Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento
offerto da Taigō Kōnin Sensei durante la Pratica Zen.
Spero che siate nel silenzio profondo dello Zazen e che le mie parole non turbino il vostro silenzio ma lo attraversino come una brezza che attraversa una stanza.
Quando parliamo di forma dobbiamo fare molta attenzione perché spesso non parliamo della stessa cosa. Qualcuno di voi qualche giorno fa mi faceva una domanda riguardo a questo, e dal momento che per me è una domanda sincera e significativa, come interroga me deve interrogare tutti voi.
La domanda era: “Ma se noi abbiamo tutti un cuore diverso, perché dobbiamo adottare tutti la stessa forma?”
È una domanda interessante ma è una domanda anche molto scontata, l’ho sentita fare parecchie volte espressa in forme diverse, però è una domanda interessante alla quale in qualche modo mi sono sentito in dovere di rispondere, e condividere con voi la mia risposta.
Se noi confondiamo la forma con una tecnica, con un guscio esteriore, siamo completamente fuori strada. L’educazione Zen è radicata nella forma, se non si comprende questo si rischia di essere talmente deviati nel proprio sforzo tanto da andare in tutt’altra direzione.
Purtroppo, proprio per questo mi trovo in difficoltà ed ho delle sincere perplessità nell’insegnare a chi sta lontano e non respira l’aria del Dojo insieme a me, perché alcune cose possono passare soltanto a stretto contatto, letteralmente fisico, osservando come si muove un Maestro, osservando come si muovono i propri compagni, imparando a muoverci ed a relazionarci in rapporto a chi condivide con noi lo spazio di pratica, alle cose che utilizziamo e al nostro insegnante. Tutte le parole che si possono dire su questo, senza un’esperienza concreta fatta con il corpo, rimangono parole vuote. Ma come diceva Katagiri Roshi: Anche se le parole non esprimono in senso compiuto ciò che vogliamo dire, noi, da insegnanti, siamo tenuti a dire qualcosa, ad assumerci il rischio di dire qualcosa su ciò che in realtà è inesprimibile.
Questo per chi si trova nel ruolo di trasmettere qualcosa è estremamente faticoso e doloroso come il tentativo di un parto, non può sapere se quello che nascerà sarà vitale o sarà nato morto.
La
forma è una porta, un passaggio. Non è vero che ognuno ha un cuore
diverso, o quanto meno, è vero fintanto che rimaniamo chiusi nella
nostra concezione di noi stessi ed in quella che riteniamo essere la
nostra individualità separata dal resto.
La forma nello Zen è
la porta che ci permette l’accesso al cuore del mondo, a quello che
Deshimaru Roshi definiva ‘l’Ordine Cosmico’, ad un cuore vasto,
un pensiero vasto, un ordine, un equilibrio, del quale siamo parte ma
che è ben oltre noi. Allora la forma ci ‘costringe’, non in
un’accezione negativa, ci aiuta costringendoci ad usare il corpo e
la mente unificati sperimentando nuove dimensioni, nuovi linguaggi,
nuove sensazioni, un nuovo modo di entrare in relazione con le cose,
con lo spazio, con il tempo e con gli altri. Non bisogna confondere
la forma con una tecnica, con un risultato esteriore.
Lo
Zazen è il più alto dei riti, diceva Deshimaru Roshi: la più alta delle forme.
E cosa facciamo noi in Zazen, con questo corpo
pulsante di vita? Ogni volta che noi sediamo in Zazen ci slanciamo
verso quella forma ideale che è la postura del Buddha.
Ogni
volta deve essere uno slancio, una ricerca entusiasmante ed
appassionata in cui spendiamo tutto noi stessi, non esiste Zazen al
di fuori di questo spendersi totalmente nell’ atto dell’essere
pienamente seduti. Ogni volta cerchiamo di tendere a quella forma
ideale, che vuol dire corpo-mente unificati, che vuol dire veder
dissolvere il nostro pensiero nel pensiero Hishiryo, nel silenzio
profondo, colmo, gremito di richiami. Per fare questo assumiamo una
forma che diventa la porta attraverso la quale possiamo accedere a
questa unificazione.
Il mio Maestro diceva: “La postura di
Zazen è l’arco teso pronto a scoccare la freccia dello spirito”.
Quando voi vi ritirate in ango in un tempio, in Giappone o anche in Europa, c’è un periodo che viene chiamato Tangaryo, che può essere di sette o nove giorni in cui siete isolati in una stanza. Vi tolgono tutto, ogni accessorio personale, come in prigione, e per una settimana fate solo Zazen. C’è un monaco che si prende cura di voi, vi porta da mangiare, si dedica a spiegarvi nel dettaglio tutte le regole e le forme da adottare in quel tempio; dopo questo periodo, sempre che voi siate riusciti a superare la settimana in isolamento, siete ammessi nella comunità. Ovviamente non sarete reclusi in una stanza, uscirete e andrete nei bagni e potrete fare le vostre cose, ma quando incrocerete qualcuno vi ignorerà come se foste un fantasma. In realtà non esistete, siete ancora in qualche modo intrappolati nella vostra identità e avete bisogno di passare attraverso l’esperienza iniziatica, di capire quale linguaggio usare per comunicare con gli altri, per essere davvero parte della comunità. È effettivamente un’iniziazione. Oggi che non siamo più abituati a vivere l’iniziazione in nessun modo, ci può sembrare una cosa strana, costrittiva, frustrante. Eppure, se non passiamo attraverso il momento iniziatico, noi non saremo mai entrati nel Dōjō , non saremo mai entrati davvero nella relazione.
Se l’abate di Eiheiji venisse in questo momento al Tora Kan Dojo, prima di entrare mi chiederebbe: “Cosa devo fare? Insegnami … come fate qui?”, anche se io posso essere considerato l’ultimo dei monaci, l’ultimo del maestri. L’abate di Eiheiji sa cosa vuol dire una forma in un Dōjō e non pensa di aver capito tutto, non pensa che la sua forma sia migliore della nostra o che lui abbia compreso più di quello che possa aver compreso io; lui sa che per accedere a questo luogo, lui deve adottare una specifica forma, deve comunicare con quel linguaggio, altrimenti non sarà mai entrato nemmeno se varcherà la soglia … e questo vale per ognuno di noi.
Quindi pensate quanto può essere difficile pensare di essere entrati al Tora Kan Dōjō collegandosi online, come qualcuno ha la pretesa di fare, senza attraversare il momento iniziatico. Mi auguro che ognuno di voi che è lontano faccia tutto il possibile, anche oltre il possibile, per poter venire in questo luogo il più frequentemente possibile, il che vuol dire fare qualcosa di più di quelle che crediamo essere le nostre possibilità e limitazioni. Questo luogo non significa solo il Tora Kan Dōjō ovviamente, significa uscire dalla propria casa ed ‘andare e vedere’, intraprendere il pellegrinaggio verso noi stessi che ci richiede di perderci per ritrovarci.
Tornando alla forma, quando io posso dirvi, come è stato detto a me, e come io ho sperimentato nella mia esperienza e nel mio corpo, “alza bene i gomiti quando fai Gassho … alza bene i gomiti …” qualcuno potrebbe pensare: “ma se li tengo tre dita più giù cosa succede? magari io mi sento meglio così.”
Eppure
nel momento in cui tu segui l’esortazione ed alzi i gomiti, come
tante volte ho spiegato, il tuo corpo ti immette in una comprensione
diversa, la mente e il corpo percepiscono delle cose, la forma ti
informa … se tu lo fai davvero con partecipazione il tuo respiro
cambia.
Non lo facciamo per ‘fare bene il compitino che ci ha
assegnato qualcuno’ ma lo facciamo per fare esperienza diretta del
Risveglio. Se non trovi il paradiso nel momento in cui alzi i gomiti
facendo Gasshō, non lo troverai nemmeno quando sarai in un’altra
vita.
Lo Zen ti dice alza i gomiti perché in quell’alzare i gomiti stai abbracciando il mondo intero, perché è il gesto di un abbraccio, perché il tuo respiro cambia e le tue spalle si abbassano, perché le tue dita davanti ai tuoi occhi ed il contatto delle tue mani unite innescano qualcosa nel tuo corpo e nella tua mente che ti fanno comprendere che cosa vuol dire davvero inchinarsi.
Nello Zen si dice che quando c’è una relazione con un insegnante s’instaura Kannodoko, una comunione di menti, una comunione di cuori che comunicano al di là delle parole, ed è quello stesso Kannodoko che si trasmette da cuore a cuore, la mente del Buddha, la comunione che ognuno di noi sedendo in Zazen instaura con il Buddha stesso, con la sua mente, che non è la mente di un uomo vissuto 2700 anni fa, ma è la Grande Mente di cui il Buddha, come noi, siamo un’espressione.
Se voi fate Sampai con fiducia quando voi portate la fronte a terra e toccate la terra, se lo fate con spirito sincero, potrete ascoltare il brusio della terra, ascolterete quella parola dolce e delicata che la terra sussurra alle vostre orecchie mentre poggiate la vostra fronte, che non potrete sentire se siete pieni di voi; se voi poggiate la vostra fronte a terra con lo stesso atteggiamento di devozione e di amore con cui la poggereste sulla fronte di una persona che amate, di vostro padre o di vostra madre, allora la terra vi parlerà.
Ma se voi fate Sampai con l’atteggiamento di chi è intento a perfezionare un gesto tecnico, per quanto formalmente perfetto lo possiate fare, se non c’è quella partecipazione del cuore, la terra rimane muta, si ritrae. Perfezioniamo i nostri gesti perché il nostro corpo e la nostra mente divengano ‘uno’ in ogni azione, il che vuol dire essere totalmente presenti. Più il gesto si raffina e più siamo agevolati in questo, ma questo non significa che il gesto di un principiante che tiene la ciotola con tutte le dita e non con le prime tre, se lo fa con il cuore, con la tensione ‘verso quel’ gesto e ‘verso quel’ significato, non sia pienamente la mano del Buddha.
Quelle braccia che tengono la ciotola non devono essere più le nostre braccia in cerca avidamente di qualcosa per riempire lo stomaco ma devono essere le braccia dell’universo intero che si tendono nell’offrire e nel ricevere la vita stessa.
Quanto più i maestri sono esigenti e richiedono una forma accurata e tanto più spesso gli allievi diventano integralisti e degli specialisti tecnici, ma è un rischio che vale la pena di correre. Bisogna saper riconoscere se quell’allievo in quel momento sta mettendo davvero tutto se stesso in quel gesto, anche se è apparentemente sbagliato. Se lo sta facendo con lo spirito giusto, qualcosa sta passando e sarà qualcosa che sta passando per lui e che io non potrò neanche lontanamente giudicare ed immaginare.
Posso fare solo da ponte, indicargli la via, indicargli la porta ma non posso passare per lui e non posso neanche sapere cosa lui vedrà, perché non sarà lo stesso panorama che ho visto io; sarà l’accesso a quel cuore comune che ci permetterà di guardarci e comprenderci aldilà delle parole. Quando vi inchinate in Gasshō uno di fronte all’altro voi lo sentite; chi lo pratica in un Dojo lo sa, può riconoscersi nelle mie parole. Si crea una comunicazione che va oltre le parole perché quei gesti sono come dei diapason, risuonano.
Se io vi dico che il Moppan si suona in questo modo è perché siete costretti a risuonare in quel modo. Risuonando in quel modo, il vostro cuore ed il vostro spirito, vibreranno insieme al legno, insieme al metallo che suona.
Il mio Maestro diceva: “La forma è una porta verso la libertà”. Libertà da se stessi innanzi tutto, da i nostri pregiudizi, da i nostri mi piace/non mi piace, dai nostri condizionamenti.
Lo Shodoka recita: “Un solo mi piace, non mi piace ed il cielo e la terra sono definitivamente separati.” Quando leggiamo queste cose, di cosa pensate che stiamo parlando? Questo è lo Zen.
Non si tratta di aderire ad uno schema, ma è ‘tendere verso’, è tenere l’arco per far scoccare la freccia. È come il Maestro di Kyudo che tende l’arco con una forma precisa; se voi non rispettate quella forma non riuscirete mai a tendere quell’arco.
Nel libro ‘Lo zen e il tiro con l’arco’ quando Herrigel torna dal suo maestro e gli fa vedere tutto fiero di sé che era arrivato a padroneggiare quel gesto e che riusciva finalmente dopo mesi o forse anni in cui aveva fatto fatica anche solo a tenderlo, il Maestro va lì e senza dire una parola, fa fare un giro al perno che tende ancora di più la corda e gli dice: “Adesso che hai raggiunto questa forma, vai oltre”. Lui rimase sconfortato da questo, perché noi ci attacchiamo ai nostri risultati e vittorie, ma spesso son quelle che ci costringono a rinchiuderci in noi stessi, a ristagnare, a non crescere.
Il maestro di Kyudō tende l’arco con un gesto apparentemente privo di senso pratico, alzando le braccia sopra la sua testa, il che vuol dire non avere più nessun muscolo, di quelli più forti, coinvolto nel tendere l’arco, e così è costretto ad usare solo il respiro. Le braccia connesse al respiro e ad un certo stato del cuore permettono di tendere un arco che neanche un muscoloso pesista riuscirebbe a tendere. Una volta teso l’arco dimentica anche il bersaglio e a quel punto la freccia parte da sola: questo è lo Zazen, questa è la forma nello Zazen. Se voi mi dite: ma io potrei tendere l’arco con una carrucola! Certo, fatelo. La freccia potrà anche attraversare il bersaglio, ma non partirà la freccia dello spirito. L’aver centrato il bersaglio allora, sarà solo un ottenimento transitorio e insignificante come in ogni altra nostra azione in cui lo spirito ed il cuore non guidano la mano.
(registrazione e
trascrizione a cura di Monica Tainin De Marchi)
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