“Non sopravvalutare le
tue forze interiori”, scrive Etty Hillesum in un passo del suo Diario (Adelphi,
2012). È la mattina del 10 marzo 1941. Il groviglio della sua anima, che non
smette di interrogare, è groviglio che, al cuore, ha questo “sentirsi
prescelta”, questo “dover diventare ‘qualcuno’” cui fa spesso ritorno.
L’educazione spirituale passa, per la giovane ebrea che morirà ad Auschwitz, attraverso
una profonda accettazione della propria “nullità”: io stessa, scrive, devo
scomparire interamente, devo abbandonare il mio piccolo ego. La propria vita
emotiva e intellettuale è messa in relazione con quella delle persone che, ai
suoi occhi, appaiono “normali”; sa bene, tuttavia, che non le è dato
comprendere nulla del mondo interiore di chi ha davanti. Del proprio, invece,
conosce la bizzarra irrequietezza. “Perché devi saper fare qualcosa?”
L’ambizione trattiene il suo dire, la vanità lo attorciglia.
Etty Hillesum non porta
soluzioni, le pagine del diario mostrano invece il continuo guardare alla
propria posizione: dove sono?, sembra chiedersi in ogni parola che scrive. C’è
un passo, in Vite che non sono la mia, in cui Carrère scrive: “la
malattia, il terrificante approssimarsi della morte, gli hanno insegnato chi
era. Sapere chi siamo – Étienne più che altro direbbe: dove siamo – significa
essere guariti dalla nevrosi”.
Un groviglio occupa, in
apparenza, poco spazio; dipanare la matassa significa cogliere l’immensa
stratificazione che lo costituisce.
L’attenzione per la
realtà pura, libera da pregiudizi e aspettative, e dunque il tempo della vita
come tempo presente, appartengono a questa stessa necessità di fare a meno di
pensieri che affaticano e confondono. Etty comprende che il continuo rimandare
a domani risponde ad una logica che muove verso un ideale: iniziare “adesso” il
proprio compito, muoversi “oggi”, non è dunque semplicemente un invito a godere
l’attimo che fugge, ma, più precisamente, un invito a liberarsi da una
prospettiva che ci voglia sempre in attesa dell’istante che ci troverà,
finalmente, degni.
Ecco perché “una vera
maturazione non può tenere conto del tempo”; quel tempo che vogliamo
disponibile, sembrano suggerire le pagine del Diario, quel tempo che è
necessario impiegare, far fruttare, investire, mostra – nel momento stesso in
cui ci troviamo a pensarlo in questo modo, transito per qualcosa di ulteriore –
la trappola che non smette di farci prigionieri. Concedersi al fluire del mondo
è stare nel suo ritmo come appartenenza al vivente, porsi in ascolto del suo
accadere. Legge Rilke, Etty, e chissà se aveva nella mente l’animale
dell’ottava elegia “puro come il suo sguardo sull’Aperto./ E dove noi vediam
futuro lui vede invece il tutto,/ e in quel tutto se stesso e salvo
sempre”.
Le giornate devono
iniziare rammendando calze, e sarà necessario, quando i buchi saranno finiti,
crearne di nuovi.
Le parole di Etty
mettono in luce quanto il senso di inadeguatezza e la presunzione, imponenti
blocchi di granito che la schiacciano, siano l’uno il rovescio e il
complementare dell’altra. Autocommiserazione e compiacimento. C’è la sua
grazia, il suo dono – la scrittura –, ma vi è pure quel non esserne sicura. Il
processo che pagina dopo pagina la Hillesum compie sotto ai nostri occhi, e che
dimostra che all’essere umano è dato di cambiare, non è, come inizialmente
scrive e crede, dal lato dell’ordine e della disciplina. Credere che sia la
tecnica a mancarle, ipotizzare che il talento di cui scrive non sia supportato
da una disponibilità al sacrificio, e che questo sia il limite da combattere,
significa restare dal lato di un più, di un ulteriore, di un aggiungere.
Ostinazione e avidità.
È necessario togliere,
invece. Eliminare il ciarpame sempre presente.
Il dono deve accadere e
la dolcezza appartiene a una logica del meno, di un vivere in perdita: nessuna
risposta, nessun controbattere, nessuna battaglia, nessun nemico e nessun
aggrapparsi. La forza deve farsi umile. Non si tratta di porgere l’altra
guancia, si tratta, più radicalmente, di quel “disorientamento doloroso e al
contempo interrogativo”, solo modo di porsi davanti all’odio così come davanti
all’ambizione e alla spinta al possesso. Crollare violentemente sulle
ginocchia, scrive Etty. E poi avere pace. “Sempre c’è mondo/ e mai quel
nessundove senza negazioni/ puro, non sorvegliato, che si respira/ si sa infinito
e non si brama”.
Vista del fiume Soła. Oświęcim, Polonia 2017 -
da 'Where water comes together with other water' (2015-18) © gianfranco gallucci |
Vi è in questo, io credo, un invito importante da accogliere, un invito che richiede quel lungo lavoro spirituale che Etty compie nelle pagine del proprio diario: si tratta di abbandonare l’ideale, in ogni sua forma. Una tra le due metà in lotta del proprio volto.
L’abbandono dell’ideale
porta a conseguenze che mettono in qualche modo di fronte a un radicale vuoto
di senso, ma è solo grazie a questa tabula rasa, questa epoché, che
diventa possibile accogliere qualcosa di più grande che poco tiene in conto la
vita del singolo individuo se non per raccoglierlo in una logica del tutto;
tutto che, nello stesso tempo, lo comprende e lo pervade: “volevo assoggettare
la natura, vale a dire il tutto; volevo contenerlo. E il bello invece è – ed è
davvero semplice – che adesso sono io a sentirmi assoggettata al tutto. Mi
aggiro di qua e di là, invasa da questa profonda sensazione, ma essa non mi
prosciuga più l’anima: al contrario: mi dà forza”.
Il vuoto di senso è
quello dell’intercambiabilità, della non onnipotenza: non più la strada
orientata e la guerra da combattere, non più il “cuore nervoso”, ma una radicale
accettazione dell’accadere. Abbandonare l’io significa prima di tutto
abbandonarne la presunzione. Il paesaggio interiore potrà allora consistere di
grandi, vaste pianure, quasi prive di orizzonte.
Cambiare la propria
posizione, guardare la parte che si ha nel disordine che si lamenta, è abitare
una prospettiva che metta al centro l’insufficienza: non desiderare tutto,
nemmeno se fosse possibile averlo. “’Che significa tutto questo, e la vita vale
davvero la pena di essere vissuta? Sarebbe invece necessario vivere con
pienezza, in modo che una simile domanda non abbia la benché minima possibilità
di sorgere nel proprio io, e si dovrebbe traboccare di vita e di pace al tempo
stesso”. “O tutto è casuale, o niente lo è. Se io credessi nella prima affermazione
non potrei vivere, ma non sono ancora convinta della seconda”. Sente la sua
mente offuscata, e tuttavia confrontarsi con il dolore dell’umanità – di nuovo
arresti, terrore, campi di concentramento, sequestri di padri e sorelle –
significa ospitarne ogni frammento.
Si tratta di una resa?
No.
Scrive Freud che
profondamente religioso non è l’uomo che ceda al sentimento della piccolezza e
dell’impotenza umana di fronte all’universo, ma l’uomo che sappia attraversarlo
per procedere oltre, per cercare aiuto contro tale sentimento. Chi si rassegna
alla parte insignificante è irreligioso nel più vero significato
della parola. Ma non è questo l’invito di Etty. L’inermità radicale non è che
punto di partenza, possibilità di appello all’Altro.
Chi abita la propria
insufficienza è chi può, come scrive Lou Andreas Salomé, specchiarsi nelle
acque del fiume non già per rimanere prigioniero della propria immagine, ma per
guardarsi riflesso al di sotto del pezzetto di cielo. Racconta Lou che la
perdita del proprio sentimento religioso aveva coinciso, in lei bambina, in
un’impressione, avvertita davanti alla propria immagine allo specchio, di
estrema espropriazione: improvvisamente si era ritrovata esclusa da quel cosmo
– Dio al suo centro – che fino a quel momento l’aveva accolta e contenuta. Un
adulto, continua, avrebbe piuttosto sentito disagio nel contrario, nella
perdita di delimitazione del proprio io. Questo ci insegna il narcisismo
teorizzato da Freud, suo maestro. E tuttavia vi è una possibilità ulteriore, una
possibilità di ripensare Narciso, di mostrare che vi è qualcosa di più in quel
mito, qualcosa che Freud non ha saputo vedere. Nella lettura della donna,
infatti, non è possibile guardare Narciso senza tenere a mente lo stato di
pienezza originario, l’esperienza fusionale con il materno. Lungi dall’essere
qualcosa che condanna a una nostalgia irreparabile, questa esperienza di unità
permette al soggetto – la donna soprattutto, attraversata da questa comunione
originaria in maniera più radicale – di provare uno stato di armonia con il
cosmo che resta come memoria di una meta da ritrovare attraverso l’espressione
artistica, l’estasi. Andreas-Salomé parla di un Tutto, di una completezza che
definisce narcisistica, ma tale narcisismo è precisamente una tensione che non
inchioda il soggetto a sé, ma lo rende per sempre appartenente a una realtà
vitale che lo supera e anticipa. Il giovane uomo non guarda la propria immagine
in uno specchio artificiale ma nelle acque della natura, e dunque non è solo sé
stesso quello che vede, ma sé stesso in quanto creato. Narciso è l’uomo che ha
fatto esperienza di una totalità. Stasi, malinconia e, soprattutto, abbandono
di padronanza. È una nuova possibilità, un narciso femminile, scrive Lou.
“Che cosa hai tu, che
tu non l’abbia ricevuto?”: sembra essere questo l’insegnamento di Etty in cui
riecheggiano le riflessioni della psicoanalista. Non c’è logica di scambio.
L’insufficienza, l’esistere come parte della Natura, si fa gratitudine e dunque
motore. Rendere grazie non è movimento di chiusura che ha, come esito, la
stasi, non è annullamento di un debito quanto piuttosto riconoscimento radicale
della grazia dell’Altro, della sua differenza, della nostra stessa differenza
in quanto sempre altro da noi. Gratitudine è rilancio, scommessa verso il
futuro. Si tratta di raccogliere un’eredità d’amore, conoscere la provvisorietà
della tenda e darsi all’esistenza come qualcosa che ci supera: è la comune
appartenenza a renderci fratelli. L’esistenza universale, esistenza ferita, è
occasione di legame. Non si dà posizione – dove sono? – se non in relazione
all’altro. Soltanto in questa prospettiva diventa possibile quel dare non
perché tu mi restituisca, ma perché tu dia ad altri.
È questo che ci insegna
il mito di Filemone e Bauci, raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi. I due
vecchietti, insieme sin dalla giovinezza, accolgono Giove e Mercurio nella loro
povera casa, li accolgono nelle loro sembianze umane, di sperduti viandanti. La
povertà in cui i due hanno vissuto rende loro possibile mettere in rapporto la
propria condizione alla condizione dello straniero. Dividono ogni cosa, offrono
il niente che hanno. Ed è l’ospitalità agli dei sotto mentite spoglie che
permette il compiersi del prodigio: la casa si fa tempio e loro ne diventano i
custodi. Zeus rivela così la sua identità. Un solo desiderio esprimono al
potente dio: non sopravvivere l’uno alla morte dell’altro. Così, la
metamorfosi: Filemone e Bauci diventano albero, pianta, mondo; fanno ritorno a
quel Tutto che li ricomprende.
Etty Hillesum |
Di Anna Stefi
Clicca qui per il link al testo originale
© Tora Kan Dōjō
Questa scrittrice entra profondamente nella coscienza della persona cui si rivolge e ancor più in se stessa, in quel sé superiore , cosmico, divino, alla ricerca del vero nell'assoluta armonia e nella pace dell'animo acquistato dal sapere che ogni cosa è il tutto cui si appartiene e sostanza. Lei si interroga e suscita interrogativi, e nel suo arrendersi , fluire, assecondare è la sua grandezza, la sua vittoria e la sua vita senza fine.
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