Il
fallimento è non provare non il non riuscire.
Io ho scalato quasi duemila cime, ma sono più le cime che non ho raggiunto, per il maltempo, per le mie incapacità… ma non mi sento affatto un fallito. Mi sento uno che ci ha provato.
Io ho scalato quasi duemila cime, ma sono più le cime che non ho raggiunto, per il maltempo, per le mie incapacità… ma non mi sento affatto un fallito. Mi sento uno che ci ha provato.
Il
fallimento non esiste, esistono tentativi che a volte vanno a buon fine a volte
no.
Il
fallimento sarebbe invece il non provare a fare nulla per paura di fallire.
Nella vita di tutti giorni, il nostro io ci
sembra del tutto reale e solido. Pur non essendo tangibile come un oggetto
materiale, lo percepiamo attraverso la vulnerabilità cui ci espone
costantemente: un semplice sorriso lo gratifica, un aggrottarsi di sopracciglia
basta per addolorarlo. È sempre presente, pronto per essere ferito o premiato.
Riluttanti a percepirlo come multiplo e inafferrabile, ne facciamo un bastione
unico, centrale e permanente. Ma esaminiamo nei dettagli su cosa si basa la
nostra identità. Il nostro corpo? Un insieme di carne e ossa. La nostra
coscienza? Una successione di pensieri fugaci. La nostra storia? Ricordi di
qualcosa che non esiste più. Il nostro nome? Gli attribuiamo ogni sorta di
concetti relativi alle nostre origini, alla nostra reputazione e al nostro
status sociale, ma dopo tutto non è altro che una serie di lettere. Se vediamo
scritto il nostro nome, per esempio GIOVANNI, la mente ha un sussulto, pensa:
Ma sono io! È però sufficiente separare le lettere, G-I-O-V-A-N-N-I, e non ci
sentiamo più coinvolti. L’idea che ci facciamo del «nostro» nome non è che una
costruzione mentale, e l’attaccamento alla nostra discendenza e alla nostra
reputazione non fa che limitare la nostra libertà interiore. Il sentimento
profondo di un io che è il centro del nostro essere: è questo che bisogna
analizzare con onestà. Quando esploriamo il corpo, la parola e la mente, ci
rendiamo conto che l’io non è che una definizione, un’etichetta, una
convenzione, un segno. Il problema è che questa etichetta viene considerata
assolutamente reale. Per smascherare le menzogne dell’io, è necessaria
un’indagine inflessibile. Dobbiamo fare come chi, sospettando la presenza di un
ladro nella propria abitazione, ispeziona ogni stanza, ogni accesso e ogni
possibile nascondiglio, finché non è sicuro che non c’è davvero nessuno, e solo
allora può sentirsi tranquillo. Nel nostro caso, si tratta di una ricerca
introspettiva che si propone di scoprire ciò che si nasconde dietro la chimera
di quell’io che definirebbe noi stessi. Un’analisi rigorosa ci porterà a
concludere che l’io non risiede in nessuna parte del nostro corpo. Non lo si
può trovare nella testa, nel cuore o nel petto. E non è nemmeno diffuso ovunque
come una sostanza che ci pervade. Siamo soliti pensare che sia associato alla
coscienza. Ma anche la coscienza è un fluire continuo: il passato è morto, il
futuro non c’è ancora e il presente è inafferrabile. Com’è possibile che l’io
possa esistere, sospeso come un fiore nel cielo, tra qualcosa che non esiste
più e qualcosa che non esiste ancora? Non può dunque essere individuato né nel
corpo né nella coscienza, che per il buddismo equivale alla mente. Inoltre, in
quanto entità distinta, non lo si trova né all’interno di una combinazione di
corpo e mente, né al di fuori di loro. Nessuna analisi seria, nessun
esperimento contemplativo diretto permette di giustificare il sentimento di
possesso dell’io. L’io non può essere trovato nel contesto a cui è associato.
Possiamo pensare di essere alti, giovani e intelligenti, ma l’altezza, la
giovinezza o l’intelligenza non sono l’io. Per il buddismo è soltanto
un’etichetta con cui designare un continuum, un po’ come il nome di un fiume,
Gange o Mississippi. Il continuum esiste, certo, ma in modo puramente
convenzionale e fittizio. È totalmente privo di esistenza intrinseca, o reale.
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