Un Maestro
tibetano disegnò un giorno per i suoi studenti, sul bianco di una lavagna, il
segno stilizzato di un piccolo uccello e chiese: «Cos’è?» Nacquero tante
diverse risposte. Tutte decifravano il piccolo segno. In molti risposero: «Un
uccello». E il Maestro, continuando a scuotere sorridendo la testa, rispose: «È
un cielo vasto e in questo momento sta passando un uccello». Siamo cieli vasti
e restare connessi alla vastità ci permette di vedere i fenomeni che ci
attraversano, di riconoscerli, sentirli e guardarli svanire. E se c’è
malinconia, nostalgia, disperazione nel vederli spuntare o nel vederli
scomparire, sono altrettanti uccelli, uccelli disperati, malinconici,
struggenti, e guardiamo anche loro, li sentiamo, li lasciamo sostare tutto il
tempo che vogliono e poi li guardiamo volare via quando il loro tempo è venuto.
Non è facile, si tratta di spiazzarsi, non essere più un centro, ma una grande
periferia sconfinata, e veder sorgere e tramontare i fenomeni e accorgerci
dell’amorevole sfondo che rimane e che non è di nessuno.
tratto da: Candiani, Chandra Livia.
Il silenzio è cosa viva: L'arte della meditazione. Einaudi.
© Tora Kan Dōjō
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