giovedì 14 marzo 2024

SI VIVE SOLO GRATIS

Mushotoku: calligrafia di Taisen Deshimaru Roshi

“Se non pensiamo che al solo risultato, che al frutto, con la nostra coscienza personale, non possiamo concentrarci né lasciar manifestare pienamente la nostra energia.Se si produce solamente lo sforzo, allora, 
il più grande frutto apparirà inconsciamente, naturalmente."


Con queste parole Deshimaru Roshi, Patriarca dello Zen Europeo, esprimeva il principio Mushotoku : ‘senza scopo né spirito di profitto’.

Mushotoku è concetto abusato e spesso mal interpretato che si manifesta quanto mai attuale e ‘terapeutico’ per la nostra cultura.

Se non fareste anche gratis, con lo stesso entusiasmo e serietà il lavoro che fate, allora state perdendo la vostra vita.
Questo impegno entusiasta, privo di calcolo, è quel che determina la ‘purezza’ dell’azione.
'Il guerriero ha diritto all'azione ma non ai suoi frutti' recita il Baghavat Gita

Un’entusiasta impegno gratuito che sempre più raramente riesco a riconoscere nell’opera degli uomini che incontro.
Più facile è incontrare tanti piccoli, insoddisfatti, schiavi che svendono la propria vita al miglior offerente per un tozzo di pane, aspettando la paga di fine mese e il week-end liberatorio.
E non mi riferisco al genere di lavoro che svolgono ma allo spirito con cui lo 'subiscono'.

In questi giorni si fa un gran parlare di un personaggio dello spettacolo che avrebbe venduto il proprio corpo per trarre vantaggi economici di vario genere e tutti son lì a puntare il dito e gridare allo scandalo.
Ma quella su cui puntano il dito non è che l’espressione esponenziale, spettacolarizzata, del modo in cui la maggior parte della gente alle nostre latitudini conduce la propria vita.
Siamo sicuri che anche noi non ci stiamo in qualche modo vendendo per il nostro vantaggio spesso ben più misero di quello di tal personaggio ?
Siamo sicuri che sia più scandaloso mettere in vendita il proprio corpo in quella forma che non il proprio tempo, i propri ideali e comunque il proprio corpo-mente nelle molte altre forme di commercio possibili, legittimate dall'uso comune, ma non meno miserabili ?

Vedo tanta gente che, solo se retribuita, è capace di esprimere uno sforzo, è capace di sottoporsi ad un minimo di disciplina (per non parlare di quelli che nemmeno se retribuiti riescono a farlo).
In Giappone riesco ancora a incontrare quell’entusiasmo, quell’impegno ingenuo e puro nel far le cose, nel prendersi cura del proprio incarico, fosse anche quello di lucidare il vetro di una scala mobile, come se sulla trasparenza di quel vetro si reggesse tutta l’azienda.
La cura per il proprio lavoro dell’ultimo commesso di un supermercato giapponese mi ha sempre fatto pensare che la sua attenzione per il suo incarico non fosse minore di quella che doveva avere il direttore per il proprio.

Nel Dojo questo diventa estremamente evidente.

Molte delle azioni nel Dojo a partire dallo stesso allenamento o esercizio richiedono uno sforzo gratuito e sono pochi, molto pochi, quelli che comprendono quanto possa nutrire la loro vita quest'azione gratuita, i più sono pronti a metterla immediatamente in secondo piano non appena si presenta l’occasione di un'attività ‘più esplicitamente remunerativa’, ‘apparentemente più economica’.

A mio parere uno sforzo, una disciplina, nutriti dalla motivazione del guadagno sono ‘atti impuri’ che non solo non possono dare buon frutto ma che in qualche modo contaminano la vita di chi li produce creando cattivo Karma.

Io ho, da molti anni, una postazione di osservazione privilegiata: lo Zazen.
Sedere in silenzio e raccoglimento, limitandosi solo ad essere (forse la santa povertà di cui parlava Frate Francesco): c’è qualcosa di più gratuito e apparentemente più anti economico ?
Lo Zazen è gratuità radicale, l’offrirsi totalmente così come siamo, senza riserve, di fronte al momento che ci è dato vivere.
Una pratica e una realizzazione che trovano immediato riverbero nell’azione quotidiana.

Per certi versi, anche se in modo apparentemente meno radicale, è gratuita anche l’azione del praticare il Karate-Do.
Sì, certo, si può obiettare che c’è chi lo pratica per applicarlo alla ‘difesa personale’, chi per ‘scaricare lo stress’…  d’altronde anche lo Zazen viene oggi venduto come metodo antistress, ma nessuno di questi continuerà a lungo la propria pratica né raccoglierà alcun significativo e duraturo frutto da essa se non sarà in grado di scoprire la gratuità dell’esercizio.

Anche lo stesso sport nasceva come azione gratuita (desporter, il termine francese da cui deriva sport, significa divertimento, svago..) per ritrovarsi oggi schiavo della medaglia, del risultato, del primato.
Così, su questa deriva, i bambini sono definiti nelle federazioni sportive pre-agonisti come se la pienezza e ricchezza della loro età fosse solo un momento di preparazione alla prestazione futura, che per molti non arriverà mai perché frustrati nelle loro legittime necessità e aspettative, abbandoneranno prima.

La stessa, pericolosa, impostazione mi sembra di constatarla nella scuola.
Non è nemmeno immaginata la possibilità di poter insegnare ai bambini che si possa fare qualcosa solo per amore senza vederne un immediato profitto.
Un insegnante che osasse tanto sarebbe considerato politicamente scorretto e violentemente avversato dai genitori che invece vogliono che il loro figliolo impari ad usare ogni mezzo per primeggiare sugli altri nella fallimentare speranza che possa vendicarli per la vita grigia da schiavi che stanno conducendo.  
Anche nella scuola è privilegiato il primato, il primato del bambino che vince la gara di matematica tra scuole è menato a vanto piuttosto che una classe intera che cresce armoniosamente.
Non vedo una scuola dove ai bambini più ‘dotati’ venga fatto capire che a volte è necessario rallentare il passo per procedere assieme ai loro compagni ‘più lenti’ per non isolarsi e perché godere di un panorama condiviso è ben più appagante e gioioso che trovarsi da soli sulla cima di una montagna.

Quale società stiamo costruendo insegnando questo ai nostri bambini?
Il bambino, archetipo della gratuità, verrà ben presto corrotto da questa educazione alla furbizia ed al profitto.

Ho iniziato ad insegnare per la passione ed amore che nutro per l’arte che pratico e continuo a farlo gratis.
Il compenso che ne può derivare è un frutto che non ho preventivato né saprei quantificare, un’offerta che mi viene e che mi porta ad interrogarmi costantemente se io ‘sia degno di questo dono’ (come recita il Gyohatsu Nenju, le strofe che si recitano durante il pasto Zen).
Faccio del mio meglio perché il Dojo, la nostra scuola, possa vivere e per poter vivere ha necessità di cura e nutrimento.
Sento di aver ricevuto incarico di essere custode di questa creatura che si nutre dei nostri sogni e del nostro gratuito entusiasmo. 
Questo è il mio compito, questo è quello che la vita mi ha chiamato a fare, forse per le mie caratteristiche che chissà, possono essere un buon veicolo per la trasmissione dell’arte portando beneficio ad altri… 
Di certo non per lo stipendio.

“Se apriamo le mani, possiamo ricevere ogni cosa. 
Se siamo vuoti, possiamo contenere l’universo”

Tratto da : 'La Forma del Vuoto: Riflessioni su Zen e Arti Marziali' di Paolo Taigô Spongia ed. Mediterranee

disponibile per l'acquisto in tutte le librerie e online: https://www.amazon.it/forma-vuoto-Riflessioni-arti-marziali/dp/8827232230/



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© Tora Kan Dōjō








domenica 3 marzo 2024

Un'unica vita, un solo respiro

Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento offerto da Paolo Taigō Kōnin Sensei durante la Pratica Zen.


Riportate costantemente l’attenzione alle mani che non perdano il contatto con il basso addome.  Le dita sono ben unite, i pollici devono avere un contatto delicato ma costante.

E’ veramente un Mudra molto sensibile e molto potente. A volte si dice: portate la vostra mente nel palmo della mano sinistra. Nel tenere le mani ben aderenti all’addome, nell’area che si trova più o meno quattro centimetri sotto l’ombelico, dovete abbassare le spalle, spingere i gomiti un po’ in avanti come se dovessero allinearsi ai polsi e fare in modo di aprire le braccia dal corpo, come in un inizio d'abbraccio. L’attenzione a questa posizione delle mani e delle braccia permette di rilassare le spalle ed aprire le articolazioni, creare spazio. L’addome è rilassato e qui si stabilisce fermamente il contatto con le mani.

Osservate il respiro e in particolare concentratevi sull’espirazione. L’espirazione è lunga e scende molto in basso, arriva al contatto delle mani con l’addome e poi va giù come se dovesse spegnersi nel terreno che ci sostiene. Non dovete fare uno sforzo particolare per allungare l’espirazione; a mano a mano che la postura si rettifica, e che il corpo e la mente si unificano nella postura di Zazen, il respiro si approfondisce spontaneamente, ed in particolare l’espirazione diventa più lunga e più profonda.

Abbandonatevi alla sensazione del respiro che va e viene come quando siete su una barca, come su di un materassino in mezzo al mare, e lasciate che le onde vi cullino.
Il respiro è un’onda, va e viene, a volte è più profondo, a volte è più superficiale.
Godete di questo momento così prezioso in cui potete diventare consapevoli della vita così com’è, ancora prima di quello che noi di solito identifichiamo con l’essere la nostra vita, la nostra attività, la nostra identità.

Nello Zen ci si riferisce spesso al ‘volto originale’, ‘il tuo volto ancora prima che i tuoi genitori nascessero’.
Quando ci perdiamo nella percezione del respiro, quando ci abbandoniamo alla vita così com’è entriamo in contatto con questo volto originale, possiamo farne la diretta esperienza, ed esso diventa il fondamento reale della nostra vita e delle nostre azioni. Per questo lo Zazen è così importante. A poco a poco diventiamo consapevoli di questa dimensione, diventa la nostra condizione naturale, siamo tornati a casa e abbiamo preso coscienza della vita così com’è prima ancora delle nostre fantasie su di essa; questa è la vera Illuminazione che offre lo Zazen.
Diveniamo consapevoli del fatto che c’è un fondamento di grande pace e grande profondità che è alla base della nostra vita e che è sempre presente. Questo cielo profondo, limpido, è sempre presente dietro le nuvole delle nostre illusioni, delle nostre preoccupazioni. Lo Zazen ci insegna a tornare spontaneamente e a prendere dimora in questo blu profondo. Ci accorgiamo che questo volto originale è il volto che ci accomuna a tutte le esistenze. È la vita che unisce ogni altra vita. E’ la vita che unisce tutte le forme attraverso le quali si esprime.

Poco fa abbiamo recitato l’Hannya Shingyo, il Sutra del Cuore, in un importante passaggio recitiamo: “ shiki soku ze ku ku soku ze shiki ”, “la forma non è che vuoto, il vuoto non è che forma”…

Si potrebbe anche tradurre come: la grande vita si manifesta nelle molteplici forme che non esistono di per sé; non sono altro che un’espressione, un movimento della grande vita. 

C’è una bella e divertente storiella che si racconta nello Zen. A Fudenji c’era anche un dipinto con delle vignette che rappresentavano questa storia:    

C’è un monaco che sente delle grida che vengono dall’orto del monastero. Va a vedere cosa succede e trova delle zucche che litigavano e si insultavano a vicenda dicendo: “tu sei piccola!” “tu sei brutta!” “tu sei storta!” “tu hai un brutto colore!”. Il monaco arriva e con voce decisa dice: “Fate silenzio, silenzio e sedetevi!”. Le zucche rispondono sedendosi in silenzio … Il monaco gli fa fare Zazen per una mezz’ora, poi, quando vede che si sono calmate ed il loro respiro è più profondo, gli suggerisce di poggiare una mano sulla loro testa e dirgli che cosa hanno trovato. Le zucche fanno quello che gli ha suggerito di fare il monaco… mettono la mano sulla testa e si accorgono che c’è una protuberanza che sporge. Allora il monaco dice: “Sentite bene, è come una corda, un ramo … seguitelo!”. Le zucche scorrono con la mano questa cordicella e si accorgono di essere tutte unite l’una con l’altra e di fare parte della stessa vita, di nutrirsi della stessa linfa.

E’ quello che facciamo quando sediamo in Zazen: tornando al nostro volto originale, tornando alla nostra vita prima ancora dei nostri pensieri, prima ancora di pensare essere una zucca speciale, diversa dalle altre, d’identificarci in quell’immagine di noi stessi, lo Zazen ti fa mettere una mano sulla tua testa e ti dice “Senti qui, vedi come il tuo respiro è il respiro dell’universo? Non potresti essere qui, il tuo sangue non circolerebbe, il tuo respiro non potrebbe andare e venire se tu non fossi unito a tutte le altre esistenze!”

Questa è la realizzazione più preziosa, il dono più prezioso che ci offre lo Zazen ogni giorno e non può che trasformare la nostra vita. Noi sediamo ogni giorno per ricordarci di questo. Come diceva Sawaki Roshi: “l’essere umano brancola nel buio con uno sguardo intelligente”… Facilmente ricadiamo nelle nostre illusioni, nei nostri condizionamenti che ci fanno pensare di essere un’entità separata, di essere una bella zucca o di essere una brutta zucca … Lo Zazen ci richiama a questa memoria e ci dice: “Attento! Ricorda che sei parte di tutta la vita, attento a non cadere nell’illusione della separatezza, abbi un’incrollabile fiducia perché tutta la vita ti sostiene.
Anche quando la vita ti sembra così difficile e tutto sembra essere contro di te, in realtà è tutta la vita che ti sostiene, ed è più quello che ti sostiene che quello che ti ostacola. Questa è una presa di coscienza molto importante. Questo ci da una grande forza ed una grande fiducia in qualsiasi situazione possiamo trovarci.

La Pratica costante e continua significa costantemente rammemorarsi, costantemente tornare a ricordaci questo. A poco a poco questa memoria diventa parte delle nostre cellule, difficile poi dimenticare.
Abbiamo però sempre bisogno di rinforzare e richiamare questa memoria; è come quando si torna a casa tra le nostre cose e ci sentiamo a nostro agio, ci rilassiamo e sentiamo che comunque abbiamo quel rifugio sicuro, lo stesso avviene con lo Zazen. Ogni giorno torniamo a questo rifugio sicuro, a questa certezza, a questa percezione del nostro volto originale. 

Sentite gli uccelli che cantano … quando noi recitiamo i nostri Sutra ci uniamo al canto di questi uccelli, ci uniamo al canto della vita. Non è, come spesso abbiamo interpretato in Occidente, una preghiera che noi esprimiamo per chiedere qualcosa in cambio, ma è un’espressione della nostra più profonda gratitudine, per aver riconosciuto questo legame e questo sostegno che non viene mai a mancare.

registrazione e trascrizione di Monica Tainin

© Tora Kan Dōjō

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lunedì 26 febbraio 2024

Qui, oggi, sono nato! ITA/ENG

 


"non c'è nessun accadimento della vita che può essere giudicato da una visione ristretta che può dire 'questo è un bene' o 'questo è un male'.

Se ho successo, è la mia vita e se fallisco, è ancora la mia vita.

Non si può sfuggire.

Avevo un amico, Ozawa Doyu, un monaco. Quando Era in un campo di concentramento in Siberia, contrasse una cancrena ad entrambe le gambe da congelamento e di conseguenza, gli dovettero amputare entrambe le gambe.

Sarebbe stato semplicemente umano soffrire per una tale perdita. Ma, Ozawa san fu capace di affermare, "qui oggi, proprio in questo momento, sono nato!" il suo atteggiamento era quello di chi era nato senza gambe sin dall'inizio perciò non aveva nulla di cui lamentare la perdita. Così la sua vita cominciò nuovamente".

Kosho Uchiyama Roshi


 English version:

I wish you to start everyday with such spirit, we do not need to wait our legs to be cutted...

"There’s nothing in life that necessitates laying on narrow views that this is evil and that is good. If I succeed, it’s my life and if I fail, it’s still my life. There’s no escape.

I had a friend, Ozawa Doyu, who happened to be a priest. When he was a POW in Siberia, he contracted gangrene in both legs from frostbite and consequently, had to have both of them cut off. It would be only human to lament such a loss. But Ozawa-san was fond of saying, “Here today, right now, am I being born!” His thinking was that if you have the attitude that were you born without legs in the first place, you wouldn’t have anything to lament. That’s when his life started again."

 Kosho Uchiyama Roshi

© Tora Kan Dōjō
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domenica 4 febbraio 2024

Il Maestro e Caravaggio (Ita/Eng)

Il 9 Aprile 2022, Sensei Paolo Taigō Kōnin Spongia ha tenuto al Tora Kan Dōjō una lezione sulla definizione di 'Maestro'. Ci ha offerto numerosi spunti di riflessione sull’importanza di avere un Maestro per conoscere noi stessi e approfondire la nostra pratica, e ha provocato diverse riflessioni sulle qualità che questo Maestro dovrebbe avere. Durante la lezione è emerso quanto il fatto di essere molto bravi in un campo, o grandi esperti in una disciplina, non sia necessariamente garanzia dell’essere buoni Maestri. Ci possono essere uomini che raggiungono l'eccellenza in un arte e pertanto la 'maestria' e che per questo possono essere chiamati 'Maestro' (mastro, maestro...) ma che non hanno nè la capacità nè l'interesse a trasmettere ad altri la propria esperienza.
Il 'Maestro' nell'accezione che prevede anche la trasmissione dell'esperienza è sia 'eccellente' nell'espressione artistica che nella trasmissione della stessa conoscendo le strategie pedagogiche ed educative necessaria perchè questa trasmissione avvenga. Strategie che nella maggior parte dei casi ha acquisito nella veste di discepolo nell'educazione e trasmissione ricevuta dal proprio Maestro.
Caravaggio è stato uno straordinario esempio di grandissimo artista, che ha raggiunto la maestria nella sua arte ma che non ha avuto interesse a trasmettere ad altri forse perchè impegnato a confrontarsi con le sue derive caratteriali tormentose.

Il testo che segue è un capitolo tratto del libro Il Tuo Rinascimento, di Maura Garau, e ci racconta alcuni episodi della vita di Caravaggio e di come le sue emozioni ingestibili lo abbiano portato a rovinarsi. E cosa possiamo fare noi quando proviamo delle forti emozioni che ci sovrastano?

Buona lettura!

Passo 7 

Caravaggio

La Rabbia e la Scelta

 

Nel capitolo precedente (passo 6) abbiamo parlato dell’importanza di lasciar fluire le nostre emozioni liberamente, per ascoltarle ed aiutarci a diventare più consapevoli di chi siamo, di cosa abbiamo bisogno e di quale direzione prendere. In questo capitolo riflettiamo su come gestire un’emozione che ci sovrasta e ci fa perdere il controllo di noi stessi. Riflettiamo su come esercitare la nostra capacità di scelta. Vediamo cosa possiamo imparare da Caravaggio a questo proposito. 

Caravaggio

La vita di questo grande artista, trascorsa fra il 1571 e il 1610, è stata drammatica ed estrema, proprio come le sue opere. Giulio Mancini, un biografo contemporaneo di Caravaggio, nel trattato Considerazioni sulla pittura ci racconta che già da giovane Caravaggio aveva un carattere stravagante e focoso: “Studiò in fanciullezza per quattro o cinque anni in Milano, con diligenza ancorché di quando in quando facesse qualche stravaganza causata da quel calore e spirito così grande”. 

La frase “qualche stravaganza causata da quel calore e spirito così grande” potremmo tradurla come “Caravaggio aveva davvero un caratteraccio”. Si infiammava per poco e non esitava ad usare la violenza. Fu spesso coinvolto in risse e denunciato per aggressione e possesso di armi. Ospite a Roma del cardinale del Monte fu capace di aggredirne un amico che lo denunciò. Fu anche denunciato da un servo di un’osteria per avergli tirato in faccia un piatto con dei carciofi. Frequentava i bassifondi, dove trovava intrattenimento e ispirazione per i suoi quadri.

Spesso fu giudicato irriverente e offensivo per avere utilizzato prostitute e poveri barboni come modello per le madonne e i santi dei suoi dipinti. A causa del suo carattere e delle sue reazioni violente dovette spesso scappare e andarsene dal luogo in cui abitava. 

Nel 1606 uccise un uomo per un litigio durante una partita di pallacorda, (un gioco antico che nella sua evoluzione ha dato origine al tennis). In seguito a questo omicidio fu condannato alla decapitazione; chiunque lo avesse incontrato avrebbe potuto ucciderlo diventando esecutore della pena. Così era la legge al tempo. Riuscì a scappare da Roma grazie ai suoi contatti con la potente famiglia Colonna e poté rifugiarsi a Napoli dove si trattenne continuando a dipingere in maniera prolifica. In seguito partì per Malta e sempre per intercessione della famiglia Colonna riuscì ad entrare nell’ordine dei Cavalieri di San Giovanni o Cavalieri di Malta. La sua speranza era, tramite l’ordine, di ottenere un perdono dal Papa per far rimuovere la condanna che pesava sul suo capo e poter tornare a Roma. Si trattenne a Malta continuando a dipingere ogni volta che poteva. 

Nel 1608 gli fu offerta la carica di Cavaliere, che gli avrebbe garantito l’impunità e la possibilità di tornare a Roma. Ma in seguito ad un litigio con un membro di rango superiore, i Cavalieri espulsero Caravaggio dall’Ordine, con disonore. Morì dimenticato e solo, su una spiaggia, nel tentativo di tornare a Roma, proprio quando pare che il Papa gli avesse concesso il perdono. Caravaggio aveva picchi emozionali molto forti e un’ira incontrollabile. Questo turbinio di passioni si riflette nei suoi dipinti, a tratti estremamente dolci e seducenti a tratti oscuri e angoscianti.

Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Musici,1597, The Metropolitan Museum of Art, NewYork

Nel meraviglioso quadro I musici notiamo la bellezza, la dolcezza e la sensualità nei visi e nei corpi di questi giovani. L’atmosfera è serena, provocante, rotonda, morbida e invitante. Caravaggio ritrae anche se stesso fra i musici. È il terzo a partire da sinistra. Si ritrae diverse volte all’interno dei suoi dipinti. Incarna profondamente la sua pittura ed è totalmente compenetrato in ogni sua azione. Ne Il diniego di San Pietro troviamo tutta la drammaticità dei contrasti che a ragione ci fanno definire Caravaggio come “il pittore delle luci e delle ombre”. Consapevole dell’impatto scenico, terribile e quasi angosciante, che riusciva ad ottenere con la tecnica dei contrasti, l’artista aveva l’abitudine di porre nel suo studio delle luci radenti per illuminare i soggetti e per creare forti effetti drammatici.


Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Il diniego di San Pietro,1610, The Metropolitan Museum of Art, NewYork

Nel dipinto vediamo il momento in cui Pietro nega di aver conosciuto Gesù. La donna lo denuncia alla guardia dicendo che Pietro è un seguace di Cristo, che lei stessa l’aveva visto fra gli apostoli, ma lui nega per ben tre volte di averlo conosciuto. Sembra un primo piano cinematografico. Le luci parlano per i personaggi. L’emozione del momento è tangibile.

La rabbia e la scelta

Verso la fine della tua meravigliosa passeggiata a piedi nudi sul muschio vellutato, in lontananza vedi delle persone che stanno andando via e lasciano vicino al ruscello i resti del loro picnic. Ti arrabbi, vuoi raggiungerle per dirgli di portar via la loro spazzatura ma non puoi correre sul sentiero senza scarpe perché ormai il muschio è finito ed il percorso è diventato sassoso, non hai il tempo di rimetterti le scarpe e raggiungere quei maleducati. 
Senti solo una gran rabbia. Cosa fai?

Caravaggio è stato un pittore passionale. Volentieri dimenticato dopo la sua morte, è stato riscoperto nel XX secolo e ancora ci regala delle grandi emozioni con i suoi dipinti. Ma nella sua vita personale sembra che non riuscisse assolutamente a gestire le proprie emozioni ed in particolare che non avesse scelta fra una reazione rabbiosa, emotiva e dirompente e un’azione equilibrata, efficace, appropriata alla situazione. Per molte persone alcune emozioni sono difficili da controllare. La paura. L’ansia. La rabbia... Ma cosa vuol dire “controllare” un’emozione? E davvero il controllo è la soluzione migliore? Nel capitolo precedente abbiamo sottolineato l’importanza di esprimere le proprie emozioni per non creare dei blocchi nel nostro interno. Il controllo è un blocco che alla lunga arriva alla repressione. Reprimere un’emozione forte non è una buona idea. Invece che essere esternata e scaricata rimarrà dentro di noi, come una forte pressione che può creare scompensi sia a livello psicologico che a livello fisico. Soprattutto se il controllo e la repressione diventano un’abitudine, il nostro corpo dapprima incasserà e poi inizierà a sfogarsi con eventuali malesseri se non addirittura con malattie. Espressioni come “mi è venuto un attacco di bile” o “mi sono fatto un fegato grosso così”, riferendosi ad un’arrabbiatura, ci danno l’idea di una persona che ha subito la sua stessa furibonda ira. Allora cosa dobbiamo fare? L’emozione va sempre espressa, perché ci libera e ci fa capire cosa stiamo sentendo, chi siamo e in che direzione dobbiamo muoverci. Nell’espressione possiamo però scegliere se dirigere l’emozione violentemente contro l’altro o contro noi stessi, oppure trasformarla e sfogarla per poter poi ragionare con più equilibrio e serenità.

Ad esempio, se Caravaggio invece che accoltellare il suo compagno di gioco avesse fatto una vigorosa corsa nella notte o avesse solo urlato come un pazzo, probabilmente la sua vita avrebbe avuto un finale diverso. Controllare e reprimere un’emozione è più facile che trasformarla. Siamo abituati a controllare e reprimere. Siamo poco abituati a trasformare. Trasformare presuppone la capacità di scegliere. Di vedere opzioni. Di essere flessibili per poter attivare la nostra capacità di scelta. Così come nel nostro corpo i tendini e i legamenti elastici e flessibili ci permettono di girarci, piegarci e allungarci nella direzione che vogliamo, nella nostra mente l’elasticità e la flessibilità ci permettono di trasformare una situazione e scegliere fra le diverse opzioni quella più opportuna. Trasformare è la via della liberazione. Ad esempio, se sentiamo una forte rabbia che ci invade, esprimiamola vocalmente, urliamo, facciamo una lunga corsa o facciamo una doccia gelata e poi osserviamo in silenzio cosa è rimasto di quella emozione. E come stiamo. E come possiamo prenderci cura della situazione. A mente lucida. Dalla solidità del nostro centro profondo. L’osservazione è sempre la prima chiave per diventare più consapevoli e poter trasformare le situazioni e la nostra vita. Osservazione, consapevolezza, creazione di opzioni, scelta, trasformazione. All’inizio questa dinamica richiede un po’ di tempo. Sembra strana, inusuale. Bisogna fare pratica. Ma poi il processo di trasformazione sarà sempre più rapido. E sempre liberatorio e rasserenante. Diventerà una seconda natura.

Consigli per Volersi Bene e Rinnovarsi

• Abbandona l’abitudine di reprimere le tue emozioni, riconoscile piuttosto e se necessario trasformale.

• Valuta se senti di avere un’emozione predominante che disturba la tua persona o la tua vita. Valuta cosa potresti fare per trasformare un’emozione disturbante. Quali opzioni di trasformazione hai? Quali scelte puoi fare in proposito? Quanta flessibilità hai?

• Valuta cosa ti aiuta quando ti sembra di non avere opzioni né scelta. Dove puoi trovare delle risorse? Come puoi ampliare i tuoi punti di vista? Puoi essere più flessibile?


Maura Garau 

Il Tuo Rinascimento8 Passi per Volersi Bene e Rinnovarsi. 


(English Version)

On April 9, 2022 at the Tora Kan Dōjō, Sensei Paolo Taigō Kōnin Spongia gave a lecture on the definition of 'Maestro' (Master, Teacher).
He offered us numerous insights on the importance of having a Teacher in order to get to know ourselves and deepen our practice, and he stimulated several reflections on the qualities that a Teacher should have.
During the lecture it emerged that the fact of being very good in a specific field, or a great expert in a discipline, is not necessarily a guarantee of being a good Teacher.
There may be men who achieve excellence in an art and therefore 'mastery', and who, for this reason, can be called 'Master' (mastro, maestro ...) but who have neither the ability nor the interest to pass down to others their own experience.
The 'Master' - in the sense of someone who also provides to pass down (transmit) the experience - is both 'excellent' in the artistic expression and in the passing down of the same, because he knows the pedagogical and educational strategies necessary for this passing down to take place. Strategies that in most cases he has acquired as a disciple in the education and 'transmission' received from his own Master.
Caravaggio was an extraordinary example of a great artist, who achieved mastery in his art but who had no interest in passing it down to others, perhaps because he was too busy dealing with his own tormenting soul.


The following text is a chapter taken from the book Your Renaissance, by Maura Garau, and tells us about some episodes in Caravaggio's life and how his unmanageable emotions led him to ruin. 
And what can we do when we feel strong emotions that overwhelm us?

Enjoy reading!

 

Step 7

Caravaggio

Rage and Choice

In the previous chapter (Step 6) we talked about the importance of letting our emotions flow freely, listening to them and allowing them to help us become more aware of who we are, what we need and what direction to take. In this chapter, we will reflect on how to manage an emotion that overwhelms us and causes us to lose control of ourselves, and how to exercise our ability to choose. In this regard, let us see what we can learn from Caravaggio.

Caravaggio

The life of this great artist, who lived between 1571 and 1610, was dramatic and extreme, just like his artwork. Giulio Mancini, a contemporary biographer of Caravaggio, tells us in his treatise Considerations on painting that, already as a young man, Caravaggio had an extravagant and fiery character. He states that: “He studied diligently for four or five years in Milan, even though from time to time his fiery spirit released some of its heat, causing him to commit some rash or extravagant deed.”

In other words, “his spirit released some of its heat” really translates into, “Caravaggio had a terrible temper”. He tended to lose his temper over little things and did not hesitate to use violence. He was often involved in brawls and was sued for assault and possession of weapons. While a guest at the palace of the Cardinal del Monte in Rome, he actually attacked a friend of the Cardinal, who later sued him. He was also sued by a waiter at an inn for having thrown a plate of artichokes in his face.

He frequented the slums where he found entertainment and inspiration for his paintings. He was often judged irreverent and offensive for having used prostitutes as models for the Madonnas depicted in his paintings or poor tramps as models for the saints.

Because of his character and violent reactions, he often had to run away and leave the place where he was living. In 1606 he killed a man in a quarrel during a game of pallacorda (an ancient ball game that eventually evolved into tennis). Following the murder, he was sentenced to death by beheading. Such was the law at the time, anyone who came across him could carry out the sentence. He managed to escape from Rome, thanks to his contacts with the powerful Colonna family, and he was able to take refuge in Naples where he continued to paint prolifically. He then left for Malta and, again through the intercession of the Colonna family, he managed to enter the Order of the Knights of Saint John, otherwise known as the Knights of Malta. His hope was to, through the Order, obtain forgiveness from the Pope, have the sentence that weighed on his head removed, and be able to return to Rome. In the meantime, he remained in Malta and continued to paint as much as he could.

In 1608 he was offered the position of Knight, which would have guaranteed him impunity and the possibility of returning to Rome. However, following a quarrel with a senior member, the Knights expelled Caravaggio from the Order with dishonor. He died forgotten and alone on a beach while attempting to return to Rome, just when it seems the Pope had granted him forgiveness.

Caravaggio had very strong emotional peaks, along with an uncontrollable anger. This whirl of passions is reflected in his paintings, which are at times sweet and seductive, and at others obscure and distressing. In the wonderful painting Musicians, we see the beauty, sweetness and sensuality of the faces and bodies of the young boys.

Michelangelo Merisi, known as Caravaggio, Musicians, 1597,

The Metropolitan Museum of Art, New York

 

The atmosphere is serene, provocative, harmonious, soft and inviting. Caravaggio also portrays himself among the musicians. He is the third from the left. He depicted himself in his paintings several times. He deeply embodied his painting. They were totally intertwined with all his actions.

Michelangelo Merisi, known as Caravaggio, The denial of Saint Peter, 1610,

The Metropolitan Museum of Art, New York

 

In The Denial of Saint Peter we can observe Caravaggio’s dramatic use of contrast, which earned him the name “the painter of lights and shadows.” Aware of the dramatic, terrible and almost distressing impact that he managed to achieve with the technique of contrast, he used to place oblique lights in his studio, positioning them close to his subjects to illuminate them and to create strong, dramatic effects. Here we see the moment in which Peter denies having known Jesus. The woman is reporting him to the guard saying that Peter was a follower of Christ, that she had seen him among the apostles, but he denies it, three times. He says he never met him. It looks like a cinematic close-up. The lighting speaks for the characters. The emotion of the moment is tangible.

Rage and Choice

Towards the end of your wonderful barefoot walk down the velvety moss path, in the distance you see some people heading away from their picnic spot, leaving the remains near the stream. You become angry, you want to walk up to them to tell them to take their garbage away but you cannot run on the path without shoes because now the moss has given way to rocks and you don't have time to put your shoes back on and reach those disrespectful people. You feel angry. What are you going to do?

Caravaggio was a passionate painter. After his death he was willingly forgotten by his contemporaries. Rediscovered in the twentieth century, he is still able to transmit strong emotions to those who look at his paintings. Nevertheless, in his personal life it seems that he could not manage his emotions at all. In particular, he had no way of choosing if he would react with an angry, emotional and disruptive reaction or with a balanced, effective and appropriate action. For many people, some emotions such as fear, anxiety and anger are difficult to control.

What exactly does it mean to control an emotion? Is control really the best solution? In the previous chapter we stressed the importance of expressing our emotions so as not to create barriers within us. Control is a barrier that eventually leads to repression. Repressing a strong emotion is not a good idea. Instead of being externalized and released it remains inside us, a pent up pressure that can create imbalances both on a psychological and physical level. If controlling and repressing certain emotions becomes a habit, our body will absorb them at first but, after a while, it will begin to let off steam in the form of discomfort, or worse, illness. Idiomatic expressions such as “I’m so angry I could explode” or “they are so angry that smoke is coming out of their ears” give us the idea of a person who is suffering from their own furious rage. So, what should we do? Strong emotions must always be expressed, as expression frees us and helps us understand what we are feeling, who we are and in what direction we must move. However, we can choose whether to direct the emotion violently against another person or against ourselves, or we can decide to transform it and let it flow in order to then be able to reason with more balance and serenity. For example, if Caravaggio had gone for a vigorous run or had released his rage by shouting instead of stabbing his teammate, his life would have probably had a very different ending.

Controlling and suppressing an emotion is easier than transforming it. We are used to controlling and repressing. We are not used to transforming. Transformation requires the ability to choose; to weigh the different options. In order to allow ourselves to value our choices, we must be flexible. In the same way that our elastic, flexible tendons and ligaments allow us to turn, bend and stretch in the direction we want, our mind’s elasticity and flexibility allow us to transform a situation and to choose the most appropriate course of action. Transformation is the way to liberation. For example, if we are overcome with anger, we can choose to express it vocally through a scream, or physically by taking a long run or a cold shower. Then we can silently observe what is left of that emotion. We can observe how we feel. We can decide how to handle the situation. We can decide with a clear head and make a decision from deep inside us, gaining strength from our solid core. Observation is always the first key to becoming more aware and being able to transform our situations and our life. Observation brings awareness, creating options, choice and transformation. In the beginning, this dynamic takes some time. It seems strange, unusual. We have to practice it. After some practice, the transformation process will become quicker and smoother and will be more liberating and soothing. It will become second nature. 

Tips to embrace your true self and renew your life

• Let go of the habit of repressing your emotions. Instead, recognize them and if necessary, transform them.

• Notice if there is a predominant emotion that is disturbing your soul or your life.

• Evaluate what you could do to transform that disturbing emotion. What options do you have for transformation? What choices can you make regarding the emotion? How much flexibility do you have?

• Evaluate what helps you when you feel you have no options or choices. Where can you find resources? How can you broaden your point of view? Can you be more flexible?


 Maura Garau

More information on the book Your Renaissance on

https://wellnessdaybyday.com/wellness-your-renaissance/

© Tora Kan Dōjō

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domenica 7 gennaio 2024

Lo Zen è liberazione dal tempo

 


Lo Zen è una liberazione dal tempo. Se infatti apriamo i nostri occhi e distinguiamo nettamente, risulta ovvio che non esiste altro tempo che questo istante, e che il passato e il futuro sono astrazioni senza una concreta realtà.
Finché ciò non sia diventato chiaro, sembra che la nostra vita sia tutta passato e futuro, e che il presente non sia niente di più di quel capello infinitesimale che li divide. Ne consegue la sensazione di “non aver tempo”, di un mondo che s’affretta con tale rapidità che è trascorso prima che noi lo abbiamo goduto. Ma attraverso “il risveglio all’istante” si capisce che tale impressione è l’opposto della verità; è piuttosto il passato e il futuro che sono illusioni “effimere, e il presente che è eternamente reale. Noi scopriamo che la successione lineare del tempo è una convenzione del nostro pensiero verbale monodiretto, di una coscienza che interpreta il mondo affermandone piccoli pezzi e chiamandoli cose ed eventi. Ma ognuno di simili atti della mente esclude il resto del mondo; così che tale tipo di coscienza riesce a conseguire una visione approssimativa del tutto solo mediante una serie di atti di possesso, l’uno di seguito all’altro. Nondimeno la superficialità di questa coscienza è palese nel fatto che essa non può regolare, e non regola, nemmeno l’organismo umano. Poiché se la coscienza dovesse controllare il battito del cuore, il respiro, l’azione dei nervi, delle ghiandole, dei muscoli, e degli organi dei sensi, si aggirerebbe con furia selvaggia per il corpo interessandosi di una cosa dopo l’altra, senza aver tempo per nulla di diverso. Fortunatamente non ha questo incarico, e l’organismo è regolato dalla “mente originale” che sta fuori del tempo, e occupandosi della vita nella sua totalità, può fare tante cose” in una volta.

 

Da: Alan Watts, La via dello zen.


© Tora Kan Dōjō









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