martedì 4 maggio 2021

Intervista a Yahara Sensei




A TU PER TU CON IL M° MIKIO YAHARA,

CAPO-ISTRUTTORE DELLA KWF (KARATENOMICHI WORLD FEDERATION) di Shaun Banfield e Robert Sidoli

Yahara: un nome che suscita timore e rispetto. La sua fama di accanito combattente con l’assoluta determinazione di ricercare il “colpo risolutivo” ha fatto di lui un temibile avversario e un insegnante degno di rispetto, tanto che il suo nome è diventato praticamente sinonimo di “Karate Bujitsu”. Mikio Yahara, nato nel 1947 nella prefettura di Ehime, ha cominciato il suo addestramento marziale nel judo, in modo simile a molti suoi coetanei. Successivamente ha iniziato la pratica del karate ed è entrato nella JKA. Dopo l’università si è iscritto al celebre corso istruttori della JKA e la sua reputazione di agonista e di insegnante ha diffuso la sua fama a livello internazionale. Sensei Nakayama ha scritto di lui nella sua opera “Best Karate”: “Mikio Yahara è un karateka il cui temerario stile di combattimento lascia gli spettatori senza respiro”. Forse il tratto caratteristico di Yahara è la sua risolutezza. Ha una determinazione caparbia e tenace e non cede mai nè indietreggia. Il suo bisogno di “vincere” (la vera battaglia, non la gara) è probabilmente la ragione per cui alcuni l’hanno soprannominato “il campione del Giappone che non ha mai vinto”! Veniva squalificato o non veniva assegnato il punto alle sue tecniche perché spesso combatteva con troppo “Shinken Shobu” (lett: combattimento reale) e non si conformava alle “regole sportive”. Esegue un kata vivente, ma ancor di più un kumite con la sensazione di “Jissen”, quasi una vera battaglia. Nel 2000 ha fondato la KWF (Karatenomichi World Federation) con Akihito Isaka come vice-capo istruttore e un’esaltante seguito di esperti. La filosofia suprema, il “colpo risolutore” è l’obiettivo cruciale di Yahara e della KWF. Il karate KWF ha una durezza che richiama alla mente la vecchia JKA degli anni 50 e 60, e non si adegua agevolmente a quello che alcuni conderano come “karate moderno”. Yahara è una personalità affascinante, carismatica, a volte fraintesa. Questa intervista permette di capire un po’ meglio l’uomo Yahara oltre che il karateka.

-Sensei, so che è stato intervistato molte volte, ma se possibile vorrei concentrarmi su aspetti diversi e sapere il suo punto di vista. A 18 anni, Lei ha lasciato Eshime e si è trasferito a Tokyo. Cosa l’ha spinta ad andarsene di casa per studiare il karate quando sicuramente c’erano dei dojo

nella sua zona? Mi risulta ad esempio che Suo fratello fosse un karateka.

-Ho cominciato a imparare il karate dal mio fratello maggiore. Quando ero al liceo, mi sono iscritto al club di judo, ma non avevo la sensazione che bastasse, quindi ho trovato e mi sono iscritto a un dojo del quartiere, che per caso era affiliato alla JKA. Tuttavia, quando frequentavo le medie inferiori, mi è stato diagnosticato un disturbo cardiaco: facevo fatica a camminare per cento metri!

-Quindi aveva problemi cardiaci?

-Proprio così. In ogni caso, al liceo mi sono iscritto al club di judo perchè non volevo essere debole e volevo superare il mio disturbo al cuore. Non volevo darmi per vinto, quindi mi sono iscritto a judo. Ma come ho detto non mi bastava, perciò mi sono iscritto al club di karate della città, che era un dojo Shotokan. All’epoca in TV c’era una serie intitolata Karate no Fuunji (Il karateka). Nel film, l’attore era un vero karateka, perché un attore non avrebbe potuto interpretare le scene di azione. Ho scoperto che la maggior parte degli attori di quel film erano istruttori della JKA. Quando ho sentito questa storia nel mio dojo, sono rimasto molto colpito dal fatto che degli istruttori di karate potessero fare qualcosa del genere. Ho pensato che fosse straordinario, perciò ho deciso che volevo andare all’Hombu Dojo della JKA e diventare come loro. Inoltre, la JKA non solo era l’organizzazione più famosa del Giappone ma avevano dojo in tutto il mondo. Perciò la mia grande motivazione iniziale era di entrare nell’Hombu Dojo JKA per diventare istruttore, e inoltre volevo essere coinvolto in un’attività che mi portasse in giro per il mondo. Avevo questo grande sogno.

-Lei si è allenato all’Università Kokushikan. In che cosa consisteva il suo allenamento e su cosa era focalizzato?

-Mi sono iscritto al club dell’università ma non c’era nessuno più forte di me e quando andavo al club per allenarmi la maggior parte dei miei sempai non si faceva vedere. In sostanza, avevano paura di allenarsi con Yahara. In pratica, anche nel periodo universitario, la maggior parte dei miei allenamenti si svolgeva all’Hombu Dojo JKA. Qualche volta dovevo saltare l’allenamento all’Hobu Dojo perchè le lezioni si svolgevano tardi e io dovevo andare al club universitario. Di solito, se non si frequenta regolarmente il club universitario, si viene “puniti”. Nel mio caso, ci andavo io a punire la maggior parte dei praticanti. Per quel che riguarda il mio progresso tecnico, a quell’epoca avevo la sensazione che il club dell’università Kokushin non mi influenzasse molto nè positivamente nè negativamente. Quasi tutta la mia formazione avveniva all’Hombu Dojo JKA. Ma per favore non mi fraintenda, non mi sto lamentando del Kokushikan e non intendo mancare di rispetto verso di loro. Dico semplicemente che il mio karate si è forgiato all’Hombu Dojo JKA. Il club universitario Kokushinkan aveva una buona reputazione con oltre cento iscritti.

-Quindi non sta affermando che l’Università Kakushikan era debole?

-Beh, l’università più forte all’epoca era la Takushoku. Non sto dicendo che la Kokushikan fosse debole, ma che io ero più forte di tutti gli altri allievi. Sono andato ad allenarmi alle università di Komazawa, di Nodai e alla Nihon Taiku Daigaku ma non ho mai perduto un combattimento (ride). Queste università all’epoca avevano buona reputazione ed erano considerati dei club forti. Quindi per riassumere, il mio “campo base” era l’Hombu, ma se non facevo in tempo, andavo ad allenarmi all’università.

-Dopo l’università ha seguito le orme di molti grandi della JKA entrando nell’Hombu Dojo. Chi sono stati i Suoi insegnanti e com’era l’allenamento in confronto al Kokushikan?

-Quando sono entrato io, i maestri Enoeda e Shirai erano già partiti per l’Inghilterra e l’Italia ma il maestro Kanazawa era appena tornato. Sensei Nakayama ci insegnava e praticava con noi. Nakayama Sensei era l’istruttore capo e Kanazawa Sensei era il suo assistente. C’era ancora anche Ochi sensei. Non è possibile confrontare la pratica all’Hombu Dojo e all’università. All’università la paura non entrava mai in gioco, ma incamminandomi verso la JKA ero sempre preoccupato: arriverò alla fine dell’allenamento senza farmi male? Mi ferirò seriamente? Così, appena prima di entrare nel dojo ogni volta dovevo corazzarmi per l’allenamento imminente. Dovevo farmi forza perchè c’erano tanti istruttori forti e famosi.

-Che cosa le ha fatto decidere di diventare istruttore?

-La ragione per cui mi ero iscritto era che volevo imparare il vero karate e delle tecniche reali e la JKA poteva darmi quelle tecniche e quelle occasioni. Volevo padroneggiare quelle splendide tecniche e assimilandole volevo esplorare il mondo insegnando il karate. Volevo sorprendere la gente dimostrando grandi e belle tecniche di karate. Devo sottolineare di nuovo che la differenza di livello tra il karate universitario e quello all’Hombu Dojo è la differenza tra il livello amatoriale e quello professionale. Al giorno d’oggi gli studenti mirano a vincere le gare e questo fa capire la differenza tra allora e adesso. Fa capire che i livelli professionale e amatoriale stanno diventando indistinguibili, si confondono. La ragione è che il karate sta diventando sempre di più uno sport, simile a un gioco. Una volta che ci si incammina sulla strada della trasformazione del karate in uno sport, si comincia a perdere l’idea della necessità di essere un professionista, di che cosa significa essere un professionista. Dato che io conosco la differenza tra un professionista e un dilettante, devo tracciare una linea chiara, fare una chiara distinzione tra il vero karate a livello professionale e il karate sportivo praticato dai dilettanti. E’ essenziale che la gente capisca la differenza. Io voglio preservare e mantenere il livello professionale delle tecniche, e questo è uno degli scopi della KWF.

- Come agonista Lei ha gareggiato sia nel kata che nel kumite, applicando a entrambi la stessa determinazione. Quale specialità preferiva?

-Nel mio caso, lo scopo di praticare i kata è di consolidare e aumentare la forza nel kumite. Per rafforzare il proprio kumite, bisogna praticare il kata, e il kata è il metodo di allenamento più tradizionale. Il mio kata non è finalizzato alla gara, il mio kata è per allenare il kumite. Nel mio vecchio video di Unsu fatto per la JKA, si dice che c’è “anima” nell’Unsu di Yahara. La ragione per cui c’è anima è che io metto l’anima nei miei kata. Io pratico e kata per combattere. Dal punto di vista del mio atteggiamento mentale, kumite e kata sono la stessa cosa.

-Bujitsu e Budo sono concetti molto importanti per Lei e per la sua idea del karate. Può spiegarceli e dirci in che modo si collegano al karate?

-Il concetto di Bujutsu è di difendere la tua vita e il tuo corpo da un attacco usando tecniche marziali, e ogni tecnica è un Bujutsu. La parola Bu ha in sè il significato di proteggere te stesso mentre allo stesso tempo sconfiggi il tuo aggressore. Si pensa che Do sia un sentiero molto ripido e difficile che devi percorrere in salita per allenare e perfezionare quelle tecniche. Questo sentiero è la pratica, la lunga ripetizione, il forgiare la tecnica, il corpo, la mente. Prendere questo sentiero, intraprendere questa strada o modo di vivere, con un significato professionale o personale o spirituale – per esempio lavorare al servizio del Re, o proteggere la tua famiglia, o per promuovere la tua condizione sociale – perchè essere forte è la chiave del tuo successo. Ora, per diventare forte, devi combattere. Ma per combattere, devi rischiare la vita. E per combattere bene devi essere in uno stato di Mu, di non-essere. Non puoi essere nella condizione di provare paura, o di voler fare questa o quella cosa. Questo è uno stato di Shugyo, o addestramento mentale, per raggiungere il tuo scopo. Questo è in aggiunta all’addestramento fisico per migliorare la tua tecnica. Ci sono due condizioni per essere forti: essere allenati fisicamente ed essere allenati mentalmente, e quando si combatte, si deve essere forti da entrambi i punti di vista. Sostanzialmente per essere veramente forti bisogna averli entrambi. Se non hai un animo forte, non sarai in grado di stabilire una buona tecnica. Per esempio, si potrebbe dire che se sei così sfinito da non poter eseguire una tecnica, questo potrebbe dimostrare la tua debolezza mentale, o al contrario se la tua tecnica si rafforza aumenta anche la tua sicurezza. Quindi possiamo dire che ci sono due elementi che esistono in una relazione simbiotica in modo che per diventare più forti si devono allenare entrambi. C’è una corrispondenza tra forza mentale e tecnica – una tecnica forte viene da un forte allenamento mentale. Nel Budo, ci sono certi obiettivi che si possono conseguire, ognuno ha i propri scopi e per raggiungerli è importante allenare, migliorare e perfezionare le tecniche mantenendo un forte atteggiamento mentale. Se non allenate e perfezionate entrambi gli aspetti, non sarete in grado di raggiungere i vostri obiettivi. Quello che dovete fare è eliminare il vostro ego, dovete avere la forza di eliminare il vostro ego, di raggiungere uno stato di Mu, uno stato privo di emozioni – nessuna paura, nessuna rabbia, nessuna emozione, e nessun attaccamento alla vita stessa.

-Uno dei Suoi principi preferiti è che “Ogni pugno, ogni calcio, dovrebbe essere colmo fino all’orlo dell’energia necessaria per sferrare un colpo mortale.” Il concetto di Ikken Hisatsu è essenziale per la vera comprensione del karate come bujitsu?

-Senza Ichigeki Hisatsu [un’altra formulazione dello stesso concetto, n.d.T.] io non posso esistere. In Ichigeki Hisatsu, si tratta di una battaglia per la vita o per la morte. Questo è quello che faccio. Fare Shinken Shobu significa che se fai un errore muori, l’immediata conseguenza di un errore è la morte. Perciò che genere di allenamento è necessario per fare Shinken Shobu? Che genere di apprendimento è importante in questo processo? Ai vecchi tempi, un Samurai aveva una spada e una volta che quella spada era sguainata, era la fine – o per il suo nemico o per lui. Una volta che la katana è stata sfoderata, è la fine. Perciò, in un combattimento di karate, la mia sensazione è che se mi muovo uccido l’avversario o vengo ucciso. Quindi voglio ottenere lo stesso livello di resistenza e forza mentale richiesta in Shinken Shobu. Inoltre, per il mio orgoglio personale, devo vincere se mi muovo. E per vincere, devo uccidere il mio nemico.

-Sebbene sia un’espressione che molti associano al Chado [cerimonia del tè, n.d.T.], Ichi-go ichi-e (“una volta, un incontro”) è un concetto legato al Buddismo Zen e talvolta al Budo . In un combattimento per la vita o per la morte non c’è una seconda occasione di “riprovare”. Questa filosofia si accorda con la Sua idea del karate?

-Beh, per esempio nelle gare al giorno d’oggi, se perdi un combattimento in gara puoi accedere al “ripescaggio” – e io penso che sia un’assurdità totale. Nel nostro modo di pensare, o nel Karate come Budo, non possiamo concepire di avere una regola simile. Una volta che sei sconfitto sei finito. Naturalmente dietro tutto questo c’è una differenza sostanziale tra un vero combattimento e una gara sportiva. Quello che sto cercando di far capire è che si deve trattare ogni occasione come se fosse la vostra unica occasione – ecco le ragioni dell’importanza di incontrare delle persone e di passare del tempo insieme per celebrare quel momento irripetibile. Perciò, in termini di un combattimento di karate, devi lanciare la tua tecnica come se fosse la tua sola e unica occasione, e devi farlo con piena responsabilità e senza rimpianto, mettere tutta la tua energia in quell’unica tecnica. Per un Budoka, avere orgoglio è molto importante, e avere quell’orgoglio è una delle cose più importanti. In un combattimento reale, in effetti, devi liberarti dell’orgoglio. Questo è un concetto un po’ differente, ma dalla mia esperienza personale, se vinco, ho il dominio della distanza e controllo totalmente il mio attacco...so che anche prima di attaccare, il mio avversario è già sconfitto. E’ così’ che vinco.

Tratto dalla pagina Facebook 'Yoi'



© Tora Kan Dōjō

















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