lunedì 25 aprile 2022

Essere un Monaco

 Federico Dainin Jōkō Sensei 


Nella nostra tradizione, contrariamente a ciò che siamo diventati come istituzione, il Teishō con il Maestro non è mai stato un incontro accademico o formale. 

Il Teishō è un momento in cui il Maestro esprime qualcosa sulla Pratica e sulla nostra Via spirituale liberamente, o a partire dal commento di un testo o di una situazione, ma non è mai qualcosa che discende dal Maestro verso gli altri, è sempre qualcosa di molto orizzontale. Non è una lezione, io non ho nulla da insegnare che voi non sappiate già, ma il ruolo del Maestro è quello di ricordare certe cose che sono essenziali. 

Vi ricordate di cosa abbiamo discusso l'ultima volta? 

La necessità di dover entrare nel fuoco del Samsara, questa necessità intrinseca e assoluta della quale non si può fare a meno; entrare nel fuoco del Samsara. Abbiamo parlato di prendere parte nel partecipare a questo mondo, non soltanto con le idee e le azioni ma anche con il nostro corpo attraverso ogni minima cellula. Partecipare a questo mondo in quanto monaci  non significa dover partecipare in una certa maniera piuttosto che un'altra. Perché vi sottolineo questa leggera sfumatura? Perché mi rendo conto, in venticinque anni di Pratica e quindici di Insegnamento, che lo Zen che sta per essere trasmesso in Occidente è uno Zen che spesso da' dei ruoli, anche ai monaci ed alle monache, ruoli che sono proprio come in teatro; c'è un modo di comportarsi, un modo di vestirsi, un modo di parlare... questi ruoli e questi modi che  'tagliano' la persona in due. In Occidente stiamo trasformando la Trasmissione dello Zen in una trasmissione schizofrenica. Quando siamo al Dōjō, in Sesshin, in monastero, quando siamo ai convegni o alle riunioni Buddhiste dello Zen ci comportiamo in una certa maniera e poi quando siamo tra di noi, al lavoro o in famiglia, ci comportiamo in un'altra. Non tutti ma la maggior parte dei praticanti dello Zen si comporta così, ed è una cosa pericolosa perché questa schizofrenia religiosa ci separa dall'autenticità, ci impedisce di essere autentici. 

Chi più di me è attaccatissimo alla forma? Ma la forma, la Pratica formale, il rito, l'abito, la liturgia, ma anche la regola, i precetti stessi, non definiscono il monaco o la monaca. Non solo non lo definiscono ma non devono neanche rappresentarlo. Dobbiamo esistere, essere monaci/monache al di fuori della forma. In maniera più ampia, dobbiamo essere praticanti dello Zen al di fuori di ogni forma, ancora più ampiamente senza parlare di monaci o di monache, l'essere umano che pratica una Via spirituale deve praticare al di fuori della forma. La forma deve essere un momento in cui la pratica spirituale si cristallizza in una celebrazione visibile e tangibile di qualcosa che è invisibile e intangibile. Questo è il ruolo della forma, ma al di fuori di questi momenti di celebrazione il praticante spirituale non dovrebbe neanche essere riconosciuto come buddhista, sufi, musulmano, cristiano ecc... quando studiamo i testi sacri delle grandi Vie spirituali dell'umanità, tutti, senza nessuna eccezione (Torah, Bhagavadgītā, Bibbia, Vangelo, Corano, Sunna, Sūtra), ci rendiamo conto che c'è un messaggio che li attraversa, e questo messaggio è lo stesso per tutti; che sia attraverso i Profeti della Bibbia e della Torah, che sia attraverso racconti epici e mitologici della Bhagavadgītā, attraverso le Parabole del Vangelo o le Parabole dei Sūtra o le Āyāt del Corano, ci rendiamo conto che l'intuizione della saggezza religiosa e spirituale ha un denominatore comune: la rivelazione di Dio, la rivelazione del Risveglio, appaiono sempre al di fuori della forma. Nella Bibbia ad esempio, Dio avrebbe potuto esprimersi nel tempio di Gerusalemme ma non si è mai espresso nel tempio di Gerusalemme. Lui si è espresso ed è andato incontro agli uomini su una montagna, intorno ad un lago, sulle rive del mare, in una grotta. Oppure i Buddha di ogni tempo sarebbero apparsi sotto l'Albero della Bodhi ma non sono mai apparsi sotto l'Albero della Bodhi, sono apparsi lungo il cammino, in una mela che cade sulla testa o in un ago di pino che cade in una ciotola d'acqua o forse in una pietra dove forse un monaco un giorno è inciampato; ecco dove sono nati i Buddha. Alla luce di questa riflessione la pratica formale diventa ancora più importante: non sto dicendo che bisogna ripudiare la pratica formale, la pratica formale ha un'importanza incredibile, un'importanza alla quale pochi praticanti pensano. 

La pratica formale, perché noi la pratichiamo sempre nella stessa maniera ed in maniera regolare? Serve a ricordare che è proprio al di fuori della pratica formale che nascono i Buddha; noi la celebriamo per ricordarci che è proprio 'non lì' che appaiono i Buddha, la pratichiamo per andare al di là, come un passaggio. Forse è questa l'Altra Riva che è cantata nel Sūtra del Cuore: Gate, Gate Paragate, Parasamgate Bodhi Svaha. Questa 'altra riva' non è una terra in un altro mondo, non è un paradiso Buddhico, ma la longitudine e la latitudine impensabile di cui noi siamo capaci quando andiamo al di là delle cose, compreso al di là delle cose sacre. E questo andare al di là delle cose sacre significa capire che tutto è sacro. Significa capire che questa pratica formale che noi viviamo, la liturgia, il rito, il gesto, l'abito, il Kesa, il Rakusu, i precetti stessi, ci servono come trampolino assoluto per andare al di là, per capire che in questo mondo noi possiamo fare di ogni cosa un precetto, di ogni situazione una liturgia, di ogni fenomeno una celebrazione. Per questo celebriamo con tanta attenzione ogni minuto gesto nel Dōjō durante le cerimonie, per questo cerchiamo questa fusione totale con il rito, ma questa fusione totale con il rito durante ogni rito non serve a rendere questo rito perfetto, il nostro rito non sarà mai perfetto, serve ad allenarci a fare entrare nella nostra testa dura il fatto che tutto in questa vita, per il monaco, per la monaca, per il praticante dello Zen o praticante spirituale, è celebrazione, è liturgia, soltanto se noi accettiamo di andare al di là; quindi il rito diventa un passaggio, diventa il bozzolo nel quale noi invitiamo 'tutte le esistenze', questa frase è molto cara a Dōgen. Il rito è questo bozzolo dentro al quale noi invitiamo tutte le esistenze e tutti i fenomeni a diventare celebrazione. Trasformiamo così la nostra vita in una liturgia... 

Qualcuno conosce il significato etimologico della parola 'liturgia'? 

T.K. Sensei : "Un'Offerta al popolo; qualcosa che si offre al popolo." 

Esatto. V'immaginate la potenza di questa parola? Se noi traduciamo  la parola 'liturgia' nella nostra Pratica, noi diventiamo il pretesto sacro e nello stesso tempo totalmente e profondamente ordinario attraverso il quale tutto ciò di cui siamo capaci diventa un'offerta. Non c'è più l'altare, i calici di legno rosso laccato, i monaci che danzano durante questa offerta religiosa, ma durante questa offerta religiosa noi impariamo che dopo questo calice ci sarà un bicchiere di vino, un bicchiere d'acqua o di coca cola che potrà essere condiviso con la stessa intensità. Ci sarà un momento in cui la nostra camicia o la nostra maglietta con Snoopy possono essere portate con la stessa solennità del nostro Kesa. Soltanto in questa attitudine profonda noi diventiamo monaci nel senso profondo della parola, e non solo noi che siamo ordinati ma tutti coloro che praticano, uomini, donne, grandi, buddhisti oppure no. Ed è su questo senso profondo di questa parola che volevo soffermarmi questa mattina: la parola 'monaco'. 

Io sono convinto che ogni praticante dello Zazen è un monaco o una monaca, e che coloro che hanno manifestato il desiderio di celebrarlo in una cerimonia più formale e solenne non sono in nulla superiori a coloro che non portano il Kesa o il Rakusu. Ogni persona che si siede in Zazen diventa istantaneamente un monaco o monaca. Ogni essere vivente che si siede in Zazen è come una fogliolina di tè caduta in una ciotola di acqua calda, diventa subito tè... 

Il senso profondo della parola 'monaco' è assolutamente universale e secolare, non ha niente a che vedere con un'ordinazione religiosa. La parola 'monaco' che viene dalla radice 'monos' può essere tradotta letteralmente in due maniere complementari ma molto diverse: la prima traduzione è 'solitario', (solo, unico, uno, mono). In questa traduzione c'è tutto l'aspetto dell'anacoreta, del contemplativo, di colui che vive nell'ascesi personale per il suo bene e per il bene del mondo; traduzione molto mistica ma un po' restrittiva. Ma sapete che quando si traduce 'monaco' dal greco in latino si passa in una categoria di verbi transitivi, e dunque possiamo tradurre con 'unificato', ma siccome si passa in una categoria di verbi transitivi ciò che è 'unificato' è automaticamente 'unificatore'. Questo è il senso della parola 'monaco' nello Zen: colei/colui che è unificato, che lavora alla sua unificazione e che diventa unificatore.

Unificato cosa significa? Significa colui che ha raggiunto o che ha fatto il voto di raggiungere questo stato in cui non c'è  più separazione fra lui ed il resto di tutte le cose che esistono. Non c'è più separazione non significa che non c'è più diversità. Questa è un'altra incomprensione della nostra pratica; spesso quando si dice: non c'è separazione, non c'è divisione, non c'è distanza, noi immaginiamo che diventiamo o che dovremmo diventare il sole, oppure la porta o qualche altra esperienza che si presenta davanti a noi. Vi rendete benissimo conto che non siete la persona che sta di fronte a voi, né la tazza di tè, né il computer, né il gatto... non siete niente di tutto questo, eppure tutto questo è voi. Le stelle, la montagna, il cielo, il sole, la luna, le nuvole, il vento, il ruscello, l’oceano, l’essere che soffre, l’essere gioioso, il bambino abbandonato o il bambino felice, una donna che piange, un uomo che soffre, due innamorati che camminano a dieci centimetri al di sopra del suolo, un mendicante e un criminale, un anacoreta nella sua montagna o un businessman, un fiore o un gatto, tutto ciò è voi ma voi non siete questo. Questo è il senso di 'non c’è separazione'. Questo è il senso del lavoro del praticante dello Zen, del cuore del monaco. Questa disposizione, questa comprensione, questo desiderio di vivere senza separazione, ma senza separazione non significa tutto confuso o tutto mischiato, non significa senza diversità. 

In francese ci sono certe parole che si scrivono con un trattino, questo trattino si chiama 'Trait d’union', il tratto che unisce, in italiano non ce l’abbiamo, ma è come se la nostra vita diventasse un linguaggio nel quale noi siamo il Trait D’union, il trattino, questo trattino che unisce sempre le cose. Quindi questa nozione, questo concetto di 'Non c’è separazione', 'tutto è unificato', non significa non c’è diversità, significa che noi diventiamo l’opportunità, la possibilità di rilegare tutte le cose, come si fanno i nodi nei fili di un tappeto, noi rileghiamo tutte le cose insieme perché si tengano, perché non ci sia niente in questo mondo che sia abbandonato, perché non ci sia nulla in questo mondo che sia lasciato da solo, neanche l’anacoreta che vuole vivere solo, che non ci sia niente in questo mondo che sia lasciato indietro o dimenticato. Questo è il ruolo profondo del monaco/monaca Zen, e più estesamente di ogni praticante dello Zen, diventare unificato, vivere unificato. Unificato non significa confondersi con il resto delle cose, con il resto della gente, con il resto dei fenomeni, non credete a questa assurdità. Io sono io e sono prezioso in questa unicità che è la mia. Ogni cosa nel mondo è questa cosa precisa ed è preziosa per questa Unicità. Cinquemila margherite in un prato sono tutte profondamente diverse. Quindi unificato non significa confondersi. Ancora queste stupidaggini di distruggere l’ego, di distruggere la nostra originalità... non ha nulla a che vedere con questo. Unificato significa rilegato, annodato, come nei fili di un tappeto. Unificato significa colui che tiene le cose tra di loro, come una mamma ed un papà che tengono la mano dei loro bimbi per proteggerli ed accompagnarli, per non lasciarli soli, per farli sentire più forti, per farli sentire amati, e voi se siete papà e se siete mamme, sapete che la mano si tiene in differenti maniere. Tenere la mano dei nostri bimbi non significa semplicemente fisicamente dare la mano. Si tiene la mano quando si osserva a distanza il nostro bimbo fare la prima volta la bicicletta senza le rotelle... è il nostro sguardo sta tenendo la mano. 

Il praticante dello Zen è dunque un unificatore, è un trattino d’unione, un Trait d’Union. E voi capite già cosa c’è in fondo di questa riflessione sulla nostra pratica, è che questa unificazione è universale. E’ per questo che il monaco non esiste solo con il Kolomo o con il Kesa ma deve esistere in una maniera molto più vasta, molto più ordinaria, molto più diffusa, universale, perché il voto più alto, che è il nostro voto, non è neanche scritto perché deve essere incarnato, non è neanche detto nei precetti perché non può essere riassunto in una parola. Il nostro voto più alto è quello di unificare tutte le cose. Se ci pensate bene, in realtà questo voto non è nient’altro che la natura di Zazen, perché quando siamo in Zazen stiamo unificando tutte le cose. Nella nostra postura immobile, attenta, presente, noi diventiamo questo Trait D’union, questa mano che fa i nodi che tengono tutti i fili della tappezzeria di un tappeto, questa mano immobile che lega. Non so se  avete già visto qualcuno lavorare su di un telaio per fare tappeti e tappezzerie. Questi telai in cui si dispongono i fili di tutti i colori, secondo un disegno pre immaginato, attraverso il quale si passa la navetta per rilegare i fili, per incrociarli, per farli danzare, fino alla fine per legarli. Se avete già osservato qualcuno lavorare su un un telaio vi siete resi conto di una cosa abbastanza miracolosa e che il tessitore, legando, libera. Legando non imprigiona, legando libera, perché il blu se è passato con la navetta in un certo modo sarà pienamente blu, anche nella massa del rosso, del giallo, saranno pienamente rosso e giallo. Questo rilegatore, questo unificatore, nella sua missione ha una doppia azione che è quella di rilegare le cose senza imprigionarle, rilegarle liberandole, e questa è proprio la missione fondamentale dello Zen, ed è il senso fondamentale di non essere separato da niente in questo mondo, cioè non essere separato dall’unicità di ogni cosa. Non confondere, non fare una zuppa in cui non si vede più cosa c’è dentro ma fare piuttosto un bel minestrone dove si vede la carota, la zucchina, la patata, i ditalini. Tutto è unito ma niente di ciò che è unito ha perso la sua unicità. Ed è per questo che vorrei ordinare monaci tutti gli esseri viventi. Sette miliardi di monaci, sette miliardi di persone che si ricordano ogni volta che mettono questo Kesa sulla loro testa al mattino, che questi scampoli di tessuto cuciti tra di loro sono sacri e santi e diventano reliquia vivente se mi spingono a cucire tra di loro gli scampoli del mondo. Questi scampoli cuciti insieme diventano sacri se non sono mai più sacri del vestito sporco e puzzolente di un mendicante o del vestito e cravatta del collega in ufficio. Ogni giorno quando indossiamo questo Kesa, quando noi rivestiamo il manto della liberazione, stiamo rivestendo il desiderio di rilegare tutte le cose. 

Se avete visto il funzo-e che metto nelle grandi cerimonie con le montagne, gli aironi ed i disegni geometrici che ho cucito con la mia mamma adottiva, sono stoffe che forse nessuno metterebbe insieme. Hanno disegni e colori che non sono stati pensati per stare insieme, eppure le bande del Kesa li rilegano e fanno apparire l'armonia. In questo momento in cui portiamo il Kesa il mondo è unificato. Ed è necessario portarlo tantissimo questo Kesa rituale... metterlo, toglierlo, metterlo, toglierlo. Sapete quanto è importante piegarlo nella buona maniera, passarlo sulla testa, ripiegarlo, ripiegarlo sulla spalla, farlo scivolare tra le mani, piegarlo in due, prenderlo fra le due mani, piegarlo in tre, metterlo nella sua pochette, chiudere la pochette, metterlo sull'altare, inchinarsi e cominciare la giornata. E qualche ora dopo tornare davanti all'altare, inchinarsi, togliere il Kesa dalla pochette, metterlo sulla spalla del cuore, farlo cadere giù, aprirlo, passarlo sotto il braccio, legarlo, piegare l'angolo sulla spalla, aggiustarlo e sedersi... e dopo questa seduta riprenderlo, passarlo sulla testa, piegarlo una seconda volta, poi una terza volta, metterlo sulla spalla, farlo scivolare tra le braccia, piegarlo in due, prenderlo fra le mani, piegarlo il tre, aggiustare il cordoncino, metterlo nella pochette, chiudere la pochette, posarlo sull'altare e inchinarsi. E domani mattina di nuovo... ecc ecc 

Ma perché questo Kesa non lo appendiamo semplicemente ad un appendino visto che lo indossiamo due o tre volte al giorno? Perché stiamo qua a prenderlo e ripegarlo in due, tre, quattro, sopra, sotto, a destra, a sinistra? Perché il miracolo del Kesa non comincia quando portiamo il Kesa. Il miracolo del Kesa comincia quando ci avviciniamo al nostro altare, ci inchiniamo e prendiamo la pochette. Se noi capiamo questa cosa, allora ogni volta che noi usciamo per andare verso il mondo assomiglierà a questo momento  in cui ci avviciniamo all'altare e prendiamo la pochette del Kesa. 

Un giorno ho dato tre camicie ad un mendicante. Ridendo con lui mi disse "mi piacerebbe avere delle camicie per essere figo...".

Gli dissi va bene e gli portai le tre camicie, ed era talmente contento di avere tre camicie pulite e profumate che le ha abbottonate storte... e mi sono scoperto spontaneamente a rimettergli i bottoni nel modo giusto ridendo un po' e dicendo "ma guarda, l'hai abbottonata storta...". E quest'uomo che avrà avuto una sessantina d'anni, burbero e anche un po' aggressivo, in quell'istante in cui gli abbottonavo quei due o tre bottoni è diventato come un bimbo, ed io ho avuto l'impressione che stavo legando un Kesa. In quell'attimo non c'è stata nessuna differenza tra questi tre bottoni di una camicia ed i laccetti del mio Kesa. 

Adesso ho una domanda che mi strazia il cuore; un Koan per voi al quale vi chiedo di rispondere ma senza giudicare. 

Come mai tanti monaci Zen, tanti praticanti mettono e tolgono il loro Kesa da dieci, venti, trenta, quarant'anni, eppure sono incapaci di riabbottonare i bottoni storti di un barbone per strada? Come mai il miracolo del Kesa non funziona automaticamente? 

T.K. Sensei : "Sensei, forse perché hanno confuso il Kesa con un abito distintivo e non come una porta verso la libertà, di non indossare più nessun abito." 

A.L. : "Sento spesso parlare di ego e credo che questi maestri passano una vita a parlare di ego ma di quello degli altri, e questo discorso che ci ha fatto stamattina, del 'trattino che unisce', forse per tutta la vita di questi monaci non c'è neanche un momento per pensare che anche loro dovrebbero essere questo 'trattino che unisce'. Sicuramente a me manca, ma nello stesso tempo guardo con giudizio chi non riesce a chinarsi sul mendicante, per me è molto difficile. Mi viene di pensare che dovrebbe essere un po' più facile per i monaci, ma forse non è così." 

C.T. : "A mio modestissimo parere, il Kesa vuol dire tutto e non vuol dire niente. Tanta gente non ha il Kesa e riesce ad abbottonare molto meglio i bottoncini rispetto a chi ce l'ha. E' una cosa che è veramente dentro di noi, noi la veneriamo, noi la impacchettiamo, la pieghiamo, la cuciamo, ma alla fine, anche senza il Kesa, noi dovremmo avere questa capacità di abbottonare i bottoncini giusti."

Una bellissima porta si è aperta fra queste parole... 

E.S. : "Mi è venuta in mente un'esperienza che ho fatto anni fa con i ragazzi migranti con i quali abbiamo dato vita ad una piccola sartoria. C'erano persone che non sapevano cucire, altre che già lo facevano nel loro paese; ricordo che eravamo in tredici/quattordici persone dentro una stanza e si cuciva tutti insieme, non importava cosa, e c'era un silenzio religioso... è lo stesso silenzio che c'è durante una Sesshin di cucitura del Kesa. In quei momenti mi sono fermata a guardarli perché ognuno era intento nel fare il proprio pezzettino, e chi sapeva fare una cosa la insegnava all'altro. Persone di paesi completamente diversi, uno Musulmano, l'altro Cristiano, qualcuno parlava francese, qulcuno in inglese, ma si capivano lo stesso. Una volta mi venne spontaneo disporci in cerchio seduti e dissi: "Facciamo una preghiera in silenzio ognuno al proprio Dio". E così ogni mattina, se me ne dimenticavo, mi chiamavano: "e oggi non facciamo la preghiera?". In quegli anni in cui ho lavorato con loro mi si è riempito il cuore in una maniera pazzesca. L'intensità di quei momenti non la so descrivere, è incredibile. Quel momento di cucitura che era tanto sacro, tanto quanto noi che cuciamo il Kesa in una Sesshin."

E.K. Sensei : "Più che pensare tanto al Kesa o alla camicia, è forse meglio pensare più ai laccetti ed ai bottoni. Essere più bottone, essere più laccetto." 

D.P. : "Il mio pensiero sulla parola 'monaco', su l'attenzione del Kesa, alla difficoltà nell'allacciare un bottone ad un barbone... Secondo me, per l'essere umano la vera difficoltà è la paura. Questa è una cosa che ho spesso riscontrato. Al di fuori dello Zazen mi ha aiutato molto il Karate, perché vuoi o non vuoi certe difficoltà le devi affrontare. Onestamente non sono il tipo di persona che ha la forza di poter andare ad allacciare la camicia ad un barbone, magari posso aiutarlo, posso fare attenzione ad uno sguardo, ma facendo un esame su me stesso mi rendo conto che può semplicemente mancare la forza per paura. Ce l'abbiamo tutti e ce l'avremo sempre anche una volta superata." 

Il segreto è che se un giorno cucirete un Kesa, o se allaccerete un bottone di un mendicante, vi

renderete conto che voi siete il Kesa e siete il bottone. E se cuciamo un Kesa nella  nostra Pratica dello Zen è per non dimenticare mai questa cosa qui: il Kesa siamo noi. 

Il bottone da riallacciare siamo noi. Il laccetto, come ha detto E., siamo noi. Se ci mettiamo tanta attenzione nel piegare e ripiegare, mettere a posto, riprende e venerare, è semplicemente per ricordarci che noi allacciamo i laccetti e nel migliore dei casi abbottoniamo i bottoni anche per coloro che non allacciano e che non abbottonano; questa è la vera unificazione. Noi possiamo in ogni istante della nostra Pratica diventare il Kesa di coloro che hanno dimenticato il Kesa. 

In termini più laici, possiamo diventare il gesto che allaccia anche al posto di coloro che hanno paura o non hanno la forza, coma ha detto D., di allacciare. O forse semplicemente, si sono talmente allontanati dal loro volto originale che non sanno più che è importantissimo allacciare. In ogni gesto, preciso, cosciente, presente della nostra vita noi possiamo diventare il gesto che rilega, il gesto religioso, anche al posto di coloro che dividono. E più vediamo divisione, discordia e guerra in questo mondo, più allacciamo laccetti, più vediamo che c'è discriminazione in questo mondo e più cuciamo dei Kesa. Ed ecco che il praticante, ufficialmente monaco o no, diventa il 'trattino che unisce'. 

Come diceva Enrico Sensei, diventa laccetto e bottone. Se veneriamo dei Kesa e li cuciamo su di noi è per non dimenticare mai che per tutta la nostra vita non facciamo altro che essere di fronte all'opportunità miracolosa e misteriosa di poter cucire il Kesa del mondo. Lo cuciamo per noi e addirittura per quelli che lo scuciono. E visto che ci sarà sempre qualcuno che scuce, divide e separa, che abbandona, è importantissimo che ci sia qualcuno che abbottona ed allaccia. Questa cosa qui dovrebbe essere la nostra ossessione quotidiana. 

Vorrei cuciste tutti un Kesa e che celebriate tutti la vostra Ordinazione monastica per cristallizzare nella vostra vita il voto di diventare tessitori del mondo. Questo è il monaco Zen, il praticante dello Zen; se non c'è questa dimensione allora la nostra Pratica è teatro, cinema, ipocrisia. 

Quando non hai più il Kesa sulle spalle, il Kesa sei tu. 

E visto che sei colui che non separa, sei nello stesso tempo Kesa, sarto, stoffa e filo. Prendersi cura del mondo; il praticante è il sarto del mondo. 

D.K. Sensei: "Vorrei ricollegarmi a questo atto magico di cui parla. E' magico perché un Kesa fondamentalmente lo cuciamo per gli altri, lo facciamo bello per gli altri come quando si pratica la calligrafia; non è fondamentale la bellezza dell'ideogramma, ma è proprio il gesto che deve essere bello, come un'offerta, una liturgia. Il Kesa non è di lino, di seta... finché confondiamo il  Kesa con un tessuto, non c'è Kesa. Avere la fortuna di ricevere la corretta Trasmissione del Kesa allora ci permette di abbottonare bene i bottoni del mondo, di cucire le cicatrici del mondo e di valorizzare queste bellissime venatura, come l'oro del kintsugi, nel valorizzare quelli che sono i segni del tempo dell'Impermanenza e di farli vivere nella realtà di quello che è, non la loro forma estetica ma nella forma del cuore, la loro forma unificata. Ieri per caso ho letto un breve passaggio del capitolo 'DEN-E' (La Corretta Trasmissione del Kesa) dello Shōbōgenzō, scritto con molta collera da Dōgen! Critica profondamente le tradizioni che non trasmettono correttamente la cucitura, l'arte del divenire Kesa, dell'indossare il Kesa correttamente. Questo, secondo me, è meraviglioso perché c'è il fuoco della passione, è il fuoco dell'amore, e dove c'è amore c'è anche collera, sennò che cos'è!?! E c'è scritto che tutti dovrebbero indossare un Kesa: laici, malviventi ecc... è commovente." 

Grazie mille a ciascuno di voi per questo incontro, per il vostro tempo offerto generosamente.  

Vi lascio con una piccola storia che ogni tanto racconto, per darvi un'immagine bella che spero vi resti incisa nel cuore, su cos'è il Kesa e cos'è il monaco, il praticante dello Zen ordinato o non ordinato; non c'è nessuna differenza, (la differenza è solo formale). 

Il racconto di due monaci: Il maestro ed il discepolo stanno percorrendo un sentiero di montagna un po' tortuoso per arrivare ad un eremo e fare le Offerte di Gotan-e (la nascita del Buddha). Il discepolo, che sta accompagnando il suo maestro, sistematicamente toglie tutte le pietre, i pezzi di legno e tutti gli ostacoli che trova in  mezzo al sentiero. Il maestro l'osserva... è molto ammirato perché il discepolo in più porta sulle spalle una cassa di legno pesante con dentro gli oggetti che serviranno per la Cerimonia. Si fermano a mangiare un pezzo di pane e a bere del té, ed il maestro dice al suo discepolo: "Sono commosso dalla tua generosità. Non ho detto nulla fino ad ora ma ho osservato che durante tutto il cammino hai tolto pietre, pezzi di legno, ostacoli. Sono commosso per questo gesto che fai per coloro che verranno dopo di noi perché trovino un sentiero pulito, praticabile." E in quel momento il discepolo dice: "Maestro, ma io queste pietre, questi sassi, questi ostacoli non li ho tolti per quelli che verranno dopo di noi... li ho tolti per coloro che sono passati prima e non l'hanno fatto per noi."...e in questo momento il Maestro ha pianto.  

Questo è il senso della nostra Pratica, praticare per noi e per coloro che non praticano, risvegliarsi per noi e per coloro che dormono, allacciare i bottoni per noi e per coloro che non li allacciano o che li slacciano lasciando la gente nuda nel freddo... Possiamo tutti insieme camminare sul sentiero della nostra esistenza, togliere tutti gli ostacoli per noi che camminiamo, per quelli che verranno dopo, ma soprattutto per coloro che sono passati prima. Il Kesa che voi cucite è cucito anche per coloro che non hanno mai cucito.


Federico Dainin Jōkō Sensei

(Trascrizione a cura di Monica Tainin)

© Tora Kan Dōjō

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