«C’era un uomo che aveva paura della
propria ombra e orrore delle proprie impronte. Così le sfuggiva correndo. Ma
quante più volte alzava il piede, tanto più numerose erano le impronte che
lasciava; e più in fretta scappava, meno l’ombra l’abbandonava. Credendo di
andare troppo piano, corse più svelto senza mai riposare, finché, all’estremo
delle forze, non morì. Egli non capiva che per far scomparire l’ombra bisogna
rimanere nell’oscurità, che per far cessare le impronte bisogna rimanere nella
quiete».
Ecco, una stanza della
meditazione non è un luogo esemplare, né dove essere esemplari, ma dove stare
fermi nell’oscurità per conoscere la propria ombra e le proprie impronte. E per
procedere oltre.
tratto da: Candiani, Chandra Livia. Il silenzio è cosa viva: L'arte della meditazione. Einaudi.
© Tora Kan Dōjō
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