Il termine te (de)
stava ad indicare, all’inizio del diciannovesimo secolo, l’arte di
combattimento a mani nude indigena dell’arcipelago delle Ryu Kyu. Il
termine te, pronunciato ti nel dialetto dell’arcipelago,
significa “mano” (mani).
L’influenza delle arti
di combattimento cinesi, per mezzo di maestri cinesi presenti ad Okinawa o di
okinawensi che avevano praticato in Cina, portò nel corso degli anni ad
identificare il te con il nome tōde, dove il kanji (1) tō rappresentava la dinastia cinese Tang (618-907) e veniva utilizzato per indicare
la Cina in senso lato. Tōde assumeva quindi il significato di mano
cinese (mani cinesi). Il termine tō può essere pronunciato, con il
metodo Kun, kara.
Fino all’inizio degli
anni trenta tōde è stato sicuramente il termine più usato per
identificare l’arte di combattimento che oggigiorno è chiamata karate:
sono concordi su questo punto sia le testimonianze orali sia quelle scritte.
Per esempio, nel 1908, Anko Itosu (1832-1915), nello scritto “tōde junkun”
(dieci precetti sul karate), utilizza il termine tōde – mano cinese.
I libri scritti a Tokyo nel 1922 e nel 1925 da Gichin Funakoshi (1868-1957),
allievo anche di Itosu, utilizzano anche loro il termine tōde per
identificare l’arte di combattimento dell’isola d’Okinawa. La prima
dimostrazione di karate al Butokusai (il festival
organizzato ogni anno dal Butokukai, l’organizzazione ufficiale, cui capo
vi era un membro della famiglia imperiale giapponese, che raggruppava tutte le
discipline del budo giapponese), effettuata da Yasuhiro Konishi nel 1929,
è registrata nel Butokukai–shi (giornale del Butokukai) con il
termine tōde. Tra l’altro il karate non era ancora riconosciuto
come ryū–ha (stile ufficiale) nel registro del Butokukai, ma
compariva sotto la voce jujutsu.
Nel 1932 Choki Motobu
(1871-1944) scrive il libro “Watashi no ryū jutsu”.
Nella copertina sono chiaramente identificabili i kanji tō e de (te).
Il termine jutsu significa ‘arte’ o ‘tecnica’ e voleva far sottintendere l’origine “pratica”, “reale” del tōde.
Nella copertina sono chiaramente identificabili i kanji tō e de (te).
Il termine jutsu significa ‘arte’ o ‘tecnica’ e voleva far sottintendere l’origine “pratica”, “reale” del tōde.
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Watashi no tōde jutsu |
Analogamente anche Chōjun Miyagi (1888-1953),
per lo scritto “Karate Gaisetsu” (Spiegazione generale sull’arte del karate) del
1934, utilizza il termine tōde.
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Karate Gaisetsu |
Il 26 dicembre del 1933 il karate è riconosciuto dal Butokukai come ryū–ha.
Chōjun Miyagi sottopone Gōjū ryū tōde come nome del proprio stile.
Il termine ryū ha un significato letterale di ‘corrente’, ‘stile’, ‘larga comunità con un progetto comune’.
Il riconoscimento
del karate come arte marziale giapponese ed i crescenti problemi con
la Cina spinsero i praticanti di karate, soprattutto quelli che
praticavano nel centro del Giappone, ad una profonda riflessione sul nome da
dare alla propria arte.
Con la pronuncia kara (metodo
Kun) poteva venire letto anche un altro kanji con il significato di
‘vuoto’.
Il termine karate –
mano vuota, oltre a rappresentare uno stile di combattimento senza armi,
rappresentava bene anche la via spirituale indicata dal buddismo.
Nel 1935 Gichin
Funakoshi, trasferito da parecchi anni a Tokyo e quindi a diretto contatto con
i sentimenti ideologici dell’epoca, scrive il libro “Karate dō kyohan”,
utilizzando il termine karate – mano vuota.
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Karate do kyohan |
E’ da notare che Funakoshi aveva già utilizzato
il termine in una poesia scritta nel 1922 (2), inoltre non fu il primo ad
utilizzare tale termine in uno scritto dedicato al karate: infatti, nel
1905, Chomo Hanashiro (1869-1945), compagno di pratica di Funakoshi in
gioventù, utilizzò il termine karate (mano vuota) nel suo libro “Karate kumite”.
Non è nota la motivazione che lo spinse a quell’utilizzo, una ipotesi è che potrebbe avere preso spunto dal quinto dei kenpo hakku (poemi sulle arti marziali) presenti nel Bubishi, che recita: “Non appena gli arti incontrano il vuoto, si dispongono secondo una tecnica giusta”.
Il Maestro di Hanashiro e di Funakoshi, il già citato Itosu, possedeva sicuramente una copia del Bubishi (3).
Il Maestro Funakoshi ha lasciato questa definizione di kara: “Come la levigata superficie di uno specchio riflette qualunque cosa le stia di fronte e una quieta valle riecheggia anche i più piccoli suoni, allo stesso modo il praticante di karate deve rendere vuota la sua mente di egoismo e di debolezza nello sforzo di reagire adeguatamente in qualunque circostanza”.
Funakoshi aggiunge inoltre il suffisso dō (‘via’, ‘strada’) alla parola karate, come nel judo o nel kendo, per enfatizzare il significato spirituale dell’arte, già evidenziato dal carattere kara – vuoto.
Non è nota la motivazione che lo spinse a quell’utilizzo, una ipotesi è che potrebbe avere preso spunto dal quinto dei kenpo hakku (poemi sulle arti marziali) presenti nel Bubishi, che recita: “Non appena gli arti incontrano il vuoto, si dispongono secondo una tecnica giusta”.
Il Maestro di Hanashiro e di Funakoshi, il già citato Itosu, possedeva sicuramente una copia del Bubishi (3).
Il Maestro Funakoshi ha lasciato questa definizione di kara: “Come la levigata superficie di uno specchio riflette qualunque cosa le stia di fronte e una quieta valle riecheggia anche i più piccoli suoni, allo stesso modo il praticante di karate deve rendere vuota la sua mente di egoismo e di debolezza nello sforzo di reagire adeguatamente in qualunque circostanza”.
Funakoshi aggiunge inoltre il suffisso dō (‘via’, ‘strada’) alla parola karate, come nel judo o nel kendo, per enfatizzare il significato spirituale dell’arte, già evidenziato dal carattere kara – vuoto.
Ormai il dado era
tratto, il termine karate – mano vuota fu infine recepito ed
accettato anche ad Okinawa, il 25 ottobre del 1936, nel corso dell’incontro che
riunì alcuni dei più noti maestri di Okinawa dell’epoca.
In principio
quindi i maestri di karate di Okinawa non si erano mai posti il
problema di assegnare un nome formale all’arte di combattimento da loro
praticata: la chiamavano semplicemente te o tode. Né tantomeno
di differenziare con un nome uno stile invece che un altro. Nel momento in cui,
però, cominciarono a viaggiare nel centro del Giappone, il confronto con le
arti marziali tradizionali giapponesi li costrinse a cambiare atteggiamento.
Il 5 maggio 1930 Chōjun Miyagi fu invitato a prendere parte ad una dimostrazione di arti marziali giapponesi in occasione della festa per l’inaugurazione del tempio Meiji Jingu a Tokyo, alla presenza di membri della famiglia imperiale.
Miyagi declinò l’invito, ma mandò quello che allora era il suo migliore studente, Jin’an Shinzato (1901-1945). Al termine della dimostrazione Shinzato fu avvicinato da uno degli altri dimostranti, che, impressionato dalla dimostrazione, gli chiese quale era il nome dell’arte.
Non è rimasta traccia della risposta di Shinzato, ma probabilmente rispose Naha-te (cioè il te di Naha, la città dove viveva e praticava Chōjun Miyagi).
Il 5 maggio 1930 Chōjun Miyagi fu invitato a prendere parte ad una dimostrazione di arti marziali giapponesi in occasione della festa per l’inaugurazione del tempio Meiji Jingu a Tokyo, alla presenza di membri della famiglia imperiale.
Miyagi declinò l’invito, ma mandò quello che allora era il suo migliore studente, Jin’an Shinzato (1901-1945). Al termine della dimostrazione Shinzato fu avvicinato da uno degli altri dimostranti, che, impressionato dalla dimostrazione, gli chiese quale era il nome dell’arte.
Non è rimasta traccia della risposta di Shinzato, ma probabilmente rispose Naha-te (cioè il te di Naha, la città dove viveva e praticava Chōjun Miyagi).
Ritornato ad Okinawa
Shinzato raccontò l’accaduto al Maestro Miyagi.
L’accaduto fece realizzare a Miyagi che, per essere alla pari delle altre arti marziali giapponesi, doveva dare un nome al suo stile di karate. Prendendo spunto dal terzo dei kenpo hakku riportati nel Bubishi, “ho gōjū donto” (‘essenziali sono l’inspirazione e l’espirazione con forza e cedevolezza’), Miyagi ritenne che, data la natura dello stile, che possiede tecniche “dure” e “morbide” con enfasi sulla respirazione, Gōjū fosse il nome ideale.
L’accaduto fece realizzare a Miyagi che, per essere alla pari delle altre arti marziali giapponesi, doveva dare un nome al suo stile di karate. Prendendo spunto dal terzo dei kenpo hakku riportati nel Bubishi, “ho gōjū donto” (‘essenziali sono l’inspirazione e l’espirazione con forza e cedevolezza’), Miyagi ritenne che, data la natura dello stile, che possiede tecniche “dure” e “morbide” con enfasi sulla respirazione, Gōjū fosse il nome ideale.
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Kenpo hakku |
Note:
(1) I kanji sono ideogrammi cinesi che possono essere letti in due modi diversi: On e Kun. On è il metodo cinese, mentre Kun è il metodo giapponese.
(2) Nella poesia Funakoshi utilizzò, invece del termine consueto “mano cinese”, il termine “ku ken” (pugni vuoti), dove “ku” e “kara” sono rappresentati dallo stesso kanji, pronunciato in maniera diversa.
(3) Il Bubishi è un antico trattato, composto da 32 articoli, di origine non chiara, probabilmente cinese, e non attribuibile a nessun autore. Diverse persone ne possiedono un esemplare copiato a mano, e le copie non sempre sono congruenti tra loro.
© 2018, Roberto Ugolini
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© Tora Kan Dōjō
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