Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento offerto da Taigō Sensei durante la Pratica Zen al Tora Kan Dojo.
Tornate al vostro respiro, alla postura, e attraverso
questo tornare abbandonate quella mente che tenta di afferrare. “Aprite la mano
del pensiero”, esortava Uchiyama Roshi.
Abbandoniamo quella modalità con cui di solito usiamo il pensiero, o meglio,
quella modalità che ci porta ad essere usati dal pensiero. Non si tratta di non
pensare, si tratta di pensare dal fondo profondo del non pensiero, ‘Hishiryo’.
La mente è come un oceano, se noi ci immergiamo nelle profondità della mente, come
quando ci immergiamo nelle profondità dell’oceano, guardando in alto possiamo
vedere come in superficie sia un continuo movimento di onde piccole e grandi,
vortici, correnti … ma nella profondità tutto si acquieta.
Eppure è la stessa mente.
Quando siamo in superficie siamo coinvolti, a volte travolti dalle onde e dalle
tempeste, dalle correnti che agitano la nostra mente, ma se noi attraverso il
respiro, la postura, il nostro Zazen, riusciamo ad installarci nelle profondità
di questo fondo di non pensiero, possiamo osservare serenamente tutte le
tempeste che agitano il nostro pensiero.
Spesso accade che quando sediamo è come se la nostra mente si ribellasse al
nostro tentativo di non volerci fermare alla superficie, al voler andare in
profondità … allora lo stare solo semplicemente seduti, ‘Shikantaza’, appare
noioso, poco attraente, ma questo pensiero sorge nel momento in cui è avvenuta
una disconnessione, non siamo più connessi con la nostra postura, con lo Zazen;
solo allora possiamo trovarlo poco interessante, noioso. Finché siamo unificati
pienamente nell’azione del sedere non ci sarà spazio né tempo per annoiarsi e questo
accade in ogni momento della nostra esistenza quotidiana.
Se noi troviamo noioso il lavare una scodella è perché in quel momento siamo
disconnessi da quello che stiamo facendo e vivendo, dal lavare la scodella, da
quello che percepiamo.
La nostra mente è già fuggita altrove, nel passato o nel futuro e allora
subentra la noia, subentrano tanti aspetti che non ci permettono di vivere
pienamente quell’esperienza. Eppure quel gesto è sempre nuovo, le sensazioni
sono sempre diverse. Lavare una scodella può essere ogni giorno una nuova
avventura, un’esplorazione nel percepire i nostri gesti in relazione a quell’oggetto,
le sensazioni che ci ritornano.
I gesti che compiamo quotidianamente possono essere sempre più raffinati ed
efficaci.
La nostra vita quotidiana diviene il nostro ‘laboratorio spirituale’.
Che differenza c’è tra il far girare una scodella tra le mani nel lavarla ed il
compiere un passo di danza? Perché dobbiamo pensare che un gesto sia più nobile
di un altro, o che compiere un passo di danza ci rimandi ad una consapevolezza
ed una presa di coscienza più profondi o diversi dal tenere in mano una
scodella e delicatamente prenderci cura di questa nel lavarla? Non è
assolutamente così; diffiderei di un ballerino che non danza mentre lava una
ciotola. Avrei seri dubbi sulla sua comprensione di cosa sia davvero la danza.
Quando c’è implicazione, trasporto, presenza, c’è anche bellezza. Senza ombra
di dubbio. Quando ricerchiamo la bellezza dobbiamo necessariamente muoverci
nella direzione dell’equilibrio, dell’armonia, dell’efficacia.
Ecco perché il ricercare la bellezza e l’armonia nel Dōjō, e quindi nella vita
quotidiana, è indissolubilmente legato alla qualità del nostro pensiero e della
nostra consapevolezza, della nostra capacità di unificare il corpo e la mente
nell’azione. Implica sia un aspetto interiore che un aspetto esteriore che in
qualche modo devono fondersi nella nostra azione. Anche quando sediamo in
Zazen, c’è un aspetto interiore in cui i contorni si sfumano fino a confondersi
… esteriorità ed interiorità si condizionano vicendevolmente.
Ecco perché il mio maestro diceva “l’abito fa il monaco”. Quell’abito, che è
innanzi tutto un abito mentale, ti costringe a rivedere tutto il tuo modo di
pensare, muoverti, interagire con lo spazio e le cose, ti costringe ad un’altra
qualità di presenza. Quindi non è un accessorio che possiamo indossare e
dismettere a piacimento.
Sediamo in Zazen prendendoci cura di quella che apparentemente può sembrare
un’immagine esteriore: la postura ben diritta, ma il nostro tendere verso
quell’immagine ideale, quello sforzo interiore che non si vede dall’esterno, è
quello che fa il nostro Zazen.
Ecco perché Dōgen Zenji dopo aver descritto scrupolosamente la postura di
Zazen, facendo un lungo elenco che comprende anche le caratteristiche del luogo
dove ci sediamo, addirittura la temperatura della stanza, alla fine dice: ma
attenti perchè lo Zazen non è solo sedere. Dobbiamo essere in grado di essere
in Zazen anche mentre laviamo una scodella.. È molto importante comprendere
questo perché lo Zazen non diventi una tecnica che sarebbe una completa
deviazione da quello che è lo Zazen del Buddha.
Questo ‘Installarsi’nel pensiero Hishiryo, accedere alla dimensione più
profonda della mente permette di osservare in profondità.
Pensate ad esempio quando vi alzate al mattino e magari resistete all’idea di
sedervi in Zazen e quando poi invece vi sedete su quel cuscino riuscite a
realizzare quanto la vostra mente sia agitata, stia rincorrendo passato e
futuro … ma il fatto che voi seduti in Zazen vedete questo chiaramente è già la
realizzazione, è già trasformativo. Quei pensieri che si rincorrono non sono
più gli stessi pensieri, la loro qualità si è già trasformata. Quando si dice
che Zazen è Hishiryo non significa che il pensiero scompare, ma che cambia il
modo in cui noi siamo consapevoli del nostro pensiero, lo osserviamo e non ne siamo
più condizionati.
Allora, vi capiterà anche quando state in fila all’ufficio postale, che in un
momento torniate alla vostra postura e al respiro, e vedrete la vostra mente
riflessa come in uno specchio … e probabilmente un sorriso apparirà sul vostro
viso, perché avrete capito che voi non siete quella mente e non può più
ingannarvi, intrappolarvi nelle sue illusioni.
Potrete accogliere allora il pensiero, qualunque pensiero, come si accoglie un
soffio di vento che attraversa la nostra stanza che magari in quel momento fa
volare i nostri fogli, ma noi sappiamo che basterà chinarci a raccoglierli.
Trascrizione a cura di Monica Tainin
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