Per un attimo, mentre me ne stavo una mezz’ora al sole sulla nostra terrazzina
di pietra, seduta sul bidone dei rifiuti, la testa appoggiata al mastello, con
i raggi che cadevano sui rami forti, scuri e ancora senza foglie del castagno,
ho sentito nettamente la differenza tra prima e adesso.
Ora riesco a esprimere
in breve ciò che ho provato, laddove stamattina avevo ancora bisogno di molte
parole: quel sole sui rami scuri, gli uccelli cinguettanti e io sul bidone, al
sole.
Anche in passato restavo spesso a sedere così, ma non mi sono mai sentita
come oggi, tranne qualche rara volta.
Prima osservavo un albero sotto al sole
soltanto con la mente: volevo dire a me stessa il motivo per cui lo trovavo
tanto bello, volevo trovare le parole e comprendere come l’insieme funzionasse;
desideravo scandagliare con la mente quella profonda sensazione, quell’impulso
primordiale, almeno credo. Volevo quindi assoggettare la natura, vale a dire il
tutto; volevo contenerlo.
E il bello invece è – ed è davvero semplice – che adesso sono io a sentirmi
assoggettata al tutto. Mi aggiro di qua e di là, invasa da questa profonda
sensazione, ma essa non mi prosciuga più l’anima: al contrario, mi dà
forza.
Nelle mie vene scorre un sano flusso vitale, tanto che, mentre me ne stavo al
sole, ho inconsapevolmente piegato la testa, come se potessi assimilare meglio
quel nuovo senso di vitalità.
D’un tratto ho compreso come una persona, il volto nascosto dietro le mani
giunte, possa crollare violentemente sulle ginocchia e poi aver pace.
Etty Hillesum
‘Diario’1941-1943.
(Traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone.
Adelphi, La collana dei casi ©2012)
© Tora Kan Dōjō
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