Livia Chandra Candiani |
C’è un sutra, un
discorso, del Buddha che si intitola 'Il discorso della freccia'.
In esso, il Buddha spiega come chi non ha ricevuto gli insegnamenti spirituali sperimenta, esattamente come chi li ha ricevuti, sensazioni piacevoli, spiacevoli, e né piacevoli né spiacevoli. Ma qualcosa li distingue profondamente. Il non praticante è come se fosse colpito da una freccia e subito dopo fosse colpito da una seconda freccia, cosi da percepire il dolore di due frecce. Questa seconda freccia è la sensazione mentale di avversione nei confronti delle sensazioni dolorose e di attaccamento nei confronti di quelle piacevoli. E questa aggiunta al nudo, puro sentire che crea la sofferenza non necessaria di cui la Via buddhista ci insegna a liberarci. E come? Tornando a un sentire spoglio, senza aggiungere, senza togliere, lasciandoci attraversare dall’impatto con il mondo. L’aggiunta che noi facciamo al male è la vergogna, la paura, il senso di fallimento, l’avversione ostinata alla sofferenza. Ma noi sappiamo, organicamente, fisicamente, provare la sofferenza? Sappiamo ancora sentirla? Per questo parlo non solo di non aggiungere ma anche di non togliere niente al sentire.
In esso, il Buddha spiega come chi non ha ricevuto gli insegnamenti spirituali sperimenta, esattamente come chi li ha ricevuti, sensazioni piacevoli, spiacevoli, e né piacevoli né spiacevoli. Ma qualcosa li distingue profondamente. Il non praticante è come se fosse colpito da una freccia e subito dopo fosse colpito da una seconda freccia, cosi da percepire il dolore di due frecce. Questa seconda freccia è la sensazione mentale di avversione nei confronti delle sensazioni dolorose e di attaccamento nei confronti di quelle piacevoli. E questa aggiunta al nudo, puro sentire che crea la sofferenza non necessaria di cui la Via buddhista ci insegna a liberarci. E come? Tornando a un sentire spoglio, senza aggiungere, senza togliere, lasciandoci attraversare dall’impatto con il mondo. L’aggiunta che noi facciamo al male è la vergogna, la paura, il senso di fallimento, l’avversione ostinata alla sofferenza. Ma noi sappiamo, organicamente, fisicamente, provare la sofferenza? Sappiamo ancora sentirla? Per questo parlo non solo di non aggiungere ma anche di non togliere niente al sentire.
Quante volte ho
visto usare la meditazione per non sentire, per creare una personalità spirituale
che ci ripari dal mondo, dai conflitti, dai desideri, dalla rabbia, dalla
paura, dal piacere. Quante volte si parla di osservare le sensazioni, le
emozioni, i pensieri perché si sta cercando in realtà di creare una scissione,
un non sentire, un tenere a distanza la vita stessa. Mentre si tratta di
entrare in tale intimità con il sentire stesso, con il flusso vitale, da non
lasciare spazio alcuno nemmeno all’io, a quel costante sentirsi colpiti in
prima persona, «Perché a me, proprio a me? che è l’autoriferimento sempre in
agguato. Si tratta di interrompere l’autonarrazione, la seconda freccia, che
descrive, aggiunge commenti, cronache in diretta o in differita, personaggi,
personalità, film e storie. E stare invece con la nudità del sentire, lasciarsi
fare e disfare dal sentire che non ci è nemico, è tutt’uno con l’essere al
mondo, con il ricevere l’impatto sensoriale con il mondo. Certo, si tratta di
una pratica graduale, e occorre creare inizialmente un nido, un luogo in cui
tornare, il respiro, il corpo, le sensazioni, la coscienza ben radicata
nell’organismo, un luogo a cui poter fare costante ritorno. Come gli uccelli
che iniziano a volare, non si allontanano ma troppo dal nido, da principio.
Poi, scoprono che ci sono tanti appoggi, piccoli nidi provvisori, stazioni di
sosta: rami, tetti, muri, sporgenze. Allora si va, più liberamente, più sicuri,
perché il ritorno è sempre più frequente e a portata di mano, perché si impara
a tornare a sé sempre e ovunque, perché non c’è più un’unica postura per farlo,
ma piuttosto un atteggiamento di diffusa fiducia nel percorso.
Allora anche la
paura diventa sentibile, vivibile, sostenibile. A dosi omeopatiche inizialmente
e poi sempre più cosi come viene. C’è un no nella paura, non vogliamo viverla.
Ricordo notti intere in cui la mia paura si trasformava in terrore e
pietrificazione perché mi rifiutavo di sentirla, non ero pronta. In realtà, una
sensazione non può durare che al massimo due o tre minuti, poi cambia. E la
paura arriva a ondate, ha pause, intervalli, a capo. Quello che la può rendere
apparentemente continua sono le nostre aggiunte, i commenti, le critiche,
l’autonarrazione.
La paura è
sempre nel tempo. E nel passato, la paura di qualcosa che è già avvenuto e
temiamo ritorni o si ripeta. O nel futuro come anticipazione di qualcosa. O nel
presente come ansia che non ci permette di sentire quel che sta realmente
accadendo. La consapevolezza non appartiene al tempo, vive nel fluire,
trascorre, tutt’uno con la vita stessa. Come il respiro. Come l’andatura dei
passi, un piede si solleva, l’altro sta appoggiato a terra, c’è una costante
danza di pieno e di vuoto, di lasciare e di contattare. La consapevolezza non
osserva il fiume, è il fiume.
Nel male,
accolto, sentito, c’è la risposta al male, c’è il bene. Non basta leggerlo o
sentirlo dire, bisogna provarlo, proprio ora, proprio qui, in pieno corpo. Ogni
sensazione, ogni emozione, ogni pensiero è per sua stessa natura pura
consapevolezza. Niente interrompe la consapevolezza, è come credere che le onde
interrompano l’oceano. Le onde sono il movimento dell’acqua, la sua energia.
Cosi, sensazioni, pensieri, emozioni sono le onde, l’energia che attraversa la
nostra coscienza che fondamentalmente è pace.
La paura
diffusa, sfondo costante della nostra epoca, di fine del futuro è tutt’uno con
il concetto irresponsabile di crescita e di progresso che ha ridotto la natura
a un fondo eternamente attingibile. Non è cosi, sappiamo che c’è una fine alle
risorse, ora lo sappiamo. Saper stare nel flusso, sapere che se c’è alba c’è
tramonto, se c’è nascita c’è morte, e che se c’è tramonto c’è alba e se c’è
morte c’è nascita, insegna a tornare alla fonte anziché orientarsi sempre a una
meta. Andare con la corrente, sentire e assecondare, non opporre inutili
resistenze. Non ha niente a che fare con la passività, è anzi un totale balzo
nel fiume della vita. Non siamo soli, siamo tutto, e per scoprirlo occorre
attraversare un profondissimo, assoluto senso di solitudine. La paura della
solitudine è un altro degli osta coli al percorso verso se stessi, un percorso
indispensabile.
Quello che la
poesia e la meditazione come tutte le Vie fanno è di scollarci dai luoghi
comuni, dal calduccio degli stereotipi condivisi. La meditazione non va
utilizzata per pacificare tutto, ma per sentire gli strappi, le lacerazioni, le
paure di un’epoca e di un individuo che ne fa parte, e trasformarle in punto di
partenza per una nuova fiducia e un senso di responsabilità che è capacità di
rispondere alle sfide che ogni tempo propone a noi esseri umani sapendo che
siamo fatti per farcela.
E il concetto di farcela che va riscritto in noi, non più la conquista, la sfida, la crescita all’infinito, ma il sintonizzarsi, l’ascolto umile e attento degli insegnamenti che bussano nei fili d’erba e negli astri, nelle zanzare e negli elefanti, nelle creature che stanno scomparendo e in tutto quello che resta, nella responsabilità di stare svegli e sensibili in questo immenso non-sapere.
E il concetto di farcela che va riscritto in noi, non più la conquista, la sfida, la crescita all’infinito, ma il sintonizzarsi, l’ascolto umile e attento degli insegnamenti che bussano nei fili d’erba e negli astri, nelle zanzare e negli elefanti, nelle creature che stanno scomparendo e in tutto quello che resta, nella responsabilità di stare svegli e sensibili in questo immenso non-sapere.
Di Livia Chandra
Candiani
Tratto da ‘Il silenzio è cosa viva’
Tratto da ‘Il silenzio è cosa viva’
Ed. Einaudi
© Tora Kan Dōjō
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