Francesco vide dunque dissolversi sotto i suoi occhi le forme di esistenza dentro le quali si conservano pure le sorgenti del vero sapere. Con un termine a lui caro, potremmo riassumere quelle forme nella « semplicità»; «o regina sapienza, il Signore ti salvi con la tua sorella, la pura e santa semplicità » (FF, 175). Essa non va identificata, come avviene nell'accezione corrente, con la mancanza di raziocinio e cioè con la dabbenaggine, ma con quella intemerata dell'intelligenza che la rende omogenea alle cose, in modo che essa le colga prima che avvenga la manomissione che le svuota del loro senso nativo per inserirle nella strategia con cui l'uomo riesce ad imprimere sul mondo e sulla vita il sigillo del proprio dominio. Ed è così che l'uomo perde la grana delle cose e mentre ecco uno stupendo assioma di Francesco egli « sa in quanto fa » (« homo scit in quantum operatur ») (Legp, 74), presume di fare in quanto sa.
I compagni che Francesco prediligeva erano uomini semplici come Masseo, Egidio, Ginepro che entravano in sintonia con lui sia quando parlava con gli uccelli o con le cicale sia quando, per risolvere una questione, si rifaceva al vangelo per ritrovare il luogo sorgivo dell'armonia fra l'amare e l'intendere. Non solo i suoi compagni ma anche il popolo, avvezzo a sopportare concioni dei dotti predicatori, ritrovava con gioia se stesso, la propria umanità espropriata della sua dignità dal dominio della scienza clericale, quando ascoltava i discorsi di Francesco, e per lo più non negli spazi riservati ai chierici ma nella pubblica piazza, centro della vita civica, come capitò a Bologna nel 1222, secondo la testimonianza di Tommaso da Spalato, allora studente in quella università:
“... non aveva stile di uno che predicasse, ma di conversazione. In realtà, tutta la sostanza delle sue parole mirava a spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi patti di pace. Portava un abito dimesso; la persona era spregevole, la faccia senza bellezza. Eppure, Dio conferi alle sue parole tale efficacia, che molte famiglie signorili, tra le quali il furore irriducibile di inveterate inimicizie era divampato fino allo spargimento di tanto sangue, erano piegate a consigli di pace. “ (FF, 1932)
Una volta almeno gli capitò di peccare contro la « santa semplicità », ma il ravvedimento coincise con l'atto del peccato. Doveva parlare davanti al papa Onorio e ai cardinali. Data la circostanza, su suggerimento del cardinale Ugolino, « aveva mandato a memoria un discorso stilato con ogni cura ». Senonché « al momento di pronunciare quelle parole edificanti, dimenticò tutto e non riuscì a pronunciare nemmeno una frase ». « Dopo aver esposto con umiltà e sincerità il proprio imbarazzo » si raccolse in sé, invocò lo Spirito Santo e prese a parlare come gli dettava dentro e « riuscì a piegare il cuore di quegli illustri personaggi » (LegM, 12). Non c'era alternativa, per lui, alla sapienza del povero!
Postulato di questa sapienza era una vera e propria rivoluzione sociale che abolisse sia la frattura tra i dotti e i semplici sia quella, ben più radicale, tra gli uomini e il mondo fisico: come dire le due basi strutturali di quelle alienazioni di cui oggi scontiamo gli effetti estremi. Francesco si accorse che questa via, l'unica in cui veramente credeva, non era percorribile da un Ordine che era cresciuto a dismisura - « aveva paura del gran numero dei frati, perché... segno di ricchezza » (2 Cel, 70) e non poteva essere più guidato, come era nei suoi voti, dalla sua testimonianza di vita. Un giorno, uno dei suoi compagni gli fece osservare che i frati si erano allontanati dalle forme di vita dei primi tempi, quando la santa povertà splendeva in tutte le cose: « negli edifici piccoli e miseri, negli utensili pochi e rozzi, nei libri scarsi e poveri, nei vestiti da pezzenti». Ma ormai, cresciuti di numero, i frati sembrano convinti che quel modo di vivere non sia più conveniente né corrisponda alle attese del popolo:
«hanno quindi scarsa stima povertà e semplicità, che sono state ispirazione e del nostro movimento ». Francesco risponde che che lui la pensa così e proprio per questo ha lasciato la responsabilità dei frati: « quando mi resi conto che non lasciavano il cammino sbagliato malgrado le mie esortazioni ed esempi, rimisi l'ordine nelle mani del Signore e dei ministri » (Legp, 75). Questo supremo distacco dalla sua stessa creazione, questo suo ritirarsi, in coerenza con sé, nella sfera delle sue convinzioni più profonde, senza la pretesa di imporre agli altri è, per un verso, il segno della sua sapienza, radicata nella povertà e nella libertà, per l'altro, è il segno della autenticità del suo spirito profetico che lo portò a consegnare la storia dei suoi e del mondo al proprio corso, nella certezza che la luce della vera sapienza, la sapienza del povero, distaccato perfino dal successo - avrebbe avuto, prima o poi, la sua vittoriosa irradiazione.
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