sabato 14 novembre 2020

Discorso sull'Educazione



Nel mondo occidentale
è offensivo suggerire a un adulto
che la sua educazione è incompleta


Educazione è insegnare ad affrontare la realtà.
Guardavo una gatta indipendente (in ogni senso non accasata) nel parco dell’ospedale di Volterra. Aveva un gattino di due mesi. Nella giornata di sole lei indulgeva alla toeletta in una radura tra l’erba; lui strisciava attorno mimando un agguato. Aggirava la mamma e balzava repentino alle spalle ad afferrarne la coda. Che lei spostava con perfetto tempismo dall’altra parte. E continuava a rassettarsi. Lui riprendeva a strisciare quatto, un quarto di cerchio nell’erba che rappresentava la foresta. Nuovo balzo e nuovo spostamento di coda mentre alle leccate si aggiungeva una mordicchiatina sotto l’ascella. Lui giocava; lei serenamente oziava, mentre lo addestrava all’agguato.
Qualche giorno dopo gli aveva catturato un uccelletto ferito ma vivo. E lui continuava il gioco balzando sulla preda e ancora indietro, più volte. Non ho atteso l’epilogo. La gatta addestrava il figlio a sopravvivere, perché se quell’estate erano coccolati nel nostro raduno judoistico, sarebbe venuto l’inverno e non sempre le pie infermiere avrebbero accudito i randagi; ma più intimamente gli comunicava la serenità e il suo atteggiamento verso la vita.
Andò a finire che il cucciolo fu trasferito a Biella col nome di Calimero e il titolo di Conte di Volterra e svegliò il padrone quando la casa prese fuoco. In questo caso l’insegnamento di caccia attinto dall’esperienza della genitrice si rivelò inutile alla sopravvivenza del micio; ma tornò la buona l’attenzione, la capacità di analizzare i fatti e la sensibilità ai rapporti sociali che, dietro quell’insegnamento, costituivano la proposta educativa.
Quelle immagini non mi lasciano, legate come sono alle riflessioni che hanno prodotto. Il bimbo cresce giocando, ma occorre che il gioco lo introduca all’Universo, lo addestri alla vita, perché questa possa trascorrere piena e degna. Non so da dove vengano i bambini, anime da sempre in fieri, (immortali…?) o antenati incarnati. Certo nulla mostrano di sapere circa questo universo (fatto di terra-acqua-fuoco-aria, o: materia-tempo-energia-spazio come dicono i moderni) ed è necessario istruirli (alle nostre latitudini tempo-spaziali la causa prima di mortalità infantile è l’incidente stradale, strettamente legato alla percezione degli elementi, richiesta nell’azione fisica)
In seguito ascoltavo il maestro Alberto Manzi parlare di Amazzonia. Diceva che se a 5 anni il bimbo della tribù non distingue la penna del tucano da quella dell’avvoltoio, rischia di non cavarsela; con le penne ci gioca, ma per apprendere. Noi veniamo da un passato in cui non c’era il gioco per il gioco, ma solo un apprendimento giocoso. Erano altre condizioni, vigevano altre cause di mortalità infantile che non gli incidenti stradali, non dobbiamo rilassare la nostra attenzione perché il benessere ha rarefatto gli episodi pericolosi che per questo sono ancor più micidiali.
Rispetto all’essere primitivo dovremmo aver sviluppato una personalità più indipendente dal gruppo e di conseguenza una morale di coesistenza che supera le credenze totemiche (etniche, religiose e politiche). A questo siamo arrivati soprattutto per la spinta demografica, che ci costringe a vivere pigiati in una nazione, anziché stretti nella tribù, e a stabilire quindi opportune relazioni sociali. Il nostro modello mortale è legato alla convivenza, e anche il “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” avrebbe scarso valore per Robinson Crusoè. Penso che, senza porlo ad esempio, sia utile tener d’occhio quel grande crogiolo sperimentale che è il Giappone, dove da quindici secoli si verifica un interessante rapporto tra il massimo numero di abitanti e la minima disponibilità di risorse naturali. Ecco che diventano interessanti, per prevedere il futuro nel bene e nel male, le proposte educative, talvolta estreme, che nascono da tali condizioni.
Qual è dunque la realtà a cui dovremmo educare i nostri cuccioli?
A grandi linee possiamo farcene un’idea. Giusto o sbagliato che possa risultare il nostro ragionamento, badiamo di metterci buona volontà, impegnandoci al meglio. Denunciamo subito la possibilità che alcuni adulti ritengano primario dare ai figli la propria esperienza. Ma questo mondo in rapida evoluzione rende abbastanza obsoleta per una generazione
l’esperienza della precedente. Mio padre aveva viaggiato sui tramway a cavalli e stendeva l’emulsione sulle sue lastre fotografiche. Io campeggiavo dove volevo e avevo accettato la sfida di attraversare qualsiasi fiume mi fossi trovato davanti. Mio figlio guida la macchina dai 18 anni; non ha idea di cosa sia una pellicola fotografica se non che va introdotta nella camera prima di usarla; i tram cavalli nemmeno li sogna; ha rinunciato ai campeggi perché presentano regolamenti troppo impegnativi; e non prova a bagnarsi in un fiume senza solide garanzie dell’azienda di soggiorno circa epatite virale e leptospirosi. Per spaziare in altri campi le statistiche denunciano che negli USA le ragazzine hanno le prime mestruazioni tra gli 8 (quelle di colore) e i 9 (le bianche) e immagino che vivano esperienze diverse da quelle delle nostre madri. Insegnare ad affrontare la realtà non equivale a dare la propria esperienza. O meglio, posso insegnare a mio figlio come usare un trapano elettrico, perché io l’ho imparato una quindicina di anni fa e questi attrezzi sono ancora utili. Ma non posso comunicargli l’esperienza sessuale che ho fatto alla sua età, perché allora non c’era l’AIDS, eravamo meno precoci, e il senso di trasgressività era più remunerante. La tecnica del trapano per fare buchi nel muro rientra nell’insegnamento, che può essere la forma apparente e superficiale dietro a cui si nasconde l’educazione. Se poi il figlio degenere trapana il cranio della zia che gli nega i soldi per la dose, devo riconoscere che se il buco è stato fatto a regola d’arte il mio insegnamento ha avuto successo, ma l’educazione fa difetto, con le conseguenze che io dovrò andare al funerale e il giovane in prigione.
Questo esempio, brillante o ingenuo secondo i punti di vista, fa sorridere. Ma traduciamolo in termini d’attualità: se un brillante perito chimico riempie la metropolitana di sarin, provocando poche centinaia di morti, possiamo andare orgogliosi dell’efficacia dell’insegnamento scolastico finanziato dalle nostre tasse (nell’analoga occasione i giapponesi hanno fatto solo mezza dozzina di vittime), ma possiamo chiederci se la nostra munificenza debba essere elargita a persone che poi ne fanno uso personale e interessato (d’accordo che le tasse non sono munificenza e che lo Stato non si interessa di educazione, pressato com’è dal coltivare i voti controllati dall’industria, dal potere religioso e da quant’altro). Difatti l’educazione consiste nel proporre un principio morale la cui caratteristica saliente non risiede nell’essere imposto o rivelato, ma condiviso; perché rappresenta il miglior modo di vivere in questo tempo, in quest’angolo d’Universo, con l’energia di cui dispone mediamente l’attuale essere umano. Così non vedo niente di male nella scienza (scimpanz-uomini, clonazione, inseminazione artificiale, tecnica nucleare, o anche solo industriale), ma penso che ci possa essere tutto il male del mondo nel suo maleducato (immorale) uso a fini di denaro, di potere o di fanatismo. Se poi queste conoscenze ci portano “contro natura”, mi sembra che a questo ci siamo dedicati fin dalla
Cacciata perché la prima volta un cavernicolo ha acceso una torcia per contemplare il partner (spoglio dalla foglia di fico) durante la quiete notturna, ha violentato l’ordine naturale, dati che la notte era stabilita per vedere al chiaro di luna solo nelle circostanze favorevoli. E da quel momento ci siamo dati da fare a modificare l’ordine naturale.
I dotti tirano in ballo l’etimologia del verbo “educare”; e secondo le circostanze citano il latino “condurre fuori” o il greco “nutrire”; definizioni che, a uno che fatto il Classico, insieme propongono un’enigmistica conciliazione degli opposti. Quella greca è pratica, perché bisogna agire opportunamente “mettendo dentro” istruzione per giungere a “tirare fuori” personalità, creatività e capacità (che aiutano ad affrontare la realtà), come somministrando un cibo sano si contribuisce a ottenere un corpo efficiente. Quella latina sintetizza lo scopo e si presta a essere fraintesa da chi ha interesse a “tirare fuori” l’ego. Ma per dare fiducia a questi dotti mi sono perso nell’etimologia delle radici, risalendo a quelle indoeuropee, che si frammischiano a elementi precedenti, matriarcali e neandertaliani. Quindi lascio perdere l’etimologia e chiedo di dare un significato attuale ai nostri concetti, supponendo che siano necessari alla comunicazione.
Ritornando alla realtà pratica, mi sento come quella gatta quando mi trovo coi bambini e ho vivo il senso di essere nel dare; dare ciò che serve a crescere, che può essere anche uno scappellotto, purché il mio sentire sia non-egoico e il mio sentimento puro. Con la scusa dell’insegnamento devo comunicare un sentimento profondo e sereno, indispensabile a ridurre la negatività e i conflitti del mondo. Siamo tutti insieme per crescere e progredire col miglior impiego dell’energia. Cioè intelligentemente, ragazzi! Vado contro l’ortodossia? Mi scomunicherà il potere? Ma il rogo è quello che certo (sia pure il più tardi possibile) per dare forza all’idea.


Cesare Barioli
Marcello Bernardi
Tratto da: ‘Corpo Mente Cuore, Manifesto per una nuova educazione’, 
Luni Editrice

© Tora Kan Dōjō














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