English version below.
Quante persone che moriranno oggi sanno
che questo sarà il loro ultimo giorno di vita? Penso agli amici che sono morti senza
portare a termine i loro progetti, senza aver avuto l’occasione di salutare la
propria sposa, i propri figli, senza aver perdonato un amico. Tanto meno siamo portati a pensare
che potrebbe accadere anche a noi.
Potremmo prenderci cura di una amica
morente commettendo l’errore naturale di pensarci separati dalla sua
esperienza. Nella nostra mente, potremmo separare noi stessi da lei “Lei sta
morendo e io sono il badante”. Ma in realtà, noi siamo uniti dai
legami dell’impermanenza. Magari sarà anche sgradevole dire a sé stessi “sto
morendo”, ma è la verità, tu stai già morendo. Così io. Siamo tutti legati dall’inevitabilità
della perdita e della morte, anche se sembra che ci stiamo destreggiando bene
sulla strada della vita.
Ciascuno di noi ha dovuto abbandonare
qualcosa che amava. Abbiamo sacrificato progetti o sogni ai quali tenevamo,
provando dolore e perdita. Tutti noi abbiamo sperimentato l’impermanenza, che è
solo un’altra forma di morte. Cosa non cambia in un modo o nell’altro? Tutto
cambia incessantemente. Anche il Sole, simbolo di immortalità, è una stella
destinata un giorno ad estinguersi. Se cominciassimo ad allenarci ad osservare
i cambiamenti nella natura o nelle nostre esperienze quotidiane, ci metteremmo sulla
strada per la salvezza dalla sofferenza.
Accettare l’impermanenza e la nostra
mortalità condivisa richiede di allentare il nodo della storia: lasciar andare
i nostri pensieri, le idee, le aspettative in merito a quello che pensiamo
debba essere morire. Ci chiama a “praticare la morte”, ossia a lasciar andare, ad
arrenderci, nel migliore dei mondi, a praticare la generosità. Possiamo cominciare
ora, in ogni momento, a praticare la morte. E se lo facciamo, percepiremo l’interdipendenza
della sofferenza e della gioia – che la vita e la morte non sono separate ma
intrecciate come radici nella profondità della Terra.
Quando siedo con una persona morente,
sento spesso dentro di me queste parole: “Qualsiasi sofferenza stia
sperimentando questa persona, la situazione cambierà”. Forse per il meglio,
forse per il peggio. Il cambiamento è inevitabile, questa è l’impermanenza.
Allo
stesso tempo è necessario essere pienamente presenti per la verità spesso
travolgente e cruda della sofferenza momento per momento. La
consapevolezza dell'impermanenza può servire ad approfondire il nostro impegno
a vivere una vita piena di valore e significato.
Molte tradizioni insegnano l’inevitabilità
della morte come fondamento dell’intero percorso spirituale. Platone diceva ai
suoi allievi: “Praticate la morte”. I monaci cristiani dell’Europa medievale si
ripetevano l’un l’altro “Memento Mori” (Ricorda che devi morire). E un Sutra
Buddista ci dice: “Di tutte le orme quella dell’elefante è la suprema. Di tutte
le meditazioni, quella sulla morte è la suprema.”
Da: Halifax, Joan (2008). Being with Dying: Cultivating Compassion and
Fearlessness in the Presence of Death. Boston ; Boulder: Shambhala, 2008.
ISBN 1590307186
How many people who will die today even
know that this will be the last days of their lives? I think of friends who
have died without completing projects, without having had the opportunity to
say words of goodbye to a spouse or a child, without having forgiven a friend.
Again, we still don’t believe it can happen to us.
We may take care of a dying friend and
make the natural mistake of thinking ourselves separate from her experience. In
our minds, we may divide ourselves from her: “She is dying; I’m the caregiver.”
But in reality, we’re joined by the bonds of impermanence. Maybe it’s too
disturbing to say to yourself, I am dying, too. But the truth is, you are
already dying. So am I. We’re all linked by the inevitability of loss and
death, even if we seem to be easily meandering down the road of living.
“Already, all of us have experienced
impermanence, which is just another form of dying.
Every one of us has had to give up
something we loved. We’ve sacrificed cherished plans or dreams, felt grief and
loss. Already, all of us have experienced impermanence, which is just another
form of dying. What hasn’t changed in one way or another? Everything is always
changing. Even the Sun, a symbol of immortality, is a star that will someday be
extinguished. If we start training ourselves to observe the changing nature of
our everyday situations, we can be on our way to freedom from suffering.
Accepting impermanence and our shared
mortality requires loosening the story knot: letting go of our concepts, ideas,
and expectations around how we think dying ought to be. It also calls us to
“practice dying”—that is, to let go, surrender, and give away, in the best of
worlds, to practice generosity. We can do this now; at any time, we can start
practicing dying. And if we do, we might also start to perceive the
interdependence of suffering and joy—that life and death are not separate but
intertwined like roots deep in the Earth.
When I am sitting with a dying person, I
sometimes hear the following words inside me: “Whatever suffering this person
is experiencing, it will change.” Maybe for better, maybe for worse. Change is
inevitable—that’s impermanence. And at the same time, it is necessary to be
fully there for the often overwhelming and raw truth of moment-to-moment
suffering. The awareness of impermanence can serve to deepen our commitment to
living a life of value and meaning. Many traditions teach the inevitability of
death as the bedrock for the entire spiritual path. Plato told his students,
“Practice dying.” The Christian monks of medieval Europe ritually whispered to
one another, “Memento mori” (“Remember death”). And one Buddhist sutra tells
us, “Of all footprints, that of the elephant is supreme. Of all meditations,
that on death is supreme.”
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