domenica 3 marzo 2019

Le menzogne dell’io




Il fallimento è non provare non il non riuscire.
Io ho scalato quasi duemila cime, ma sono più le cime che non ho raggiunto, per il maltempo, per le mie incapacità… ma non mi sento affatto un fallito. Mi sento uno che ci ha provato.
Il fallimento non esiste, esistono tentativi che a volte vanno a buon fine a volte no.
Il fallimento sarebbe invece il non provare a fare nulla per paura di fallire.

  Le menzogne dell’io

 Nella vita di tutti giorni, il nostro io ci sembra del tutto reale e solido. Pur non essendo tangibile come un oggetto materiale, lo percepiamo attraverso la vulnerabilità cui ci espone costantemente: un semplice sorriso lo gratifica, un aggrottarsi di sopracciglia basta per addolorarlo. È sempre presente, pronto per essere ferito o premiato. Riluttanti a percepirlo come multiplo e inafferrabile, ne facciamo un bastione unico, centrale e permanente. Ma esaminiamo nei dettagli su cosa si basa la nostra identità. Il nostro corpo? Un insieme di carne e ossa. La nostra coscienza? Una successione di pensieri fugaci. La nostra storia? Ricordi di qualcosa che non esiste più. Il nostro nome? Gli attribuiamo ogni sorta di concetti relativi alle nostre origini, alla nostra reputazione e al nostro status sociale, ma dopo tutto non è altro che una serie di lettere. Se vediamo scritto il nostro nome, per esempio GIOVANNI, la mente ha un sussulto, pensa: Ma sono io! È però sufficiente separare le lettere, G-I-O-V-A-N-N-I, e non ci sentiamo più coinvolti. L’idea che ci facciamo del «nostro» nome non è che una costruzione mentale, e l’attaccamento alla nostra discendenza e alla nostra reputazione non fa che limitare la nostra libertà interiore. Il sentimento profondo di un io che è il centro del nostro essere: è questo che bisogna analizzare con onestà. Quando esploriamo il corpo, la parola e la mente, ci rendiamo conto che l’io non è che una definizione, un’etichetta, una convenzione, un segno. Il problema è che questa etichetta viene considerata assolutamente reale. Per smascherare le menzogne dell’io, è necessaria un’indagine inflessibile. Dobbiamo fare come chi, sospettando la presenza di un ladro nella propria abitazione, ispeziona ogni stanza, ogni accesso e ogni possibile nascondiglio, finché non è sicuro che non c’è davvero nessuno, e solo allora può sentirsi tranquillo. Nel nostro caso, si tratta di una ricerca introspettiva che si propone di scoprire ciò che si nasconde dietro la chimera di quell’io che definirebbe noi stessi. Un’analisi rigorosa ci porterà a concludere che l’io non risiede in nessuna parte del nostro corpo. Non lo si può trovare nella testa, nel cuore o nel petto. E non è nemmeno diffuso ovunque come una sostanza che ci pervade. Siamo soliti pensare che sia associato alla coscienza. Ma anche la coscienza è un fluire continuo: il passato è morto, il futuro non c’è ancora e il presente è inafferrabile. Com’è possibile che l’io possa esistere, sospeso come un fiore nel cielo, tra qualcosa che non esiste più e qualcosa che non esiste ancora? Non può dunque essere individuato né nel corpo né nella coscienza, che per il buddismo equivale alla mente. Inoltre, in quanto entità distinta, non lo si trova né all’interno di una combinazione di corpo e mente, né al di fuori di loro. Nessuna analisi seria, nessun esperimento contemplativo diretto permette di giustificare il sentimento di possesso dell’io. L’io non può essere trovato nel contesto a cui è associato. Possiamo pensare di essere alti, giovani e intelligenti, ma l’altezza, la giovinezza o l’intelligenza non sono l’io. Per il buddismo è soltanto un’etichetta con cui designare un continuum, un po’ come il nome di un fiume, Gange o Mississippi. Il continuum esiste, certo, ma in modo puramente convenzionale e fittizio. È totalmente privo di esistenza intrinseca, o reale.
 Il concetto di «persona», include l’immagine che abbiamo di noi stessi. L’idea della nostra identità, del nostro status sociale, è radicata nella nostra mente e influenza costantemente il nostro rapporto con gli altri. Quando una discussione si fa accesa, non è tanto l’oggetto del dibattito che ci infastidisce, quanto la messa in discussione della nostra identità. È sufficiente che qualche parola mal interpretata minacci l’immagine che abbiamo di noi stessi, perché la situazione ci appaia insopportabile, anche se le stesse parole, rivolte a qualcun altro in circostanze differenti, non ci darebbero così fastidio. Chiunque abbia una forte immagine di se stesso cercherà di assicurarsi che sia riconosciuta e accettata da tutti. Non c’è niente di più angosciante che vederla contestata. Ma qual è il valore di questa identità? È importante ricordare che il termine «personalità» deriva da persona, che in latino significa «maschera». La maschera attraverso (per) la quale l’attore fa riecheggiare (sonat) il proprio ruolo. 15 A differenza dell’attore, che sa di portare una maschera, noi ci dimentichiamo spesso di distinguere tra il ruolo che svolgiamo nella società e la nostra natura più profonda. Talvolta capita di fare incontri particolari in paesi lontani, e in condizioni più o meno difficili, come nel corso di un trekking o di una traversata in mare. In quei momenti, la sola cosa che conta è condividere l’avventura con i compagni di viaggio, con le loro qualità e i loro difetti, che manifestano nel corso delle peripezie che viviamo insieme. Poco importa chi siano, quale mestiere esercitino, quanti soldi posseggano o quanto siano importanti a livello sociale. Ma quando, finita l’avventura, gli stessi compagni si ritrovano, la spontaneità di quei momenti è svanita perché ognuno ha recuperato la propria maschera, il proprio ruolo sociale di padre di famiglia, di imbianchino o di dirigente d’impresa. L’incanto è spezzato. La profusione di etichette falsa i rapporti umani, e invece di vivere il più sinceramente possibile ci fa ostentare il comportamento più utile a preservare la nostra immagine. Di solito siamo spaventati all’idea di affrontare il mondo senza alcun riferimento, e quando dobbiamo abbandonare maschere e titoli siamo presi dalla vertigine dell’ignoto: se non sono più musicista, scrittore, impiegato, colto, bello o forte, chi sono? Eppure l’assenza di etichette è la migliore garanzia di libertà, il modo più agile, leggero e gioioso di attraversare il mondo. Non essere più vittime delle menzogne dell’ego non c’impedisce affatto di alimentare una forte determinazione per ottenere gli obiettivi che ci siamo prefissati e di godere in ogni istante la ricchezza delle nostre relazioni con il mondo intero. Anzi, accade proprio l’esatto contrario.

Tratto da  ‘il gusto di essere felici’ di Ricard Mathieu


© Tora Kan Dōjō





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