martedì 28 marzo 2023

Il Rumore della Vita

Vivere atto secondo. Ho sempre identificato questa propensione “filosofica” anche nel lavoro e nell’impegno di certi uomini straordinari come Nietzsche, Epicuro, Camus o Thoreau, tutti consapevoli che non si può distinguere l’esperienza di un corpo dalla dimensione spirituale e intellettuale. Di certo, se c’è stato per me un argine alla deriva della fascinazione psicanalitica, che mi ha “salvato” dall’avvitarmi in certi deliri ego referenziati, è stato un altro incontro e un altro viaggio. Quello nel pensiero del Buddha. Freud l’avrebbe con gioia e con una certa morbosità steso sul suo lettino. Nel mio caso, ho sempre preferito averlo sul sedile di fianco. Vittorino Andreoli, in una recente intervista a «Sette», si chiede: «Ora che facciamo l’analisi con Skype... se sparisce l’ascolto, cosa diventa l’altro?». Ho sempre amato ascoltare. Soprattutto le storie che mi raccontavano di mondi ed esperienze umane. Contadine. I ritmi della mietitura, le greggi su corridoi immaginari e antichi scolpiti nelle vallate brulle della Magna Grecia e nelle menti dei pastori. I racconti di mia nonna, mondina, nel dialetto del suo paese, quel misto di suoni germanici e cantilene galliche, oscuri a un orecchio non addestrato. L’antico. Gli echi che giungono da lontano. Le ore passate a immaginare Alcibiade che solcava lo Ionio verso la Sicilia per fondare città e seguire imprese eroiche e meravigliosamente velleitarie. Vite filosofiche governate da una potenza magica e concreta. Vite erranti che sognavo a occhi aperti. Andreoli, un uomo che ho sempre ammirato, sostiene che per lui la psichiatria significa sofferenza, anzi, interpretazione della sofferenza di esistere e che la relazione è la base di tutto. La mente non è un luogo ma una funzione del cervello. E su questa funzione si può, si deve lavorare per uscire dalla condizione del soffrire prodotta dal pensiero magico che ci aliena proprio questa funzione. In Freud la parola ha un ruolo terapeutico fondamentale. In essa risiede la potenza guaritrice e la minaccia della nevrosi e dell’alienazione. Quindi non ci sono elementi per affermare che la follia sia inscritta nel codice genetico, sostiene lo psichiatra. Ma entrano in gioco tre fattori fondamentali: la parte del cervello che definiamo “plastica” perché si struttura sulla base delle esperienze, la personalità, e poi l’ambiente. “La follia non è fatale!” è il suo mantra. Non siamo destinati a soffrire per sempre proprio perché non dobbiamo mai dimenticare che il piano sul quale osserviamo i fenomeni della mente è quello dell’esistenza. E l’esistenza è in continua mutazione. Impermanente. È proprio l’esperienza dei malati che ci insegna che anche l’individuo più folle può sviluppare forme considerevoli di creatività e che anche il più “normale” può commettere atti di follia. Il confine è sottile. Dipende da quanto il pensiero magico riesce a irretirci in un piano immaginario che ci allontana dalla magia della vita e della realtà. Magia che non è negata neppure a una mente “folle”, che riesce, comunque, a creare. La potenza dell’esistenza oltrepassa i confini della funzione della mente. Un’energia ci muove, ci entra nel corpo, modella il cervello e va ben oltre la mente stessa, anche quando questa dimentica i codici per interpretare la natura. Gli indiani d’America, invece che confinare i “matti” in luoghi dimenticati, li tenevano in grande considerazione. Consapevoli che nel loro delirio potevano apparire forme di saggezza. Persino lampi di vita filosofica. E dunque, alla fine, dire, come fa Andreoli, «io amo i matti» equivale ad affermare che si amano i propri simili e la loro inestirpabile, incomparabile singolarità. Nonostante i progressi delle neuroscienze, è sempre la necessità del legame umano, sancito alla parola, a riaffiorare a ogni snodo del discorso. Grazie a questo usciamo dal pensiero magico e guariamo. Ho sempre sentito, istintivamente, che il rumore di fondo della vita, un certo disagio, l’interrogarsi incessante e onnipresente dell’interiorità ha a che fare con qualcosa di più vasto che non sta dentro al confine di una personalità, per quanto contribuisca a definirla. Più che essere interessato alla dimensione dell’io in quanto me, cioè del “mio” sé, ero affascinato alla relazione di questo “me” con qualcosa di più grande, col mondo. Ho sempre pensato che lì fosse il nodo da affrontare, la vera condizione che ci realizza e ci consente di esprimere ciò che realmente siamo. Perciò la ricerca di una vita filosofica è stata e continua, in un certo senso, a essere l’unico “analista” cui mi sia mai rivolto. Questo approccio mi obbliga a relazionarmi con maggiore consapevolezza alla condizione esistenziale che ci accomuna tutti: la fragilità. Perciò mi interessano gli strumenti di cura individuati e messi in pratica dal Buddha, per la loro efficacia e praticità, così come mi affascina il lavoro di medici come Andreoli. Freud, che della psicanalisi è stato il fondatore, aveva il culto della ragione come strumento principe per conseguire il dominio sulle passioni irrazionali e sul potere dell’inconscio. Ma, contemporaneamente, il suo approccio nei confronti dell’essere umano è totalmente filosofico e “paradossalmente” spirituale: nella Introduzione allo studio della psicanalisi illustra i risultati che alcune pratiche mistiche possono produrre nel processo di trasformazione della personalità e più volte parla della terapia psicanalitica come la liberazione dell’essere umano dai suoi sintomi nevrotici, dalle inibizioni e anomalie caratteriali facendo riferimento al terapista come a un maestro. Di cosa? Un maestro di vita. E definisce la relazione tra paziente e analista come un rapporto che si basa sull’amore del vero e del riconoscimento della realtà che impedisce ogni sorta di simulazione e inganno. Non è un caso che anche Eric Fromm, un altro dei grandi padri della psicanalisi, la definisca come un’espressione caratteristica della crisi spirituale dell’uomo occidentale. Figlia del razionalismo e dell’umanesimo occidentali e dell’indagine introspettiva del romanticismo, ha due “padrini spirituali” in cui affonda le radici: la sapienza greca e l’etica ebraica, entrambe interessate al tema del raggiungimento della perfezione e della felicità.

 

Stefano Bettera

‘L’abbraccio del mondo’Coltivare l'eleganza dello spirito per costruire la mente ecologica - ed. Oscar Mondadori
















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