sabato 5 settembre 2020

Ogni giorno è un buon giorno.





Ogni sabato pomeriggio esco, diretta a una casa che si trova a dieci minuti di cammino. È una vecchia casa, con una grande fatsia in vaso vicino all’entrata. La porta d’ingresso scorre con un rumore di legno secco, il tataki dell’atrio è cosparso d’acqua e si sente odore di fuliggine e carbone. Dalla parte del giardino arriva lieve un suono di acqua corrente.
Entro in una stanza silenziosa che affaccia su quel giardino, mi siedo in ginocchio sul tatami, riscaldo l’acqua, preparo il tè e lo bevo. Non faccio altro, tutte le volte.
Ripeto l’esercizio della cerimonia del tè una volta alla settimana da venticinque anni, da quando ero una studentessa universitaria.
Ancora adesso, dopo venticinque anni, spesso sbaglio la sequenza. Ci sono un sacco di cose di cui non capisco il senso e mi resta sempre il dubbio del perché, poi, si debba fare cosí. Mi si addormentano le gambe. Le regole sono complicate. Non riesco nemmeno a immaginare quanta pratica dovrò fare ancora perché tutto mi sia perfettamente chiaro.
«Ma cos’è che ti piace della cerimonia del tè? Com’è che continui ancora, dopo tanto tempo?»
Capita che gli amici me lo chiedano.

Quando ero in quinta elementare, i miei genitori mi portarono a vedere La strada di Fellini. È una storia di poveri artisti girovaghi, molto cupa, comunque la si guardi. Io non ne capii il senso e pensai: «Perché questo film è considerato un capolavoro? Non era meglio andare a vederne uno della Disney?»
Però, poi lo rividi dieci anni dopo, quando ero all’università, e mi scosse profondamente. Mi ricordavo vagamente il Tema di Gelsomina, ma quanto alla storia, era come se lo vedessi per la prima volta.
«Era questo, La strada?»
Mi si straziò il cuore, e piansi a calde lacrime nel buio della sala.
Dopo di che, anche io mi sono innamorata e ho sofferto per la fine di un amore. E ho continuato a cercare il mio posto nel mondo, tra le mille difficoltà che incontravo a trovare un lavoro. Sono trascorsi piú di dieci anni, senza, peraltro, che accadesse niente di particolare: dovevo essere sui trentacinque, all’incirca, quando vidi di nuovo La strada.
 «Eh? Ma questa scena c’era?»
C’erano molte scene che non avevo notato e dialoghi che non avevo sentito. Mi emozionò da morire l’interpretazione cosí convincente di Giulietta Masina nella parte della candida protagonista, Gelsomina. Zampanò che, ormai vecchio, di notte, piange sulla spiaggia con il corpo scosso dai singhiozzi, quando viene a sapere della morte della donna che aveva abbandonato, non era piú solo un uomo crudele. «L’essere umano è una triste creatura!» pensai, mentre sulle guance continuavano a scorrermi le lacrime.
Ogni volta che l’ho visto, La strada di Fellini è diventato una cosa diversa. Ogni volta che l’ho visto è diventato piú profondo.

Al mondo esistono due tipi di cose: quelle che capisci subito e le altre. Alle cose che capisci subito, basta che ci passi davanti una volta. Ma le cose che non ti sono subito chiare inizi a comprenderle dopo, piano piano, frequentandole, e diventano man mano una cosa diversa, come La strada di Fellini. E, ogni volta ti rendi conto che quello che vedevi non era che un piccolo frammento del tutto.
Il è cosí.
Quando avevo vent’anni pensavo che il tè non fosse che un rito. Mi dava la sgradevole sensazione d’imprigionarmi in uno stampo. E poi, potevo rifarlo migliaia di volte, ma non riuscivo a capire cosa stessi facendo. Mentre io faticavo a imprimermi nella memoria anche una sola cosa, l’abbinamento degli utensili e l’ordine di esecuzione cambiavano ogni giorno e ogni momento in accordo al clima e alle condizioni meteorologiche. Quando cambia la stagione, si deve riorganizzare tutta la stanza. Per anni e anni ho riprodotto questi cicli della sala del tè solo con il corpo, senza capire bene quello che facevo.
Ma un giorno, all’improvviso, la pioggia iniziò ad avere un odore molle e tiepido. «Oh, sta arrivando un acquazzone serale!» pensai.
Le gocce di pioggia mi parvero battere sulle piante in giardino con un suono diverso. Subito dopo, tutt’intorno si diffuse un forte sentore di terra.
Fino a quel momento, la pioggia non era che acqua dal cielo e non odorava. Non sentivo nemmeno l’odore della terra. Era come se osservassi il mondo esterno da dentro un barattolo di vetro. Si era aperto il coperchio del barattolo, e le stagioni avevano iniziato a sollecitare i miei cinque sensi con fragranze o suoni. Mi ero ricordata di essere una creatura stagionale, come una rana che sa riconoscere con l’olfatto la riva su cui è nata.
Ogni anno, agli inizi di aprile i ciliegi raggiungono la piena fioritura e, intorno alla metà di giugno, canonicamente, inizia a piovere. Sono cose scontate, ma io me ne sono accorta – e con grande sorpresa – quasi a trent’anni.
Fino ad allora le stagioni per me erano solo quella calda e quella fredda. In seguito, le distinzioni si sono fatte sempre piú minuziose: a primavera, il primo a fiorire è il cotogno giapponese, poi il susino cinese, il pesco e, alla fine, il ciliegio; quando i ciliegi, persi i fiori, diventano verdi di giovani foglie, i grappoli di glicine profumano l’aria e, alla fine della massima fioritura delle azalee, l’atmosfera si carica di umidità e iniziano a cadere le prime piogge dello tsuyu; i frutti del susino cinese si gonfiano, e sulle rive d’acqua spuntano gli iris, fioriscono le ortensie e si diffonde il dolce profumo delle gardenie; poi finiscono le ortensie, finisce anche lo tsuyu e iniziano a vedersi in giro le ciliegie e le pesche. Le stagioni si sovrappongono l’una all’altra, senza alcun intervallo.
Le quattro stagioni – primavera, estate, autunno e inverno – nel calendario tradizionale sono divise in ventiquattro frazioni. Ma per me, ogni settimana, ogni volta che andavo a lezione di tè, era una stagione diversa.
Quel giorno pioveva a dirotto. Ero completamente presa dal suono della pioggia, quando, all’improvviso, ebbi l’impressione che la stanza sparisse: mi trovavo nel bel mezzo dell’acquazzone. Mentre stavo lí ad ascoltare la pioggia, alla fine ero diventata io stessa pioggia e stavo cadendo sulle piante del giardino di casa della maestra.
«Era questo essere vivi?!»
Mi venne la pelle d’oca.
In tutto il tempo in cui ho praticato la cerimonia del tè, momenti del genere mi sono capitati periodicamente, come se maturassi gli interessi su un deposito vincolato. Non è che facessi qualcosa di particolare: ho trascorso normalmente i miei vent’anni, banalmente ho attraversato i miei trenta e ho vissuto i miei quaranta.
In tutto questo tempo, una goccia alla volta, l’acqua si accumulava nel bicchiere, senza che io stessa me ne accorgessi. Non si verificava nessun mutamento finché il bicchiere non era pieno. Quando, finalmente, il bicchiere si riempiva, in un dato momento di un dato giorno, cadeva la goccia che rompeva l’equilibrio dello specchio d’acqua, gonfio per la tensione superficiale. E in quell’istante, tutto d’un tratto, il liquido straripava dal bordo del bicchiere.
Ovviamente, anche senza imparare la cerimonia del tè, tutti sperimentiamo, nella nostra vita, questi stadi di presa di coscienza. Capita di sentir dire a un uomo appena diventato padre:
 «Mio padre me lo diceva che un giorno lo avrei capito anche io, ma solo ora che ho un figlio mi sono reso conto di cosa volesse dire».
C’è anche chi dice:
«Dopo essermi ammalato ho capito quanto siano importanti per me tutte le cose che ho intorno, anche le piú banali».
Con il trascorrere del tempo le persone aprono gli occhi e scoprono, di volta in volta, di essere cresciuti.
Il tè, però, sfronda il superfluo, facendoti percepire con chiarezza la maturazione di cui da solo non ti renderesti conto. All’inizio non capisci minimamente cosa stai facendo. Poi, da un certo giorno, all’improvviso la tua visuale si amplia, venendo a coincidere con la vita.
 Non comprendi subito ma, in compenso, l’acqua straripa da bicchieri piccoli, grandi o enormi facendoti assaporare piú e piú volte il fascino ineffabile dell’istante in cui il tuo mondo si espande.
Poco dopo aver compiuto i quarant’anni, a vent’anni dall’inizio della mia pratica della cerimonia, ho cominciato a parlare del tè agli amici. Loro facevano delle facce incredule:
«Eh?! E chi immaginava che il tè fosse una cosa di questo genere!»
E ancor piú mi stupivo io per la loro reazione. La maggior parte delle persone crede che la cerimonia del tè sia semplicemente un costoso divertimento elitario, senza avere la minima idea di cosa si provi nel praticarla. Mi ero dimenticata completamente che anche per me fosse cosí fino a un po’ di tempo fa.
Da allora, ho iniziato a pensare che avrei voluto provare, prima o poi, a scrivere del tè: di tutte le stagioni che ho sentito in questi venticinque anni nella stanza delle lezioni a casa della maestra, dell’istante in cui l’acqua straripa dal bicchiere.
La strada di Fellini che non avevo capito da piccola, ora mi fa piangere a dirotto. Anche senza fare nessuno sforzo per capire, mi sento straziare il cuore. Ci sono cose che puoi provarci quanto e come vuoi ma non le capisci finché non arriva il momento giusto. Però quando poi un giorno le capisci, dopo non puoi far finta di niente.
Quando ho iniziato a imparare la cerimonia del tè, per quanto mi sforzassi, non avevo assolutamente idea di cosa stessi facendo. Tuttavia, in questi venticinque anni mi si è chiarito per gradi, e ora intuisco perché lo faccio.
Quando vivi un periodo difficile, nei momenti bui, in cui perdi la fiducia in te stesso, il tè ti dà un insegnamento: «Vivi l’oggi in prospettiva».
Ogni giorno è un buon giorno. (1)

1. E' un motto Zen, attribuito al monaco cinese Yunmen Wenyan (862 o 864-949), Unmon Bun'en in giapponese, vissuto alla fine del periodo Tang (618-917).

Tratto da ‘Ogni giorno è un buon giorno’ di Morishita Noriko
ed. Einaudi



© Tora Kan Dōjō




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