a quello che
noi consideriamo il nostro insegnante tutto il nostro appassionato desiderio di
imparare, di praticare, e allora un insegnante non può fare a meno d'insegnare.
Senza
questa attitudine si rischia di frequentarsi senza essersi davvero mai incontrati,
senza essersi mai davvero contaminati l’uno con l'altro, senza avere mai corso
il rischio della relazione.
Parlo da allievo, sto mettendo i miei piedi nelle orme che ho già percorso, posso raccontarvi solo quello che ho vissuto. Bisogna essere intraprendenti, bisogna fare un passo in più di quello che anche il nostro insegnante può aspettarsi da noi, poi cercare di cogliere ogni occasione, ogni parola, ogni esortazione, ogni riferimento per arricchire la nostra personale ricerca. Imparare non significa mai ripetere pedissequamente quello che pensiamo di dover imparare, significa creare sulla base di quella esperienza.
Ricordo
bene, negli anni trascorsi a imparare sotto la guida del mio Maestro radice, quanto
fosse importante il fatto che il suo Insegnamento si rivelasse essere un discorso che
rimaneva in sospeso per poi riprendere, in altro tempo ed altro spazio in modo inatteso. Tante volte ho visto persone con l'aria perplessa di chi non comprende, io comprendevo invece che era un discorso ininterrotto,
fluiva continuamente di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno, e
si arricchiva. Non era un discorso che aveva un inizio ed una fine con l'intenzione di chiudere un cerchio, presupponeva il camminare insieme.
Non
c'era da andare da qualche parte in particolare, era contemplare insieme il
paesaggio che di giorno in giorno cambiava e si trasformava, così come si
trasformava l'Insegnamento in funzione del paesaggio.
Il Cammino comune ed il paesaggio condiviso erano l'essenza della Trasmissione non andava ricercata altrove.
A
volte, soltanto dopo mi sono reso conto di quanto ogni parola, ogni gesto, ogni
esperienza vissuta insieme riverberasse nelle parole, nei gesti, nelle
esperienze che ci trovavamo a vivere a distanza di qualche tempo. Era come se il
discorso riprendesse da dove si era interrotto e continuasse ad esprimere più
profondamente e compiutamente quel sentire.
Quello che lega e permette la trasmissione è guardare insieme in una direzione comune, avere un progetto, un sogno comune. Se invece ci si avvicina ad un Insegnante solo per soddisfare delle esigenze personali non lo si incontrerà mai.
(registrazione e trascrizione a cura di Monica Tainin)
© Tora Kan Dōjō
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