Vivere atto secondo. Ho sempre identificato
questa propensione “filosofica” anche nel lavoro e nell’impegno di certi uomini
straordinari come Nietzsche, Epicuro, Camus o Thoreau, tutti consapevoli che
non si può distinguere l’esperienza di un corpo dalla dimensione spirituale e
intellettuale. Di certo, se c’è stato per me un argine alla deriva della
fascinazione psicanalitica, che mi ha “salvato” dall’avvitarmi in certi deliri
ego referenziati, è stato un altro incontro e un altro viaggio. Quello nel pensiero
del Buddha. Freud l’avrebbe con gioia e con una certa morbosità steso sul suo
lettino. Nel mio caso, ho sempre preferito averlo sul sedile di fianco.
Vittorino Andreoli, in una recente intervista a «Sette», si chiede: «Ora che
facciamo l’analisi con Skype... se sparisce l’ascolto, cosa diventa l’altro?».
Ho sempre amato ascoltare. Soprattutto le storie che mi raccontavano di mondi
ed esperienze umane. Contadine. I ritmi della mietitura, le greggi su corridoi
immaginari e antichi scolpiti nelle vallate brulle della Magna Grecia e nelle
menti dei pastori. I racconti di mia nonna, mondina, nel dialetto del suo
paese, quel misto di suoni germanici e cantilene galliche, oscuri a un orecchio
non addestrato. L’antico. Gli echi che giungono da lontano. Le ore passate a
immaginare Alcibiade che solcava lo Ionio verso la Sicilia per fondare città e
seguire imprese eroiche e meravigliosamente velleitarie. Vite filosofiche
governate da una potenza magica e concreta. Vite erranti che sognavo a occhi
aperti. Andreoli, un uomo che ho sempre ammirato, sostiene che per lui la
psichiatria significa sofferenza, anzi, interpretazione della sofferenza di
esistere e che la relazione è la base di tutto. La mente non è un luogo ma una
funzione del cervello. E su questa funzione si può, si deve lavorare per uscire
dalla condizione del soffrire prodotta dal pensiero magico che ci aliena
proprio questa funzione. In Freud la parola ha un ruolo terapeutico
fondamentale. In essa risiede la potenza guaritrice e la minaccia della nevrosi
e dell’alienazione. Quindi non ci sono elementi per affermare che la follia sia
inscritta nel codice genetico, sostiene lo psichiatra. Ma entrano in gioco tre
fattori fondamentali: la parte del cervello che definiamo “plastica” perché si
struttura sulla base delle esperienze, la personalità, e poi l’ambiente. “La
follia non è fatale!” è il suo mantra. Non siamo destinati a soffrire per
sempre proprio perché non dobbiamo mai dimenticare che il piano sul quale
osserviamo i fenomeni della mente è quello dell’esistenza. E l’esistenza è in
continua mutazione. Impermanente. È proprio l’esperienza dei malati che ci
insegna che anche l’individuo più folle può sviluppare forme considerevoli di
creatività e che anche il più “normale” può commettere atti di follia. Il
confine è sottile. Dipende da quanto il pensiero magico riesce a irretirci in
un piano immaginario che ci allontana dalla magia della vita e della realtà. Magia
che non è negata neppure a una mente “folle”, che riesce, comunque, a creare.
La potenza dell’esistenza oltrepassa i confini della funzione della mente.
Un’energia ci muove, ci entra nel corpo, modella il cervello e va ben oltre la
mente stessa, anche quando questa dimentica i codici per interpretare la
natura. Gli indiani d’America, invece che confinare i “matti” in luoghi
dimenticati, li tenevano in grande considerazione. Consapevoli che nel loro
delirio potevano apparire forme di saggezza. Persino lampi di vita filosofica.
E dunque, alla fine, dire, come fa Andreoli, «io amo i matti» equivale ad
affermare che si amano i propri simili e la loro inestirpabile, incomparabile
singolarità. Nonostante i progressi delle neuroscienze, è sempre la necessità del
legame umano, sancito alla parola, a riaffiorare a ogni snodo del discorso.
Grazie a questo usciamo dal pensiero magico e guariamo. Ho sempre sentito,
istintivamente, che il rumore di fondo della vita, un certo disagio,
l’interrogarsi incessante e onnipresente dell’interiorità ha a che fare con
qualcosa di più vasto che non sta dentro al confine di una personalità, per
quanto contribuisca a definirla. Più che essere interessato alla dimensione
dell’io in quanto me, cioè del “mio” sé, ero affascinato alla relazione di
questo “me” con qualcosa di più grande, col mondo. Ho sempre pensato che lì
fosse il nodo da affrontare, la vera condizione che ci realizza e ci consente
di esprimere ciò che realmente siamo. Perciò la ricerca di una vita filosofica
è stata e continua, in un certo senso, a essere l’unico “analista” cui mi sia
mai rivolto. Questo approccio mi obbliga a relazionarmi con maggiore
consapevolezza alla condizione esistenziale che ci accomuna tutti: la
fragilità. Perciò mi interessano gli strumenti di cura individuati e messi in
pratica dal Buddha, per la loro efficacia e praticità, così come mi affascina
il lavoro di medici come Andreoli. Freud, che della psicanalisi è stato il
fondatore, aveva il culto della ragione come strumento principe per conseguire
il dominio sulle passioni irrazionali e sul potere dell’inconscio. Ma,
contemporaneamente, il suo approccio nei confronti dell’essere umano è
totalmente filosofico e “paradossalmente” spirituale: nella Introduzione allo
studio della psicanalisi illustra i risultati che alcune pratiche mistiche possono
produrre nel processo di trasformazione della personalità e più volte parla
della terapia psicanalitica come la liberazione dell’essere umano dai suoi
sintomi nevrotici, dalle inibizioni e anomalie caratteriali facendo riferimento
al terapista come a un maestro. Di cosa? Un maestro di vita. E definisce la
relazione tra paziente e analista come un rapporto che si basa sull’amore del
vero e del riconoscimento della realtà che impedisce ogni sorta di simulazione
e inganno. Non è un caso che anche Eric Fromm, un altro dei grandi padri della
psicanalisi, la definisca come un’espressione caratteristica della crisi
spirituale dell’uomo occidentale. Figlia del razionalismo e dell’umanesimo
occidentali e dell’indagine introspettiva del romanticismo, ha due “padrini
spirituali” in cui affonda le radici: la sapienza greca e l’etica ebraica,
entrambe interessate al tema del raggiungimento della perfezione e della
felicità.
Stefano Bettera
‘L’abbraccio del mondo’, Coltivare l'eleganza dello spirito per costruire la mente ecologica - ed. Oscar Mondadori© Tora Kan Dōjō
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