Bang-bang, I hit the ground
Bang-bang, that awful sound
Bang-bang, my baby shot me down
Uma Thurman, la Sposa, Black Mamba,
Beatrix Kiddo, arriva in Giappone, Okinawa, per incontrare la leggenda, il
grande Hattori Hanzō. Deve farsi forgiare la spada che la porterà da Bill, per
consumare la vendetta.
E’ scampata alla morte e ritiene di
potersi vendicare di Bill, ne fa un imperativo morale, Kill Bill per l’appunto.
Ma le serve l’acciaio giapponese del
miglior forgiatore di spade e samurai Hattori Hanzō.
Hanzō storicamente è stato un Samurai
legato a Ieyasu Tokugawa, che ebbe un ruolo importante nell’unificazione del
Giappone. Stando alle leggende diventò Maestro Samurai all’età di 18 anni e si
guadagnò il nomignolo di Hanzō il diavolo. Il figlio di Hanzō, Masanari e i
suoi uomini furono designati come guardie del castello di Edo.
Perché Tarantino lo collochi ad Okinawa
è un mistero, ma forse deve aver saputo che l’arcipelago è la culla di un arte
marziale micidiale, chiamata anche la via della mano vuota, e che la mano vuota
e la lotta senza armi, alla fine, sono una cosa sola con la lotta a mano piena,
spada inclusa. La vera attitudine marziale è dentro di noi, è data dallo
zanshin, dall’atteggiamento guerriero, quindi poco importa se siamo a Okinawa,
Osaka o Edo.
Il viaggio ad Okinawa nel film, benché avvenga
cronologicamente prima di ogni vendetta, è posto in una posizione centrale,
dopo la seconda esecuzione (in effetti la prima per chi guarda il film, vabbè è
Tarantino, e gli intrecci sono sempre molto curati).
In sintesi la storia: la Sposa, incinta, viene trucidata il giorno del suo matrimonio. Rimane appesa tra la vita
e la morte. Si salva, scappa. Ha un proposito di vendetta. Per attuarlo
intraprende il viaggio. Ha bisogno di Hattori Hanzō.
Dopo l’uccisione di Vernita Green, nel
montaggio audio, risuonano le parole di Hanzō in giapponese, sottotitolate: “Per i veri guerrieri, durante il
combattimento annientare il nemico deve essere l’unica preoccupazione. Reprimi
ogni emozione e ogni compassione. Uccidi chiunque ti ostacoli la strada
foss’anche Dio o Buddha in persona. Ecco il principio che sta al centro
dell’arte del combattimento”.
Hattori è un Maestro. Hattori forgia
Spade. La Sposa ha bisogno di una Spada forgiata da Hattori.
Quando la Sposa arriva ad Okinawa si reca da
Hattori, che sembra gestire una locanda dove prepara e serve sushi e saké.
Intrattengono un simpatico siparietto.
Si parla in inglese di quanto bene lei parli il giapponese (in realtà conosce
poche parole). Hattori ha un tono affabile e cortese. Non conosce ancora il
vero proposito di Black Mamba. Le dice che pronuncia Arigato proprio come i giapponesi pronunciano Arigato. Il tono cortese mantiene alla superficie il loro rapporto,
si studiano, cercano un linguaggio comune, un linguaggio che possa creare lo
spazio per un dialogo proficuo. “dovresti
imparare il giapponese” “dicono sia
difficile” “molto difficile, ma tu
hai lingua giapponese”.
Il dialogo cortese fra i due è
inframezzato da scambi in giapponese fra Hattori e il suo cameriere, che non
sembra affatto gradire il proprio ruolo di sottoposto. Il quadro d’insieme è
divertente, si passa dall’estrema cortesia verso il cliente straniero,
l’ospite, e l’asprezza fra i conterranei :“perché
devo portarlo sempre io il saké? Ascoltami bene, dopo 30 anni tu prepari il pesce
e io porto il saké, se fossimo nell’esercito sarei già generale” “Saresti generale? Se tu fossi generale io
sarei imperatore e porteresti comunque il saké. Quindi porta il saké, pelato!”
Quando la Sposa palesa la sua intenzione
di incontrare Hattori, quando cade la maschera di cortesia e il locandiere
viene riconosciuto come Maestro, i toni cambiano. Lui la conduce nella sala
dove custodisce le sue creazioni, gratificato dal fatto di essere stato
riconosciuto. Ma alla richiesta di forgiare una nuova spada, si nega, “ci tenevo che tu le vedessi. Ma tu che sai
tante cose saprai anche che non costruisco più strumenti di morte, quelle che
vedi qui le custodisco per il loro valore estetico e affettivo sono orgoglioso
del mio lavoro ma ormai sono in pensione” ringuainando la spada. La stessa
spada che aveva mostrato a Uma, e sulla quale lei, sfoderandola, aveva potuto
vedere il riflesso dei propri occhi.
Le spade non sono in vendita. L’arte non
è un bene commerciale. Ma lei non ha detto “mi
venda”, ma “mi dia”. E’ sempre
sulla base di uno scambio linguistico che si instaura un rapporto con il Maestro.
Ogni rapporto è un contratto che lega due contraenti. E il linguaggio comune,
l’obbligo che ha Hattori nei suoi confronti, il motivo per il quale deve
aiutare la sposa è che “il parassita è un
suo allievo, e considerato l’allievo direi che lei ha un grosso obbligo nei
miei confronti”. Un Maestro viene giudicato anche dal valore e dalle azioni
dei propri allievi, benché l’azione dell’allievo rimanga libera e giuridicamente
non imputabile ad altri. Hattori è turbato. Si presta all’opera. Riconosce il
proprio debito.
Nella fase della consegna della Spada muta
il linguaggio tra Maestro e Allievo. L’allievo cameriere che è accanto ad
Hattori e che lo serve da 30 anni, è un buon allievo. Hattori ha smesso di
costruire oggetti di morte da 28 anni. Il Maestro ha forgiato sia l’allievo
fedele che Bill. L’esito del lavoro di un Maestro non è completamente nelle sue
mani. Il risultato di un insegnamento è sempre incerto. Entra in gioco anche la
natura dell’allievo.
L’episodio come dicevo avviene
cronologicamente prima di ogni vendetta. Ma è posto al centro del film (Kill Bill vol. 1) ne è il fulcro. Quando
Hattori comincia il rito di consegna della spada, i comportamenti dei due
giapponesi mutano. Da parte dell’allievo c’è ora un’attenzione millimetrica
alla distanza, alla cura del maestro, al rispetto, inserito
in un dialogo silenzioso dove tutto è calibrato alla perfezione, i ruoli, i
gesti, i toni, i silenzi, gli sguardi. Hattori mostra la spada con l’aiuto del
suo allievo, e questa è posta al centro dello schermo. I due, vestiti di bianco
si muovono secondo un rituale ben preciso. Lo sguardo dell’allievo è
concentrato, non si perde.
Il maestro è Maestro. Una volta
riconosciuto questo, il discepolo è discepolo nel rito in cui il maestro è
Maestro. Ma il rito ha i suoi luoghi e i suoi tempi al di fuori dei quali i due
hanno avuto la libertà di confrontarsi, dove l’allievo si è creato uno spazio
per la ribellione e la critica. Al momento in cui entra in ballo l’arte, per la
quale il maestro è Maestro, il discepolo parla la lingua del Maestro, e questi si fa comprensibile, senza bisogno di parole o ordini. Ci si siede di
fianco al Maestro, vestiti di bianco, gli si porge l’elsa, si ha cura e
rispetto del prodotto del Maestro, della sua maestria e del suo rito. Il
Maestro e il discepolo devono parlare la stessa lingua, deve esserci fiducia,
un linguaggio che li unisca e li metta in relazione, non c’è maestro senza
discepolo, (la maestria di suo non fa un maestro), e sicuramente non c’è
discepolo senza maestro. Non si può diventare Maestri senza avere un Maestro.
Nel momento decisivo entra in ballo la
questione che è al centro dell’insegnamento di ogni arte marziale, la lotta
contro il proprio nemico, la scelta fra bene e male, fra destra e sinistra, fra
azione e quiete, fra vita e morte, saper vedere quel sottile discrimine che
solo la spada riesce a tagliare, che solo l’azione decisa del lottatore sa fronteggiare,
quell’azione per la quale ci siamo formati allenando il nostro corpo, il nostro
cuore e il nostro spirito, e che si ripete tutti i giorni, a tutte le ore del
giorno, ma che è allo stesso tempo sempre e soltanto una e decisiva, l’azione
consapevole, il colpo finale. Solo allora si avvera l’insegnamento del Maestro,
che ci ha accompagnati fino alla soglia, e che abbiamo amato e rispettato anche
perché sapevamo che era proprio qui che voleva portarci, dove siamo ora.
L’istinto ci ha portato ad Okinawa, in cerca del Maestro, ci ha messo in cerca
della Spada forgiata con il miglior acciaio giapponese, il Maestro ci ha donato
il frutto della sua arte: “se incontrassi
Dio sul tuo cammino lo faresti a pezzi”, il Maestro ci ha portati lì, sul
baratro, a dover fare i conti con la forza di gravità, con le intemperie, a
doverci assumere le nostre responsabilità, a oltrepassare da noi stessi la
soglia, a compiere il balzo, a sentirci pronti anche se non lo siamo, a sentire
il vento in faccia, e infine a farlo a pezzi, a fare a pezzi il Maestro stesso compiendo
il suo insegnamento. Su questa strada non ci sarà Dio o Buddha a fermarti. E se
pure ci fosse saresti costretto ad andare oltre, padrone della tua vita e della
tua arte.
“Ho
fatto ciò che 28 anni fa avevo giurato di non fare mai più, ho creato qualcosa
che uccide le persone e in questo sono stato grande l’ho fatto perché
filosoficamente approvo il tuo scopo. Senza presunzione questa è la mia spada
migliore, se incontrassi Dio sul tuo cammino lo faresti a pezzi . Bionda
guerriera vai”.
La scena si chiude con una semplice
parola, detta nella lingua del Maestro:
“Domo”
Emilio Chelini - Shidoin Tora Kan Dōjō
© Tora Kan Dōjō
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